Liquidazione del danno derivante da concorrenza sleale: per il criterio equitativo occorre la prova

Il danno cagionato dagli atti di concorrenza sleale, essendo una conseguenza diversa ed ulteriore rispetto alla distorsione della regola della concorrenza, necessita della prova secondo i principi generali sul risarcimento da fatto illecito. Pertanto, ai fini dell’utilizzo del criterio equitativo per la liquidazione, occorre la dimostrazione della sua esistenza.

Lo ha chiarito il Collegio di legittimità con ordinanza n. 3811/20 depositata il 14 febbraio. Il caso. Il Tribunale, accertato che la società beta aveva commercializzato un modello di jeans confondibile con quello prodotto dalla società alfa, accoglieva la domanda di inibitoria per concorrenza sleale da quest’ultima proposta, respingendo tuttavia la richiesta di risarcimento. Confermata anche dalla Corte d’Appello, tale decisione veniva impugnata dalla società alfa dinanzi la Corte di Cassazione. Prova del danno In relazione alla doglianza secondo cui i Giudici di merito avrebbero dovuto determinare equitativamente l’entità del pregiudizio, stante l’impossibilità per la società di fornire una prova dell’entità del danno subito, la Cassazione ribadisce che il danno cagionato dagli atti di concorrenza sleale non è in re ipsa ma, quale conseguenza diversa ed ulteriore rispetto alla distorsione della regola della concorrenza, necessita di prova secondo i principi generali che regolano il risarcimento da fatto illecito, sicché solo la dimostrazione della sua esistenza consente l’utilizzo del criterio equitativo per la relativa liquidazione . Tale principio, aggiunge il Collegio di legittimità, vale anche per il danno non patrimoniale derivante dalla lesione dell’immagine commerciale della vittima dell’illecito e ciò in quanto un tale danno, non costituendo un mero danno-evento, deve essere sempre oggetto di allegazione di prova. Pertanto, accertata nel caso di specie l’assenza di prova rispetto al lamentato calo nelle vendite da parte della società, la Suprema Corte dichiara il ricorso infondato e lo rigetta.

