Invalido in carcere, muore dopo sei mesi: nessun risarcimento al fratello

Acclarate le precarie condizioni dell’uomo, colpito da infarto precedentemente alla detenzione, vengono ritenute legittime non solo le scelte terapeutiche dei medici ma anche il fatto che l’uomo sia stato comunque tenuto in carcere. L’evoluzione negativa delle condizioni di salute del detenuto è, alla luce della scienza medica, assolutamente compatibile con le terapie doverosamente praticate.

Carcere fatale? Assioma tutto da dimostrare, nonostante le pessime condizioni delle patrie galere e nonostante il precario stato di salute del detenuto. Per questo motivo, la richiesta di risarcimento dei danni deve essere attentamente e dettagliatamente motivata, se davvero si punta alla vittoria nel confronto col Ministero della Giustizia Cassazione, sentenza n. 4366/2013, Terza Sezione Civile, depositata oggi . Rapido declino. Complessa la vicenda vissuta da un uomo entrato in carcere a giugno del 2003 in condizioni di forte invalidità per pregresso infarto e numerose patologie correlate e uscitone cadavere, purtroppo, a distanza di appena sei mesi. Secondo il fratello dell’uomo, che ha aperto una battaglia col Ministero della Giustizia, alla luce dei fatti – ossia la conferma della detenzione in carcere, nonostante le precarie condizioni fisiche del parente –, è doveroso risarcire i danni conseguenti alla responsabilità professionale dei sanitari del carcere e dell’ospedale – a cui il detenuto era stato affidato per qualche giorno –, i quali non avevano tenuto un comportamento idoneo a fronteggiare le gravissime e ben note patologie che avevano causato la morte del fratello . Per i giudici, però, sia in Tribunale che in Corte d’Appello, nessun addebito era possibile nei confronti dei medici, perché, in sostanza, l’evoluzione delle condizioni del detenuto, culminata nella morte a seguito di emorragia cerebrale, era prevedibile in particolare, si sottolinea che l’uomo già colpito da un precedente infarto, era affetto da ipertensione arteriosa e da altre correlate patologie che rendevano necessaria la terapia anticoagulante tale terapia, per pacifica acquisizione della scienza medica, reca tra le sue possibili complicanze l’emorragia cerebrale , e, peraltro, durante la permanenza in carcere l’uomo era stato costantemente sottoposto alle necessarie terapie, che non erano affatto incompatibili con il regime di detenzione carceraria . Nessuna colpa. Ad avviso del fratello del detenuto, però, proprio i principi della scienza medica avrebbero dovuto spingere a escludere la compatibilità tra le condizioni di salute e la permanenza della detenzione in carcere ciò in considerazione dello stato di invalidità accertato, del pregresso infarto e dell’esistenza di patologie a rischio ben note e, dunque, prevedibili . E ancora più nettamente negli ultimi giorni di vita dell’uomo i sintomi registrati avrebbero dovuto far interrompere immediatamente lo stato di detenzione, disponendo il ricovero in adeguata struttura . Tutto ciò, secondo l’uomo, avrebbe potuto dare una speranza al fratello Ma tale considerazione non viene condivisa dai giudici della Cassazione, i quali, invece, mostrano di condividere l’ottica adottata in Appello, sostenendo la costante attenzione che i sanitari avevano posto nel controllo del quadro clinico del paziente mentre era in stato di detenzione, sia la sostanziale correttezza delle decisioni assunte negli ultimi giorni di vita del medesimo . Rilevante, in questa ottica, la considerazione che è nozione di comune esperienza il fatto che lo svolgimento di una terapia anticoagulante – frequentemente somministrata ai pazienti colpiti da pregresso infarto – esponga il soggetto trattato ad un elevato rischio di emorragia . Logiche e nette le conseguenze nessun addebito è possibile nei confronti dei medici, quindi nessun risarcimento è ipotizzabile nei confronti del fratello del defunto.

