La trasformazione della s.r.l. in comunione di azienda non esclude il fallimento

Nelle ipotesi di trasformazioni eterogenee – nelle quali si assiste al passaggio da una società ad una comunione di godimento di azienda o comunque da una società ad una impresa individuale – si determina sempre un rapporto di successione tra soggetti distinti, perché persona fisica e persona giuridica si distinguono appunto per natura e non solo per forma, con la conseguenza che la nascita di una comunione indivisa tra due o più persone fisiche cui l’ente collettivo trasferisca il proprio patrimonio non preclude la dichiarazione di fallimento della società entro il termine di un anno dalla sua eventuale cancellazione dal registro delle imprese.

Così la Cassazione con sentenza n. 16511/19, depositata il 19 giugno. Il caso. A seguito di una trasformazione eterogenea ex art. 2500- septies c.c. una s.r.l. veniva cancellata dal registro imprese e veniva tramutata in comunione di azienda. Ciononostante, in applicazione dell'art. 10 l. fall., la s.r.l. veniva dichiarata fallita entro un anno dalla sua cancellazione. Il legale rappresentante della ex s.r.l. impugnava la sentenza dichiarativa di fallimento, ma la Corte d'Appello respingeva il gravame. Il reclamante soccombente in secondo grado ricorreva allora in Cassazione. La decisione della Corte. La Corte d'Appello aveva confermato la decisione di prime cure osservando che anche nell'ipotesi di trasformazione ex art. 2500- septies c.c. l'intervenuta cancellazione della società dal registro imprese lascia presumere la cessazione a tutti gli effetti dell'attività di impresa aprendo così le porte all’applicazione dell’art. 10 l. fall Sotto altro profilo la mutazione in comunione di azienda aveva comportato una situazione di contitolarità di beni al solo scopo di godimento diretto o indiretto degli stessi da parte dei comunisti qualificando tale forma di comunione come oggetto o modalità di organizzazione” e non come soggetto di diritto”. Da ciò conseguiva l'inevitabile venir meno della continuità giuridica della società che pertanto si era estinta consentendo così il ricorso all'art. 10 l. fall Il legale rappresentante della s.r.l. ricorreva in Cassazione svolgendo diversi motivi tutti volti a contestare l'applicazione dell'articolo citato della legge fallimentare e prospettando invece l’applicazione delle diverse regole in tema di responsabilità patrimoniale previste dal codice civile. In breve secondo il ricorrente l'art. 10 l. fall. non era applicabile perché I non vi era stata una cessazione dell'attività di impresa con la trasformazione ex art. 2500- septies II si era verificato un fenomeno successorio con traslazione di rapporti dalla società ai singoli soci i quali peraltro avrebbero risposto illimitatamente con tutto il loro patrimonio di tutti i debiti della società trasformata III la comunione di azienda non aveva scopo di lucro e ciò era incompatibile con la dichiarazione di fallimento. A giudizio della Cassazione il ricorso è però infondato e la sentenza di fallimento deve quindi essere confermata. L'art. 10 l. fall., rubricato Fallimento dell'imprenditore che ha cessato l'esercizio dell'impresa”, dispone I. Gli imprenditori individuali e collettivi possono essere dichiarati falliti entro un anno dalla cancellazione dal registro delle imprese, se l’insolvenza si è manifestata anteriormente alla medesima o entro l’anno successivo. II. In caso di impresa individuale o di cancellazione di ufficio degli imprenditori collettivi, è fatta salva la facoltà per il creditore o per il pubblico ministero di dimostrare il momento dell’effettiva cessazione dell’attività da cui decorre il termine del primo comma . A completamento di quanto sopra la Cassazione ricorda che il termine previsto dalla norma è riferibile non alla domanda ex art. 6 l. fall., bensì alla dichiarazione di fallimento che deve quindi intervenire entro l’anno stabilito dalla disposizione richiamata. Si tratta pertanto di un termine di decadenza dall’iniziativa fallimentare che può essere impedita soltanto dalla tempestiva pronuncia di