Diagnosi in sala operatoria, cambio di intervento. Ma riferimento è l’originario consenso del paziente ...

Ancora in bilico la richiesta avanzata da un uomo per le pesanti complicazioni subite a seguito di un’operazione chirurgica. Pomo della discordia, però, non è la qualità dell’esecuzione dell’intervento, ma il fatto che egli ha prestato il proprio consenso ad un tipo di operazione, subendone però una più invasiva. E un’interpretazione ‘larga’ del consenso è difficile

Consenso rigido, e quindi assolutamente non ‘adattabile’ e non ampliabile. Perché il placet, ‘nero su bianco’, del paziente è da considerare come unico, cioè legato esplicitamente all’operazione che i medici hanno concordato con lui. E questa visione non può essere modificabile neanche dalla considerazione che il ‘cambio’ chirurgico si sia reso necessario in una situazione di emergenza, in sala operatoria Cassazione, sentenza n. 14024, Terza sezione Civile, depositata oggi . Consenso . Ad affrontare la lunga battaglia giudiziaria – avviata ben quindici anni fa – è un uomo, la cui vita è completamente stravolta a causa dei postumi di un intervento chirurgico subito in un noto ospedale meridionale. Ma casus belli è, in realtà, il fatto che egli, all’epoca dei fatti, ha firmato il modulo di cosiddetto ‘consenso informato’ per una specifica operazione, per poi subirne una diversa, più delicata, più complessa, più invasiva, come dimostrato anche dalla complicazione subita. Ciò nonostante, sia in Tribunale che in Corte d’appello, la richiesta di risarcimento dei danni avanzata dall’uomo è ritenuta non fondata. Per quale ragione? Perché, spiegano i giudici di secondo grado, la diagnosi precisa era stata eseguita, necessitatis causa, solo in sede di intervento chirurgico quindi, a fronte di una complicanza ad operazione in corso, i medici non avrebbero potuto interrompere l’intervento per munirsi di un più esplicito e dettagliato consenso . Ma questo elemento – contestato duramente prima dall’uomo, poi dai suoi familiari più stretti – viene messo seriamente in discussione dai giudici della Cassazione. Per questi ultimi, difatti, è illogico estendere ad un intervento diverso e dalle diverse, possibili conseguenze la manifestazione di consenso prestata dal paziente a quello invece previsto in origine. E tale visione non può essere scalfita dalla considerazione – richiamata in Appello – che la diagnosi precisa fu eseguita in sede di intervento chirurgico . Ciò comporta, ovviamente, la riapertura della battaglia giudiziaria, coll’accoglimento del ricorso proposto dagli eredi dell’uomo toccherà nuovamente ai giudici della Corte d’Appello valutare la vicenda e decidere sulla richiesta di risarcimento dei danni.