Corte di Cassazione, sez. III Civile, sentenza 16 gennaio – 21 febbraio 2013, n. 4366 Presidente Massera – Relatore Cirillo Svolgimento del processo 1 . F.G. citava a giudizio, davanti al Tribunale di Torino, l’Amministrazione penitenziaria dello Stato, in persona del Ministro della giustizia in carica, e l’Azienda ospedaliera Maggiore della Carità”, chiedendone la condanna in solido al risarcimento dei danni - in proprio e a titolo di successione ereditaria - patiti dal proprio fratello G.G. A sostegno della domanda rilevava che il fratello, invalido al 67 per cento fin dal 2002 per progresso infarto ed afflitto da numerose patologie correlate, era entrato nel carcere di Novara in data 14 giugno 2003 pur avendo, fin dall’inizio, manifestato una serie di sintomi che ne avrebbero dovuto imporre il ricovero in adeguata struttura sanitaria, egli era stato mantenuto in stato di detenzione fino al 4 gennaio 2003, giorno in cui era stato inviato d’urgenza all’ospedale di Novara, dal quale era stata dimesso in serata per fare ritorno in carcere. Ricoverato nuovamente, il successivo 5 gennaio, per evidenti segni di paralisi facciale, era rimasto ricoverato nel centro di rianimazione del medesimo ospedale, con diagnosi di emorragia cerebrale, patologia che lo aveva poi condotto a morte in data 7 gennaio 2004. Il G., pertanto, chiedeva il risarcimento di tutti i danni conseguenti alla responsabilità professionale dei sanitari del carcere e dell’ospedale, i quali non avevano tenuto un comportamento idoneo a fronteggiare le gravissime e ben note patologie che avevano causato la morte del fratello. Il Tribunale, dopo dopo aver esperito attività istruttoria comprensiva di una c.t.u. medico-legale e cardiologica, rigettava la domanda, condannando l’attore al pagamento delle spese processuali. 2. La sentenza veniva appellata da F.G. e la Corte d’appello di Torino, con pronuncia in data 5 novembre 2008, in parziale riforma dell’impugnata sentenza, dichiarava compensate integralmente tra le parti le spese del giudizio di primo grado, confermando nel resto la sentenza del Tribunale il tutto con compensazione delle spese anche del secondo grado di giudizio. Osservava la Corte territoriale - procedendo ad una analitica ricostruzione dell’intera vicenda – che dalle espletate consulenze tecniche e dal materiale probatorio raccolto era pacifico che il defunto G., già colpito da un precedente infarto, era affetto da ipertensione arteriosa e da altre correlate patologie che rendevano necessaria la terapia anticoagulante tale terapia, per pacifica acquisizione della scienza medica, reca tra le sue possibili complicanze l’emorragia cerebrale. Durante la permanenza in carcere il G. era stato costantemente sottoposto alle necessarie terapie, le quali non erano affatto incompatibili con il regime di detenzione carceraria . La situazione si era aggravata in data 3 gennaio 2004, quando il detenuto aveva manifestato nausea, vomito, capogiri ed elevata pressione arteriosa tuttavia, come risultava anche dalla consulenza fatta svolgere dal P.M. in sede di procedimento penale, i sanitari del carcere avevano somministrato adeguate terapia, conseguendo il risultato di fare regredire il picco pressorio. Il giorno dopo, in presenza di un nuovo episodio di ipertensione, il G. era stato inviato in ospedale e tenuto in osservazione per quasi dodici ore, per poi essere rimandato in carcere dopo aver ripetuto i dovuti controlli che avevano escluso la presenza di un nuovo infarto. Soltanto il giorno 5 gennaio si era evidenziata la grave patologia che aveva condotto all’immediato ricovero del detenuto ma, a quel punto, l’emorragia cerebrale letale era già in atto, sicché non era stato possibile evitare la morte del G. La Corte torinese, quindi, escludeva che potesse essere mosso alcun addebito a titolo di responsabilità professionale a carico dei medici del carcere o di quelli della struttura ospedaliera. 3. Avverso la sentenza d’appello propone ricorso F.G., con atto affidato ad un unico complesso motivo. Resiste il Ministero della giustizia con controricorso, a mezzo dell’Avvocatura generale della Stato. Motivi della decisione 1. Con l’unico motivo di ricorso, in realtà suddiviso in due diversi profili, si lamenta, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 5 , cod. proc. civ., vizio di motivazione circa fatti controversi e decisivi per il giudizio. Rileva il ricorrente che la sentenze impugnata, fondandosi unicamente sulle conclusioni della perizia dei consulenti tecnici incaricati, è priva di adeguata motivazione su aspetti decisivi della vicenda, espressamente dedotti nei precedenti gradi di giudizio. Un primo punto di carenza si manifesta, secondo il ricorrente, in ordine alla compatibilità tra le condizioni di salute del G. e la permanenza della detenzione in carcere ciò in considerazione dello stato di invalidità accertano, del pregresso infarto e dell’esistenza di patologie a rischio” ben note e, dunque, prevedibili d’altra parte, la stessa sentenza riconosce che l’assunzione di terapia anticoagulante è possibile causa dell’emorragia che ha condotto il G. alla morte. Un ulteriore punto di doglianza riguarda gli ultimi giorni di vita del detenuto, nei quali si sarebbero manifestate gravi negligenze, relative in particolare alla mancata percezione del fatto che la presenza di nausea, vomito, capogiri ed elevati picchi pressori avrebbero dovuto indurre a far interrompere immediatamente lo stato di detenzione, disponendo il ricovero in adeguata struttura. In ultimo, poi, si censura il fatto che, in occasione del ricovero del 5 gennaio, risulta dal verbale di pronto soccorso che il ricovero era stato disposto con ritardo rispetto al momento dell’accesso , per non meglio specificate cause tecniche. 