Il danneggiato non può sottrarsi alla prova del danno psicologico chiedendo la consulenza tecnica

La consulenza tecnica d’ufficio non è un mezzo istruttorio in senso proprio, avendo la mera funzione di coadiuvare il giudice nella valutazione di elementi acquisiti, ed è quindi legittimamente negata qualora la parte che la richiede intenda supplire in tal modo alla deficienza delle proprie allegazioni ovvero a far compiere un’indagine esplorativa alla ricerca di fatti e circostanze da essa non dimostrati, pretendendo in tal modo di essere esonerata dall’onere probatorio.

Lo ha affermato la Corte di Cassazione con la sentenza n. 7639/15 depositata il 15 aprile. I fatti. Un’Azienda Ospedaliera veniva convenuta in giudizio per il risarcimento dei danni, patrimoniali e non, subiti da una paziente quale conseguenza del grave errore nella diagnosi di un tumore maligno e dell’errore nell’operazione chirurgica seguita. Il Tribunale di Milano accoglieva parzialmente la domanda attorea, pronuncia confermata dalla Corte d’appello. La danneggiata impugna la sentenza di secondo grado con ricorso in Cassazione. Consulenza tecnica e onere della prova. Con il primo motivo la ricorrente lamenta il mancato accoglimento della richiesta di consulenza psichiatrica ed il conseguente mancato riconoscimento del danno psichico. Il motivo non merita accoglimento in quanto, sottolinea la Corte di Cassazione, il giudice ha ritenuto la consulenza specialistica richiesta dalla ricorrente meramente esplorativa poiché i sintomi soggettivi del disturbo psichico addotti dalla danneggiata non avevano trovato riscontri oggettivi. La decisione è conforme alla costante giurisprudenza di legittimità secondo la quale la consulenza tecnica d’ufficio non è un mezzo istruttorio in senso proprio, avendo semplicemente la funzione di coadiuvare il giudice nella valutazione di elementi acquisiti e nella risoluzione di questioni che richiedono conoscenze specifiche. È dunque legittima la negazione della stessa qualora la parte che la richiede tenda, con la consulenza medesima, a supplire alla deficienza delle proprie allegazioni o offerte di prove, non potendo tale mezzo di indagine esonerare il danneggiato dall’onere probatorio. Il danno morale e il danno esistenziale. La ricorrente si duole altresì per la mancata considerazione della sofferenza psichica/depressione ai fini della liquidazione del danno biologico. Anche tale censura risulta priva di pregio. La Corte d’appello ha correttamente rigettato il gravame riguardante il danno morale, rilevando il carattere unitario del danno non patrimoniale, quale compressione di interessi personali di natura non economica, ritenendolo compreso nella maggiorazione del 25% del valore tabellare ritenuto applicabile quale personalizzazione del danno appunto non patrimoniale. Con l’accoglimento della doglianza prospettata, la ricorrente sostanzialmente otterrebbe una duplicazione della tutela accessoria, che la giurisprudenza costante nega. Il danno patrimoniale da incapacità lavorativa. Ulteriore profilo oggetto di censura riguarda il mancato riconoscimento del danno patrimoniale da incapacità lavorativa specifica e generica, invocando la ricorrente una pronuncia Corte di Cassazione, sent. n. 908/13 che però si pone in aperto contrasto con l’indirizzo di legittimità consolidato, riconducendo nel danno patrimoniale il danno da incapacità lavorativa generica il quale, invece, è tradizionalmente ricondotto nell’ambito del danno non patrimoniale sotto il profilo del danno biologico . La sentenza impugnata si è difatti conformata alla giurisprudenza consolidata, che la Cassazione ancora una volta condivide, secondo la quale all’interno del risarcimento del danno alla persona, il danno da riduzione della capacità lavorativa generica non attiene alla produzione del reddito, ma si sostanzia – in quanto lesione di un’attitudine o di un modo d’essere del soggetto – in una menomazione dell’integrità psico–fisica risarcibile quale danno biologico . Per la lesione alla capacità lavorativa specifica inoltre l’accertamento dei postumi non determina automaticamente l’obbligo di risarcimento, dovendo comunque il danneggiato dimostrare in concreto la diminuzione o il mancato conseguimento dell’attività produttiva di reddito precedentemente svolta. Per questi motivi, la Cassazione rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Corte di Cassazione, sez. VI Civile – 3, sentenza 11 febbraio – 15 aprile 2015, n. 7639 Presidente Finocchiaro – Relatore Carluccio Svolgimento del processo 1. C.S. convenne in giudizio l'Azienda Ospedaliera omissis e chiese il risarcimento dei danni patrimoniali, e non patrimoniali, conseguenti al grave errore nella diagnosi di tumore maligno e al grave errore chirurgico di asportazione del seno sinistro, in cui erano incorsi i medici dipendenti. Il Tribunale di Milano, sezione distaccata di Rho, accolse parzialmente le domande attoree e condannò la convenuta al pagamento di oltre Euro 38.000,00, e accessori. La Corte di appello di Milano, adita dalla danneggiata, confermò la decisione di primo grado sentenza del 24 aprile 2013 . 