fallimento, mentre il semplice avvio del procedimento entro l’anno” non ha alcun effetto interruttivo. Nel caso di specie il problema affrontato dai giudici è verificare se la trasformazione ex art. 2500- septies c.c. di una s.r.l. in una comunione di azienda determini un'evoluzione della società, oppure un fenomeno estintivo della società con creazione di un nuovo ente che succede alla prima . Questo è importante perché solo la seconda ipotesi consente di applicare l'art. 10 l. fall. dato che la norma ha come presupposto la cancellazione della società e quindi l’estinzione del soggetto giuridico. Ove invece la mutazione fosse riconducibile alle cosiddette trasformazioni omogenee” ci sarebbe una semplice modifica del contratto sociale, ma non una cesura” netta, né la nascita di un nuovo ente. Con specifico riferimento alla comunione di azienda, gli Ermellini ricordano che se il godimento di essa si realizza mediante sfruttamento della medesima da parte dei partecipanti si configura l’esercizio di un’impresa collettiva nella forma di società regolare o irregolare o di fatto . In questa ipotesi i contitolari perseguono quindi uno scopo lucrativo non incompatibile con l’applicazione delle norme sulla comunione richiamate dall’art. 2248 c.c. svolgendo una vera e propria attività imprenditoriale così Cass. 3028/2009 Cass. 1251/1984 Cass. 12087/2012 . In altri casi invece la comunione di azienda può essere costituita al solo scopo di godimento, escludendo cioè lo svolgimento di attività di lucro e dando luogo solo ad una forma particolare di contitolarità tra comunisti. La Cassazione osserva inoltre che la trasformazione di una società da un tipo ad un altro non comporta l’estinzione del soggetto e la creazione di uno nuovo, trattandosi al contrario di una evoluzione del medesimo soggetto. Diverso invece è il passaggio” da ditta individuale a società o viceversa. In questo caso non vi è evoluzione” del medesimo soggetto, bensì successione” tra soggetti distinti come recentemente ribadito dalle Sezioni Unite nella pronuncia 6070/2013 . Da ciò deriva che la nascita di un’impresa individuale alla quale quella collettiva trasferisca il proprio patrimonio non impedisce la dichiarazione di fallimento della società entro l’anno dalla cancellazione dal registro delle imprese ex art. 10 l. fall Tirando le fila del discorso, gli Ermellini osservano che il caso di specie è equiparabile all’ipotesi di successione tra soggetti distinti e non all’evoluzione del medesimo soggetto. Infatti nel caso in esame l’operazione s.r.l.–comunione di azienda era una trasformazione eterogenea” a tutti gli effetti e i comunisti avevano dato origine a tale contitolarità al solo scopo di godimento, non avendo costituito una società di fatto tra ex soci, né avendo l’intenzione di svolgere attività di impresa. La cancellazione della s.r.l. dal registro imprese aveva dato quindi luogo ad una vera e propria estinzione dell’ente collettivo e ciò legittimava l’applicazione dell’art. 10 l. fall Del resto, afferma la Cassazione, se si ragionasse diversamente cioè nel senso opposto come prospettato dal ricorrente si rischierebbe di favorire, in prossimità della decozione delle società, trasformazioni in enti non fallibili sfuggendo anche alla possibilità di fallimento ex art. 10 l. fall

Corte di Cassazione, sez. I Civili, sentenza 4 – 19 giugno 2019, n. 16511 Presidente Genovese – Relatore Amatore Fatti di causa 1. Con la sentenza impugnata la Corte di Appello di Napoli - decidendo sul reclamo L. Fall., ex art. 18, proposto da G.S. quale legale rappresentante della omissis s.r.l., società cancellata in seguito a trasformazione in comunione di azienda nei confronti della curatela fallimentare e della società creditrice ENI SAI ed avverso la sentenza dichiarativa di fallimento emessa in data 4 agosto 2017 dal Tribunale di Napoli Nord - ha confermato la detta sentenza, rigettando, pertanto, l’impugnazione. 