Corte di Cassazione, sez. III Civile, sentenza 22 gennaio - 4 giugno 2013, n. 14024 Presidente Petti – Relatore Travaglino Svolgimento del processo Nel giugno del 1998, C.A. evocò in giudizio, dinanzi al tribunale di Napoli, l’ospedale Cardarelli e la gestione liquidatoria dell’USL 40 Napoli 1, e ne chiese la condanna al risarcimento dei danni subiti a seguito di un intervento chirurgico, esponendo, in sintesi che, nel luglio del 1993, era stato ricoverato presso l’ospedale Cardarelli di Napoli con diagnosi di ascesso gluteo destro”, successivamente specificata in ascesso perianale - fistola sacrococcigea. Ascessualizzato” che, nonostante avesse firmato il modulo di cd. consenso informato” rectius, informazione acconsentita riferito ad un intervento di fistola sacrococcigea”, era stato invece operato di fistola perianale trans-sfinterica”, riportando, come complicazione, un’incontinenza ancora attuale alle feci solide che tali complicazioni, pur se normalmente previste a seguito dell’intervento subito, non lo erano, invece, per l’intervento cui egli aveva prestato il proprio consenso. Integrato il contraddittorio nei confronti della regione Campania, disposta ed esperita CTU, il giudice di primo grado respinse la domanda. La corte di appello di Napoli, investita del gravame proposto dall’attore soccombente - che sostenne, con il conforto del giudizio espresso dal consulente d’ufficio, di aver subito un intervento chirurgico diverso da quello per il quale aveva prestato il proprio consenso, e per il quale nessuna informazione e nessun consenso potevano dirsi legittimamente espressi lo rigettò, ritenendo che il, paziente, a seguito della modifica della diagnosi, fosse stato pur sempre reso edotto dell’esistenza di una patologia nella regione anorettale e della necessità di eseguire un intervento che, seppur a lui rappresentato come di drenaggio ascesso perianale”, implicava all’occorrenza anche la rimozione di una fistola come causa e complicanza dell’ascesso ed opinando ancora, sotto altro profilo, che la diagnosi precisa fosse stata eseguita necessitatis causa solo in sede di intervento chirurgico consistito nella asportazione mediante bisturi elettrico del tessuto fistoloso sino ad arrivare ai fasci dello sfintere esterno , onde, a fronte di tale complicanza, i medici non avrebbero potuto interrompere l’intervento per munirsi di un più esplicito e dettagliato consenso. Osserverà ancora la corte territoriale che, ove il paziente che aveva sottoscritto il consenso all’intervento suddetto non fosse stato messo al corrente dei relativi rischi e delle possibili complicanze, avrebbe dovuto egli stesso fornirne la relativa prova. Di qui, la non condivisione, da parte della corte partenopea, delle diverse conclusioni rassegnate dal CTU, ed il conseguente rigetto dell’impugnazione. La sentenza è stata impugnata da C.A. con ricorso per cassazione sorretto da tre motivi di doglianza e illustrato da memoria. Resiste la regione Campania con controricorso. Motivi della decisione Il ricorso è fondato. Con il primo motivo, si denuncia violazione e/o falsa applicazione degli artt. 115, 116 c.p.c. in relazione all’art. 360 I comma n. 3 e 4 c.p.c., nonché art. 360 n. 5 c.p.c. per omessa o insufficiente su fatti decisivi del giudizio. Il motivo si conclude con il seguente quesito di diritto Si chiede alla Suprema Corte se la sentenza n. 4361 della corte di appello di Napoli ha realizzato una violazione dell’art. 360 nn. 3, 4 e 5 c.p.c. nella parte in cui si discosta dalle conclusioni e dalle motivazioni del CTU in assenza di contestazioni delle altre parti, omettendo di motivare adeguatamente tale dissenso, astenendosi dall’addurre elementi di contenuto scientifico altrettanto validi rispetto a quelli addotti dal CTU ed astenendosi, nel motivare il proprio contrario avviso, dall’evidenziare eventuali vizi logici insiti nel ragionamento del CTU. Con il secondo motivo, si denuncia violazione e/o mancata applicazione degli artt. 2, 13 e 32 della Costituzione e dell’art. 3 della Carta di Nizza Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea approvata dal Consiglio europeo il 7.12.2000 , dell’art. 1218, 1176, 2230 e 2236 c.c., nonché dell’art. 33 della legge 833/78 in relazione all’art. 360 I comma n. 3 c.p.c Il motivo si conclude con la formulazione del quesito di diritto che segue Si chiede alla suprema corte se la corte di appello di Napoli, con la sentenza n. 4361/08, ha realizzato una violazione e/o mancata applicazione delle norme indicate nella parte in cui ritiene lecito e legittimo che il sig. A.C. sia stato sottoposto ad un intervento chirurgico di fístulectomia perianale” che ha comportato una incompetenza fecale cronica, in presenza di un consenso informato prestato per drenaggio ascesso perianale” che non prevede particolari rischi e complicanze e in ogni caso non contempla la possibilità che si verifichi una incontinenza fecale come è accaduto nel caso de quo. Con il terzo motivo, si denuncia insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio. Il motivo si conclude con la seguente sintesi espositiva correttamente formulata ai sensi dell’art. 366 bis c.p.c. Si chiede alla corte suprema se la sentenza n. 4361 della corte di appello di Napoli è contraddittoria nella parte in cui sostiene che è legittimo il comportamento dei sanitari dell’ospedale Cardarelli di Napoli che, dopo aver individuato con una fistolografia la presenza di una fistola perianale, hanno fatto sottoscrivere ad A. un consenso informato per drenaggio ascesso perianale operandolo di fistolectomia perianale, aggiungendo la sentenza che tale drenaggio implicava all’occorrenza la rimozione della fistola come causa e complicanza ulteriore contraddizione logicosemantica dell’ascesso d’altra parte la diagnosi precisa fu eseguita in sede di intervento chirurgico”. I motivi che possono essere esaminati congiuntamente, attesane la intrinseca connessione logico-giuridica sono, nel loro complesso, fondati. Gravemente carente appare, difatti, la motivazione della sentenza impugnata nella parte in cui, pur discostandosi dalle conclusioni raggiunte dal CTD, ritiene, invero apoditticamente, estendersi” ad un intervento diverso e dalle diverse, possibili conseguenze la manifestazione di Consenso prestata dal paziente a quello invece previsto, opinando, del tutto immotivatamente ed immotivatamente sostituendo il proprio convincimento alle considerazioni espresse su base scientifiche dal perito d’ufficio , che la diversa operazione - ed i ben diversi rischi ad essa sottesi potessero ritenersi ricompresi” nell’iniziale informazione e ciò è a dirsi a prescindere dal criterio di riparto dell’onere probatorio così come predicato al folio 7, righi III/VI della sentenza oggi impugnata, anch’esso oggetto di error iuris da parte del giudice territoriale - vertendosi in tema di responsabilità da contatto sociale - ma non esplicitamente censurato in questa sede . Il ricorso deve, pertanto, essere accolto, con conseguente rinvio del procedimento alla corte di appello di Napoli, che provvederà alla liquidazione delle spese del giudizio di cassazione. P.Q.M. La corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia il procedimento, anche per la liquidazione delle spese del giudizio di cassazione, alla corte di appello di Napoli in diversa composizione.