2. Avverso la suddetta sentenza, C.S. propone ricorso per cassazione affidato a due motivi. Resiste con controricorso l'Azienda ospedaliera. Motivi della decisione 1. Con il primo motivo si deduce la violazione degli artt. 1218 e 2697 cod. civ., nonché degli artt. 112 e 116 cod. proc. civ., in riferimento all'art. 360 n. 3 del codice di procedura. Con il secondo motivo si deduce la violazione dell'art. 112 cod. proc. civ., in riferimento all'art. 360 n. 5 del codice di procedura. Vanno trattati congiuntamente per la stretta connessione. 1.1. Le censure contenute nella parte esplicativa dei motivi sono ben individuabili al di là del richiamo improprio, nella rubrica, degli artt. violati e concernono la quantificazione del danno. Inoltre, è rispettato l'art. 366 n. 6 cod. proc. civ., essendo ritualmente richiamata la consulenza tecnica nella parte di interesse, con indicazione delle pagine di corrispondenza. Non ha pregio, pertanto, l'eccezione di inammissibilità prospettata dalla controricorrente, per genericità e difetto di autosufficienza. 2. In sintesi, la ricorrente lamenta soprattutto con il primo motivo il mancato accoglimento da parte del primo giudice - e poi dal giudice di appello - della richiesta di consulenza psichiatrica, in collegamento con il conseguente mancato riconoscimento del danno psichico che la consulenza specialistica avrebbe potuto accertare e che la ricorrente assume ammontante a Euro 300 mila. La parte mette in evidenza che il consulente d'ufficio, dopo aver qualificato i sintomi della danneggiata come soggettivi e aver riferito di crisi umorali nel corso delle visite e, dopo aver messo in evidenza che la danneggiata non aveva allegato di essere in cura per patologia psichica, suggerisce l'opportunità di consulenza specialistica. Il motivo va rigettato 2.1. Il giudice ha ritenuto esplorativa la consulenza specialistica, richiesta per l'accertamento della patologia psichica. Ha argomentato nel senso che, secondo quanto riferito dal consulente, i sintomi soggettivi di disturbi psichici addotti dalla danneggiata non avevano trovato riscontro nella allegazione, da parte della stessa, di cure specifiche in corso al momento della consulenza. La decisione del giudice è conforme alla costante giurisprudenza di legittimità. È noto che la consulenza tecnica d'ufficio non è mezzo istruttorio in senso proprio, avendo la finalità di coadiuvare il giudice nella valutazione di elementi acquisiti o nella soluzione di questioni che necessitino di specifiche conoscenze. Ne consegue che il suddetto mezzo di indagine non può essere utilizzato al fine di esonerare la parte dal fornire la prova di quanto assume, ed è quindi legittimamente negato qualora la parte tenda con la consulenza a supplire alla deficienza delle proprie allegazioni o offerte di prova, ovvero a far compiere una indagine esplorativa alla ricerca di elementi, fatti o circostanze non provati, da ultimo, Cass. n. 3130 del 2011 n. 212 del 2006 . Invero, in mancanza di elementi di prova allegati dalla parte quali, per esempio, certificati di cure mediche in corso per la sofferenza psichica la mera prospettazione di sintomatologia soggettiva rendeva la consulenza richiesta meramente perlustrativa e non rispettosa del principio dell'onere della prova gravante sul danneggiato. 3. Soprattutto nel secondo motivo, la ricorrente lamenta, inoltre, il mancato riconoscimento di alcune voci di danno - patrimoniale e non patrimoniale - per una differenza di quantificazione complessiva pari a circa 60 mila Euro. In riferimento al danno morale, e al danno esistenziale con argomentazioni che spesso si sovrappongono si censura la sentenza per omessa pronuncia, prospettando una voce di danno autonoma, quale sofferenza psichica/depressione che non sarebbe stata considerata nell'ambito della liquidazione del danno biologico La ricorrente invoca la decisione Cass. n. 20292 del 2012 in cui la Corte di legittimità ha ritenuto che Il danno biologico cioè la lesione della salute , quello morale cioè la sofferenza interiore e quello dinamico-relazionale altrimenti definibile esistenziale, e consistente nel peggioramento delle condizioni di vita quotidiane, risarcibile nel caso in cui l'illecito abbia violato diritti fondamentali della persona costituiscono pregiudizi non patrimoniali ontologicamente diversi e tutti risarcibili né tale conclusione contrasta col principio di unitarietà del danno non patrimoniale, sancito dalla sentenza n. 26972 del 2008 delle Sezioni Unite della Corte di cassazione, giacché quel principio impone una liquidazione unitaria del danno, ma non una considerazione atomistica dei suoi effetti”. 