Corte di Cassazione, sez. VI Civile – 1, ordinanza 14 novembre 2019 – 14 febbraio 2020, n. 3811 Presidente Scaldaferri -Relatore Falabella Fatti di causa 1. - È impugnata per cassazione la sentenza della Corte di appello di L’Aquila del 9 novembre 2017 con cui è stato respinto il gravame proposto da Jonny Q Italia s.r.l. avverso pronuncia, resa in primo grado, dal Tribunale di Pescara con quest’ultima decisione è stata accolta la domanda di inibitoria per concorrenza sleale svolta dalla predetta società nei confronti di Franca s.r.l., la quale, secondo quanto accertato dal giudice di prime cure, aveva attuato la commercializzazione di un modello di jeans confondibile con quello prodotto dall’odierna ricorrente lo stesso Tribunale aveva invece respinto la domanda risarcitoria di Jonny Q Italia, rilevando come quest’ultima società non avesse dato dimostrazione del pregiudizio lamentato. 2. - Il ricorso per cassazione verte su di un unico motivo resiste con controricorso la società Franca. Il Collegio ha autorizzato la redazione della presente ordinanza in forma semplificata. Ragioni della decisione 1. I ricorrenti Jeans Queen s.r.l. essendo questa, pacificamente, l’attuale demominazione della società appellante sopra indicata e O.P. lamentano la violazione degli artt. 2056, 1226, 2598 e 2600 c.c Assumono che il giudice del merito avrebbe dovuto determinare equitativamente l’entità del pregiudizio, stante l’impossibilità, per la società ricorrente, di fornire una rigorosa prova della entità del danno subito. Osservano come i documenti fiscali prodotti evidenziassero che, nel periodo in cui era stato posto in essere l’illecito concorrenziale, Jonny Q Italia aveva subito un calo dell’attività d’impresa e che, in sintesi, era stata raggiunta la prova dell’esistenza del danno. Aggiungono che le fatture prodotte in atti erano pienamente idonee a dimostrare il calo delle vendite nel periodo interessato agli atti di concorrenza sleale e che i bilanci e le scritture contabili non avrebbero fornito ulteriori elementi di riscontro utili. Censurano, infine, la sentenza impugnata con riferimento al profilo attinente alla lesione dell’immagine commerciale e osservano come il discredito si fosse determinato in ragione della commercializzazione dello stesso capo di abbigliamento a prezzi di gran lunga inferiori rispetto a quelli praticati da Jonny Q Italia. 2. Deve anzitutto darsi atto dell’inammissibilità dell’impugnazione proposta dall’amministratore di Jeans Queen, O.P. , che non era parte del giudizio trattato avanti alla Corte di appello. È infatti inammissibile nel giudizio di cassazione l’intervento di terzi che non hanno partecipato alle pregresse fasi di merito Cass. 7 agosto 2018, n. 20565 , fatta l’eccezione - che qui non ricorre - del successore a titolo particolare nel diritto controverso, ove non vi sia stata precedente costituzione del dante causa Cass. 10 ottobre 2019, n. 25423 . 3. - Il ricorso di Jeans Queen è infondato. Il danno cagionato dagli atti di concorrenza sleale non è in re ipsa ma, quale conseguenza diversa ed ulteriore rispetto alla distorsione delle regole della concorrenza, necessita di prova secondo i principi generali che regolano il risarcimento da fatto illecito, sicché solo la dimostrazione della sua esistenza consente l’utilizzo del criterio equitativo per la relativa liquidazione così Cass. 23 dicembre 2015, n. 25921 . A non diverse conclusioni si giunge allorquando il danno in questione rivesta natura non patrimoniale e venga particolarmente in questione la lesione dell’immagine commerciale della vittima dell’illecito un tale danno, difatti, non costituendo un mero danno-evento, deve essere sempre oggetto di allegazione e di prova Cass. 13 ottobre 2016, n. 20643 Cass. 28 marzo 2018, n. 7594 . Ora, la Corte di merito ha accertato l’assenza di prova quanto alla lamentata flessione nelle vendite che si sarebbe determinata nei tre mesi in cui era presente sul mercato il capo di abbigliamento che costituiva contraffazione del prodotto commercializzato dalla ricorrente. Lo stesso giudice distrettuale ha infatti osservato come il calo determinatosi nel più esteso arco di tempo nove mesi successivo alla vendita del prodotto frutto di imitazione non poteva ritenersi conseguenza dell’illecito concorrenziale, giacché i punti di vendita che effettuavano il numero più consistente di ordinativi avevano continuato ad acquistare il modello originale anche nel periodo in cui era presente sul mercato il capo di vestiario che riproduceva servilmente quest’ultimo per la stessa ragione - ha concluso la Corte di appello - non poteva ritenersi che la commercializzazione dei jeans contraffatti avesse procurato un danno all’immagine commerciale di Jonny Q - Italia. È manifesto, allora, che quel che è mancato, nella fattispecie, è l’evidenza di un pregiudizio correlato specificamente all’illecito lamentato ciò avendo riguardo al rilievo, formulato dalla Corte di merito, per cui l’accertamento della contraffazione non consente di presumere l’esistenza dei danni che ne discendono, risultando astrattamente possibile che nello stesso periodo in cui si subisce la concorrenza sleale insorgano ragioni diverse che incidono direttamente o indirettamente sulle vendite del prodotto imitato . Tanto vale ad escludere la fondatezza del motivo, giacché l’invocata liquidazione equitativa esige, come si è detto, la prova dell’esistenza del danno dipendente dalla condotta illecita danno che la Corte di merito ha escluso con un accertamento di fatto non sindacabile nella presente sede. 4. - In conclusione, il ricorso di O. è inammissibile, mentre va respinto quello di Jeans Queen. 5. - Le spese del giudizio seguono la soccombenza. P.Q.M. La Corte dichiara inammissibile il ricorso di O.P. e rigetta quello di Jeans Queen s.r.l. condanna i ricorrenti al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 4.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 100,00, ed agli accessori di legge ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso. Motivazione semplificata.