1.1 La parte reclamante aveva premesso che a in forza di assemblea straordinaria del 24.5.20017, per atto a rogito Notaio S.G. di , era stata deliberata, con voto favorevole dell’intero capitale sociale, la trasformazione eterogenea della società debitrice dalla forma di società di capitali a quella della comunione d’azienda tra i soci stessi, ai sensi dell’art. 2500 septies c.c. b la detta deliberazione era stata iscritta nel registro delle imprese in data 29.05.2017 c successivamente ed in conseguenza della mancata opposizione dei creditori ex art. 2500 novies c.c., era stata iscritta, sempre nel registro delle imprese, in data 28.7.2017, la definitiva trasformazione della società predetta in comunione d’azienda e la cancellazione sempre della predetta società oggetto di trasformazione d nonostante la descritta trasformazione, era intervenuta in data 4.8.2017 la dichiarazione di fallimento della società debitrice sulla scorta della ritenuta applicabilità al caso di specie del disposto normativo di cui alla L. Fall., art. 10. La parte reclamante aveva invece impugnato la menzionata sentenza dichiarativa di fallimento, ritenendo che l’estinzione della società e la sua cancellazione dal registro delle imprese, a seguito della descritta trasformazione eterogenea, impedisse il fallimento della società in ragione della dedotta inapplicabilità della L. Fall., art. 10, stante la prosecuzione dei rapporti patrimoniali in capo ai comunisti, già soci della società trasformata, e l’assenza, dunque, del presupposto fattuale della cessazione dell’attività di impresa. 1.2 La corte del merito - dopo aver ricordato le novità normative dettate dal D.Lgs. n. 5 del 2006 nella materia in esame e l’importante arresto della Corte Cost. con la sentenza n. 319/2000 - ha ritenuto non condivisibile l’interpretazione fornita dai reclamanti del contenuto della L. Fall., art. 10, secondo cui ciò che rileva è l’effettiva cessazione dell’attività di impresa, dovendosi al contrario ritenere che la richiesta di cancellazione come avvenuto nel caso di specie impedisce di dimostrare all’imprenditore l’effettiva prosecuzione dell’attività nonostante la cancellazione ha dunque osservato che è irrilevante scrutinare se la cancellazione sia derivata o meno dalla cessazione dell’attività di impresa perché tale circostanza è normativamente presunta dall’iscrizione della cancellazione nel registro delle imprese che costituisce elemento necessario e sufficiente per ritenere l’ente estinto ha, inoltre, evidenziato che il fenomeno della trasformazione eterogenea di cui all’art. 2500 septies c.c., e cioè la cd. regressività da società di capitale a comunione d’azienda, comporta, nella sua applicazione ortodossa, una situazione di contitolarità di beni al solo scopo del godimento diretto o indiretto degli stessi, ciò implicando che la comunione d’azienda costituisce un oggetto e non già un soggetto di diritto, come tale privo di identità ed autonomia giuridica e patrimoniale ha, dunque, concluso nel senso che la sopra riferita trasformazione determina una modifica della disciplina organizzativa dei beni aziendali tramite il mutamento formale del soggetto titolare dei beni medesimi, nonché il venir meno della continuità giuridica della società che pertanto si estingue ha infine ritenuto applicabile la L. Fall., art. 10, trattandosi di società cessata e la cui cessazione era stata iscritta nel registro delle imprese. 2. La sentenza, pubblicata il 17.1.2018, è stata impugnata da G.S. nella sopra riferita qualità, con ricorso per cassazione, affidato a sei motivi, cui la curatela ha resistito con controricorso. La parte ricorrente ha depositato memoria. Ragioni della decisione 1.Con il primo motivo la parte ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione dell’art. 12 disp. gen., e della L. Fall., art. 10, in riferimento alla disciplina applicabile alla comunione di godimento derivata dalla trasformazione eterogenea di società di capitali. Osserva la parte ricorrente che, ai sensi dell’art. 2500 septies c.c., era intervenuta una trasformazione in un ente diverso la comunione di godimento non sussumibile nei parametri di cui alla L. Fall., art. 10, e non assoggettabile, peraltro, alla procedura fallimentare posto che la mera contitolarità in capo ai soci