3.1. La censura proposta non ha pregio. La Corte di appello ha rigettato l'appello proposto avverso la sentenza di primo grado, nel quale era stata pure dedotta omessa pronuncia sul profilo del danno morale, rilevando il carattere unitario del danno non patrimoniale inteso come compromissione di interessi inerenti la persona non aventi rilevanza economica e, nel contempo, la non necessità di menzioni nominalistiche aventi mere funzioni descrittive. Quindi, ha ritenuto compreso il danno morale in quello liquidato dal giudice di primo grado attraverso la maggiorazione del 25% del valore base delle tabelle maggiorazione percentuale che era stata attribuita proprio per la personalizzazione del danno non patrimoniale, in considerazione del danno psicofisico nel suo complesso. La Corte di merito ha aggiunto, infine, che la danneggiata non aveva dedotto un particolare atteggiarsi del perturbamento. In presenza di tale accertamento in fatto, con il quale si riconosce l'avvenuta considerazione del danno quale sofferenza interiore nella quantificazione del danno non patrimoniale personalizzato, non ha pregio la censura della ricorrente che mira ad una maggiorazione dello stesso attraverso l'emersione, come dato non considerato, del danno morale sotto il profilo della sofferenza nelle condizioni di vita quotidiane dinamico-relazionali, perché - in mancanza di specifici motivi di sofferenza allegati — tale riconoscimento si risolverebbe nella duplicazione della tutela risarcitoria, che la citata sentenza delle Sezioni Unite del 2008, ha inteso scongiurare. 4.Con riferimento al danno patrimoniale da incapacità lavorativa specifica e generica, la censura alla sentenza impugnata si sostanzia nell'invocazione di una decisione Cass. n. 908 del 2013, che, in contrasto con l'indirizzo di legittimità consolidato, ricomprende nel danno patrimoniale il danno da incapacità lavorativa generica il quale, invece, è tradizionalmente ricondotto nell'ambito del danno non patrimoniale sotto il profilo del danno biologico. La censura non ha pregio e va rigettata. 4.1. La Corte di merito, nel rigettare l'impugnazione che sul punto era stata avanzata, ha rilevato che la sentenza di primo grado aveva implicitamente disatteso la pretesa di danno patrimoniale per riduzione della capacità lavorativa generica in sintonia con la giurisprudenza assolutamente dominante, che prende in considerazione solo l'incapacità lavorativa specifica sotto il profilo del danno patrimoniale, incidente sulle prestazioni del danneggiato, sempre che sia provato anche in via presuntiva il danno. Ha aggiunto che la consulenza tecnica, non censurata dalla danneggiata, aveva escluso che le mansioni impiegatizie elementari espletate fossero state compromesse. Ha, inoltre, precisato che la parte non aveva provato un demansionamento, né di aver subito una diminuzione reddituale. 4.2. A fronte di tale precisa argomentazione, la ricorrente si è limitata ad invocare la sentenza in controtendenza richiamata, secondo la quale La lesione della capacità lavorativa generica, consistente nella idoneità a svolgere un lavoro anche diverso dal proprio, ma confacente alle proprie attitudini, costituisce un danno patrimoniale, che non è affatto necessariamente ricompreso nel danno biologico, e la cui sussistenza deve essere accertata caso per caso dal giudice di merito, il quale non può escluderlo per il solo fatto che le lesioni patite dalla vittima non abbiano inciso sulla sua capacità lavorativa specifica”. Con una censura, quindi, del tutto generica rispetto alle argomentazione della sentenza impugnata, che non sono scalfite neanche rispetto alla valutazione della capacità lavorativa specifica. La Corte di merito infatti, ha deciso in modo conforme alla giurisprudenza di legittimità consolidata, che si condivide, secondo la quale All'interno del risarcimento del danno alla persona, il danno da riduzione della capacità lavorativa generica non attiene alla produzione del reddito, ma si sostanzia - in quanto lesione di un'attitudine o di un modo d'essere del soggetto - in una menomazione dell'integrità psico-fisica risarcibile quale danno biologico” da ultimo Cass. n. 18161 del 2014 . E, per quanto riguarda la capacità lavorativa specifica, la giurisprudenza ha affermato che L'accertamento dell'esistenza di postumi permanenti incidenti sulla capacità lavorativa specifica non comporta l'automatico obbligo di risarcimento del danno patrimoniale da parte del danneggiante, dovendo comunque il soggetto leso dimostrare, in concreto, lo svolgimento di un'attività produttiva di reddito e la diminuzione o il mancato conseguimento di questo in conseguenza del fatto dannoso”. da ultimo, Cass. n. 15238 del 2014 . 5. In conclusione, il ricorso deve essere rigettato. Le spese processuali, liquidate secondo i parametri vigenti, seguono la soccombenza. P.Q.M. La Corte di Cassazione rigetta il ricorso condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese processuali del giudizio di cassazione, che liquida in Euro 3.000,00, di cui Euro 200,00 per spese, oltre alle spese generali ed agli accessori di legge. Ai sensi dell'art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall'art. 1, comma 17 della l. n. 228 del 2012, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma I-bis, dello stesso articolo 13.