2. Il ricorso non è fondato. La sentenza della Corte d’appello di Torino ha esaminato, con motivazione intrinsecamente coerente e priva di evidenti contraddizioni, quale fu l’iter della vicenda che condusse alla morte di G.G. in data 7 gennaio 2004. La pronuncia, dopo aver ricordato che non era stata mossa alcuna contestazione circa il ruolo causale di rilievo assunto dalla massiccia emorragia cerebrale nella determinazione della morte, ha ripercorso analiticamente l’intera vicenda, mettendo in risalto sia la costante attenzione che i sanitari avevano posto nel controllo del quadro clinico del paziente mentre era in stato di detenzione, sia la sostanziale correttezza delle decisioni assunte negli ultimi giorni di vita del medesimo. E, d’ altra parte, costituisce nozione di comune esperienza il fatto che lo svolgimento di una terapia anticoagulante - frequentemente somministrata ai pazienti colpiti da pregresso infarto - esponga il soggetto trattato ad un elevare rischio di emorragia. Rilevanti sono, al riguardo, le puntuali considerazioni - sorrette da tecnica argomentativa pienamente valida - sulla bontà dell’operato dei medici sia della casa circondariale che dell’ospedale dove poi il G. fu ricoverato in particolare v. pp. 11-12 della sentenza impugnata , la Corte torinese ha evidenziato che, anche in occasione del ricovero precedente quello in cui si verificò il decesso 4 gennaio 2004 , i medici dell’ospedale avevano tenuto il G. sotto osservazione per un tempo di quasi dodici ore, dimettendolo solo dopo lo svolgimento ripetuto del dosaggio degli enzimi cardiaci, onde escludere con certezza l’esistenza di un nuovo infarto. 3. A fronte di tali considerazioni – che costituiscono un giudizio di fatto rimesso tipicamente al giudice di merito e non sindacabile da questa Corte se non per evidenti vizi di illogicità o incoerenza - l’odierno ricorso propone una serie di censure in termini di vizi di motivazione. Ora - anche volendo prescindere dal fatto che i motivi di ricorso non contengono la formulazione di un adeguato momento di sintesi delle censure, elemento che dovrebbe sussistere in considerazione dell’applicabilità al presente ricorso, ratione temporis, dell’art. 366-bis cod. Proc. civ. - la giurisprudenza di questa Corte ha in più occasioni chiarito quale sia la portata del ricorso per cassazione per omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione. Si è detto, in proposito, che è inamissibile il motivo di ricorso per cassazione con il quale la sentenza impugnata venga censurata per vizio di motivazione, qualora esso intenda far valere la rispondenza della ricostruzione dei fatti operata dal giudice al diverso convincimento soggettivo della parte e, in particolare, prospetti un preteso migliore e più appagante coordinamento dei dati acquisiti, atteso che tali aspetti del giudizio, interni all’ambito di discrezionalità di valutazione degli elementi di prova e dell’apprezzamento dei fatti, attengono al libero convincimento del giudice e non ai possibili vizi del percorso formativo di tale convincimento. In caso contrario, infatti, tale motivo di ricorso si risolverebbe in una inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e dei convincimenti del giudice di merito, e perciò in una richiesta diretta all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, estranea alla natura ed alle finalità del giudizio di cassazione v., tra le tante, le sentenze 26 marzo 2010, n. 7394 e 5 marzo 2007, n. 5066 . Allo stesso modo, si è detto che il ricorso per cassazione conferisce al giudice di legittimità non il potere di riesaminare il merito dell’intera vicenda processuale, ma solo la facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice di merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di controllarne l’attendibilità e la concludenza e di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi, dando così liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge sentenza 16 dicembre 2011, n. 27197 . Ne consegue che il vizio di omessa o insufficiente motivazione deducibile in sede di legittimità sussiste solo se nel ragionamento del giudice di merito, quale risulta dalla sentenza, sia riscontrabile il mancato o deficiente esame di punti decisivi della controversia e non può invece consistere in un apprezzamento dei fatti e delle prove in senso difforme da quello preteso alla parte, perché la citata norma non conferisce alla corte di legittimità il potere di riesaminare e valutare il merito della causa sentenze 23 dicembre 2009, n. 27162, 18 marzo 2011, n. 6288, e, da ultimo, 7 febbraio 2013, n. 2947 . 4. Alla luce delle precedenti considerazioni, il ricorso va rigettavo, risolvendosi nel tentativo di ottenere da questa Corte un nuovo e non consentito esame del materiale probatorio finalizzato al conseguimento di una pronuncia più favorevole al ricorrente. Permangono anche in questo giudizio, peraltro, i giusti motivi di compensazione delle spese già rilevati dal giudice d’appello e non fatti oggetto di specifica doglianza. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e compensa integralmente le spese del giudizio di cassazione.