comunisti del bene aziendale, non comporta l’esercizio di attività economica e soprattutto l’intervenuta trasformazione giuridica determina la cessazione della natura imprenditoriale del precedente soggetto. Ne consegue - osserva ancora la difesa del ricorrente - che non poteva applicarsi al caso di specie il disposto normativo di cui alla L. Fall., art. 10, in quanto relativo alla diversa ipotesi di società cancellata per intervenuta cessazione dell’attività. Osserva ancora il ricorrente che l’atto trasformativo determina un effetto novativo che, nel caso di trasformazione eterogenea da società di capitali in comunione di azienda, comporta la cancellazione dell’ente e cioè della omissis s.r.l. con conseguente prosecuzione di tutti i rapporti anche processuali in capo ai precedenti soci, oggi comunisti dell’azienda stessa. Ciò determina anche una carenza di legittimazione passiva in capo alla società omissis s.r.l., in quanto soggetti suscettibili di rispondere alle richieste creditorie sono ora i proprietari dell’azienda caduta in comunione di godimento. 2. Con il secondo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione delle norme dettate dagli artt. 1100, 2248 e 2500 septies c.c., e L. Fall., art. 10. Osserva ancora il ricorrente che l’art. 2248 c.c., letto in combinato disposto con l’art. 1100 c.c., descrive una fattispecie sostanziale incompatibile con i profili di carattere commerciale e lucrativo richiesti dalla L. Fall., art. 10, e dunque non suscettibile di essere attinta da una istanza di fallimento. 3. Con il terzo motivo si declina vizio di violazione e falsa applicazione di legge in relazione agli artt. 2248, 2495, 2500 septies e 2740 c.c., e L. Fall., art. 10, e vizio di omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti. Ricorda il ricorrente che, ai sensi dell’art. 2500 novies c.c., nella trasformazione eterogenea di una società di capitali, i creditori sociali possono opporsi alla trasformazione con rinvio alla disciplina di cui all’art. 2495 c.c., in tema di perdita di garanzia patrimoniale. Osserva ancora il ricorrente che, sulla base del combinato disposto degli artt. 2495 e 2248 c.c., i nuovi titolari della comunione di godimento aziendale devono rispondere illimitatamente, con tutto il loro patrimonio, di tutti debiti della società trasformata, dovendosi ricordare che, non esistendo un ente dotato di soggettività giuridica, i rapporti giuridici attivi e passivi riferibili alla comunione di godimento sono imputati ai singoli comunisti. Ne consegue che, ai sensi dell’art. 2495 c.c., in seguito alla trasformazione della società, si determina un fenomeno successorio in virtù del quale le obbligazioni della società non si estinguono, ma traslano a carico dei soci. Pertanto - osserva ancora il ricorrente - il mancato decorso del termine di cui alla L. Fall., art. 10, risulta essere del tutto irrilevante, in quanto diretto a tutelare le ragioni creditorie che, nel caso di specie, risultano tutelate attraverso il diverso meccanismo delineato dagli artt. 2495 e 2740 c.c., meccanismo che determina un’estensione della responsabilità patrimoniale attraverso la responsabilità illimitata dei soci per i pregressi debiti sociali. 4. Con il quarto motivo si lamenta violazione e falsa applicazione sempre della L. Fall., art. 10, e art. 2498 c.c., e, comunque, omesso esame di un fatto decisivo dibattuto tra le parti. Osserva ancora il ricorrente che la trasformazione di cui all’art. 2500 septies c.c., non comporta la estinzione della pregressa società di capitali, ma la sua trasformazione in altro ente giuridico, la comunione di azienda, non potendosi predicare nel caso in esame l’esistenza di una ipotesi successoria quanto piuttosto di una fattispecie modificativa i cui effetti sono regolati dalle norme a tutela dei creditori della società art. 2500 novies c.c. e degli effetti della trasformazione sui diritti attivi e gli obblighi già esistenti art. 2498 c.c. . Non trova, dunque, applicazione nel caso in esame la L. Fall., art. 10, la cui norma interviene allorquando si verifica la cancellazione in seguito alla cessazione dell’attività e non già quanto, come nel caso di specie, alla cancellazione segua la trasformazione della società. 5. Con il quinto motivo si denuncia, inoltre, violazione e falsa applicazione della L. Fall., art. 10, e art. 2495 c.c Si osserva che la presunzione assoluta della cessazione dell’attività societaria nell’ipotesi di trasformazione di cui all’art. 2500 septies, è smentita proprio dal dato normativo che prevede figure giuridiche titolari della imputazione soggettiva dell’attività precedentemente svolta sotto la veste societaria, tanto ciò è vero che si disquisisce di trasformazione, che risulta essere concetto antitetico rispetto a quello dell’estinzione. 6. Con il sesto motivo la parte ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione dell’art. 2500 septies, e L. Fall., art. 10. Si denuncia come erronea la motivazione impugnata laddove aveva ricondotto la trasformazione societaria oggetto di esame ad un fenomeno di mera regolamentazione organizzativa. 7. Il ricorso è infondato. 7.1 Possono essere esaminato congiuntamente i sei motivi di doglianza che richiedono, sotto diversi profili, di scrutinare la possibilità di applicare al caso di specie la normativa speciale dettata dalla L. Fall., art. 10, anziché, come richiesto dalla parte ricorrente, la diversa disciplina, in punto di responsabilità patrimoniale, dettata dal codice civile per le trasformazioni societarie. 7.1.1 Occorre chiarire in premessa che l’applicazione della disciplina normativa dettata dalla L. Fall., art. 10, presuppone l’intervento di un fenomeno estintivo dell’impresa ovvero della compagine sociale attinta dall’istanza di fallimento nei limiti temporali previsti dalla norma in esame, con effetti successori che investono il patrimonio dell’ente e la relativa legittimazione sostanziale e processuale di quest’ultimo. Ciò che occorre chiarire, nel caso di specie, è se la trasformazione prevista dall’art. 2500 septies c.c. - che si è sviluppata, nel caso ora in esame, attraverso la mutazione della società di capitali in comunione di godimento dell’azienda - abbia dato causa ad un fenomeno semplicemente evolutivo e modificativo del contratto sociale come avviene pacificamente nel caso delle trasformazioni societarie omogenee ovvero ad un fenomeno estintivo della società con la formazione di un nuovo ente e con effetti pertanto successori , giacché dall’accoglimento dell’uno o l’altra soluzione discende invero l’applicabilità o meno del disposto normativo di cui alla L. Fall., art. 10, con conseguente fallibilità della società debitrice. 7.1.2 La legge fallimentare non prevede un termine di decadenza riferito al deposito del ricorso per la richiesta di fallimento. Tuttavia, va ricordato che, ai sensi della L. Fall., art. 10, comma 1, gli imprenditori individuali e collettivi possono essere dichiarati falliti entro un anno dalla cancellazione dal registro delle imprese, se l’insolvenza si è manifestata anteriormente alla medesima o entro l’anno successivo . Peraltro, il comma 2 della norma in esame prevede che in caso di impresa individuale o di cancellazione di ufficio degli imprenditori collettivi, è fatta salva la facoltà per il creditore o per il pubblico ministero di dimostrare il momento dell’effettiva cessazione dell’attività da cui decorre il termine del comma 1 . Ed infine, l’art. 11, comma 1, completa la previsione, aggiungendo che l’imprenditore defunto può essere dichiarato fallito quando ricorrono le condizioni stabilite nell’articolo precedente . Ebbene, deve ritenersi che le previsioni normative in esame stabiliscono un terminus post quem non, ma riferito non alla domanda L. Fall., ex art. 6, bensì alla dichiarazione di fallimento, e ciò per non estendere all’infinito gli effetto di una attività di impresa non più attuale. Ciò significa, in buona sostanza, che è da considerarsi inammissibile la domanda di fallimento depositata quando il suddetto termine annuale è già scaduto. Deve ritenersi, al riguardo, che il termine annuale si atteggi alla stregua di un termine di decadenza dall’iniziativa fallimentare, che può essere impedita soltanto dalla tempestiva pronunzia di fallimento, nel senso che l’avvio del procedimento non comporta alcun effetto interruttivo di detto termine. 7.1.3 Ciò posto in premessa, occorre subito chiarire come sia la sentenza impugnata sia le deduzioni difensive della stessa parte ricorrente diano come punto non controverso della vicenda la circostanza che l’originaria società di capitali sia stata trasformata in un comunione di godimento dell’azienda tra gli ex soci, trasformatisi, anch’essi, secondo la comune volontà negoziale, in comunisti dei beni compresi nel compendio aziendale, al solo fine di godere dei frutti scaturenti dai beni stessi. 7.1.3.1 Sul punto è utile ricordare che, secondo la giurisprudenza espressa da questa Corte, nel caso di comunione d’azienda, ove il godimento di questa si realizzi mediante il diretto sfruttamento della medesima da parte dei partecipanti alla comunione, è configurabile l’esercizio di un’impresa collettiva nella forma della società regolare oppure della società irregolare o di fatto , non ostandovi l’art. 2248 c.c., che assoggetta alle norme dell’art. 1100 e ss., dello stesso codice la comunione costituita o mantenuta al solo scopo di godimento. L’elemento discriminante tra comunione a scopo di godimento e società è infatti costituito dallo scopo lucrativo perseguito tramite un’attività imprenditoriale che si sostituisce al mero godimento ed in funzione della quale vengono utilizzati beni comuni Sez. 2, Sentenza n. 3028 del 06/02/2009 Cass. 20.2.1984 n. 1251 Cass. 10.11.1992 n. 12087 Cass. 27.11.1999 n. 13291 Cass. Sez. 1, Sentenza n. 4053 del 03/04/1993 È stato altresì affermato dalla giurisprudenza di questa Corte che la contitolarità di un’azienda commerciale non comporta che, per ciò stesso, i contitolari assumano la qualità di soci di fatto è pertanto possibile che, in presenza di una pluralità di contitolari d’azienda, solo uno o alcuni di essi assumano l’effettiva gestione dell’attività commerciale e la correlativa veste imprenditoriale, mentre gli altri ne restino estranei, limitandosi a conservare il diritto dominicale pro quota sui beni aziendali e percependo un canone a titolo di affitto per la facoltà concessa ai comproprietari di utilizzare nell’impresa anche tale quota di beni Cass. Sez. 1, Sentenza n. 4986 del 04/06/1997 . 7.1.3.2 Sotto altro profilo, occorre ricordare che sia la giurisprudenza di questa Corte che la dottrina sono concordi nel ritenere che la trasformazione di una società da un tipo ad un altro previsto dalla legge, ancorché connotato di personalità giuridica, non si traduca nell’estinzione di un soggetto e nella correlativa creazione di uno nuovo in luogo di quello precedente, ma configuri una vicenda meramente evolutiva e modificativa del medesimo soggetto, la quale comporta soltanto una variazione di assetto e di struttura organizzativa, senza incidere sui rapporti processuali e sostanziali facenti capo all’originaria organizzazione societaria Sez. 1, Sentenza n. 10332 del 19/05/2016 Sez. 3, Sentenza n. 13467 del 20/06/2011 . Ne consegue che la trasformazione societaria configura una vicenda meramente evolutivo-modificativa del medesimo soggetto giuridico, senza la produzione di alcun effetto successorio ed estintivo. 7.1.3.3 In realtà è vero che la trasformazione di una società da uno ad altro tipo non è considerata dalla legge come creazione di una nuova società, ma come modificazione dell’atto costitutivo della società, che continua ad esistere in una nuova veste, senza alcun fenomeno successorio Cass., sez. lav., 16 aprile 1986 n. 2697 . Ma è anche vero che, invece, la cosiddetta trasformazione di una ditta individuale in una società o di una società in impresa individuale determina sempre un rapporto di successione tra soggetti distinti, perché persona fisica e persona giuridica si distinguono appunto per natura non solo per forma Cass., sez. I, 30 gennaio 1997, n. 965 . Ne consegue che - sempre secondo la giurisprudenza di questa Corte - la nascita di un’impresa individuale, cui quella collettiva trasferisca il proprio patrimonio non preclude la dichiarazione del fallimento della società entro il termine di un anno dalla sua eventuale cancellazione dal registro delle imprese Sez. 1, Sentenza n. 1593 del 06/02/2002 . 7.1.4 In termini più generali, è stato anche affermato dalla giurisprudenza di vertice della Corte che dopo la riforma del diritto societario, attuata dal D.Lgs. n. 6 del 2003, qualora all’estinzione della società, di persone o di capitali, conseguente alla cancellazione dal registro delle imprese, non corrisponda il venir meno di ogni rapporto giuridico facente capo alla società estinta, si determina un fenomeno di tipo successorio, in virtù del quale a l’obbligazione della società non si estingue, ciò che sacrificherebbe ingiustamente il diritto del creditore sociale, ma si trasferisce ai soci, i quali ne rispondono, nei limiti di quanto riscosso a seguito della liquidazione o illimitatamente, a seconda che, pendente societate , fossero limitatamente o illimitatamente responsabili per i debiti sociali b i diritti e i beni non compresi nel bilancio di liquidazione della società estinta si trasferiscono ai soci, in regime di contitolarità o comunione indivisa, con esclusione delle mere pretese, ancorché azionate o azionabili in giudizio, e dei crediti ancora incerti o illiquidi, la cui inclusione in detto bilancio avrebbe richiesto un’attività ulteriore giudiziale o extragiudiziale , il cui mancato espletamento da parte del liquidatore consente di ritenere che la società vi abbia rinunciato, a favore di una più rapida conclusione del procedimento estintivo Sez. U, Sentenza n. 6070 del 12/03/2013 . 7.1.5 Tutto ciò premesso, osserva la Corte come, nel caso di specie, si assista ad una trasformazione eterogenea , per come prevista dall’art. 2500 septies c.c., essendosi trasformata la società di capitali in una comunione di godimento di un’azienda, con ciò determinando il passaggio da un ente avente forma societaria ad una comunione su un complesso di beni aziendali. Ne consegue che non può non verificarsi, nel caso in esame, un fenomeno di successione tra soggetti ed entità distinte sia per forma che per natura. Né può predicarsi la ricorrenza, nel caso di specie, di una trasformazione della società di capitali in una società di fatto tra i due ex soci, ora proprietari in comunione dei beni costituenti l’azienda, giacché risulta essere circostanza non controversa quella secondo cui era volontà dei soci costituire una mera comunione di godimento, come tale ricadente sotto l’egida applicativa dell’art. 2248 c.c Se così è, allora occorre concludere nel senso che, nelle ipotesi di trasformazioni eterogenee - nella quale si assiste al passaggio da una società ad una comunione di godimento di azienda o comunque da una società ad una impresa individuale come espressamente già previsto dalla giurisprudenza sopra ricordata Sez. 1, Sentenza n. 1593 del 06/02/2002 Cass., sez. I, 30 gennaio 1997, n. 965 - si determina sempre un rapporto di successione tra soggetti distinti, perché persona fisica e persona giuridica si distinguono appunto per natura e non solo per forma, con la conseguenza che la nascita di una comunione indivisa tra due o più persone fisiche cui l’ente collettivo trasferisca il proprio patrimonio non preclude la dichiarazione del fallimento della società entro il termine di un anno dalla sua eventuale cancellazione dal registro delle imprese. Del resto, diversamente ragionando si potrebbe correre il rischio di favorire operazioni negoziali volte proprio, in prossimità della decozione e della dichiarazione di fallimento delle società, a determinare la trasformazione, pur consentita dall’ordinamento, di quest’ultime in enti ovvero altre entità giuridiche non fallibili, non consentendo l’apertura del concorso dei creditori sui beni della società debitrice. Ne consegue il rigetto del ricorso e la condanna della parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna la parte ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 7.000 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200 e agli accessori di legge. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.