Lavoratrice infastidita dai superiori: azienda all’oscuro e quindi non condannabile

Respinta la richiesta di risarcimento avanzata dalla donna. Decisiva la constatazione che la società datrice di lavoro non era stata messa a conoscenza dei fatti.

Condotte sgradevoli dei superiori nei confronti della lavoratrice. Impossibile addebitare responsabilità all’azienda, se essa è rimasta all’oscuro dei fatti, contrariamente a quanto sostenuto dalla dipendente Corte di Cassazione, sez. VI Civile - L, ordinanza n. 16534/21, depositata l’11 giugno . Concordi i giudici di merito. Preso atto dei dettagli della vicenda, viene respinta la domanda avanzata da una dipendente di Poste Italiane e diretta ad accertare la condotta di mobbing dei superiori gerarchici nei suoi confronti e, di conseguenza, la responsabilità dell’ azienda . Esclusa, di conseguenza, anche l’ipotesi di una condanna del datore di lavoro al risarcimento dei danni in favore della dipendente. Col ricorso in Cassazione, però, la lavoratrice sostiene che l’azienda è tenuta a rispondere ex se per la condotta dei propri dipendenti , e ciò anche alla luce del principio secondo cui l’ accertamento di un rapporto di necessaria occasionalità tra fatto illecito del preposto ed esercizio delle mansioni affidategli comporta l’insorgenza di una responsabilità diretta a carico della società per i danni arrecati a terzi dai dipendenti nello svolgimento delle incombenze loro affidate . E poi, aggiunge la lavoratrice, toccava all’azienda dimostrare di aver posto in essere tutte le misure per impedire il verificarsi del danno . In premessa i Giudici di terzo grado ribadiscono il principio secondo cui la responsabilità del datore di lavoro non è esclusa dalla circostanza che la condotta di mobbing provenga da un altro dipendente, posto in posizione di supremazia gerarchica rispetto alla vittima, ove il datore di lavoro sia rimasto colpevolmente inerte nella rimozione del fatto lesivo . In questa vicenda, però, si è accertato che il datore di lavoro, identificabile con una direzione provinciale, non era stato messo a conoscenza delle presunte condotte persecutorie nei confronti della dipendente . Ciò significa che nessun risarcimento da parte dell’azienda è riconoscibile alla lavoratrice.

Corte di Cassazione, sez. VI Civile - L, ordinanza 27 gennaio – 11 giugno 2021, n. 16534 Presidente Doronzo – Relatore Esposito Rilevato che la Corte di appello di Catanzaro, per quanto in questa sede interessa, confermava la sentenza del giudice di primo grado che aveva rigettato la domanda avanzata da C.B. diretta ad accertare la condotta di mobbing dei superiori gerarchici nei suoi confronti e, di conseguenza, la responsabilità di Poste Italiane s.p.a., con condanna del datore di lavoro al risarcimento dei danni avverso la sentenza propone ricorso per cassazione la lavoratrice sulla base di sette motivi Poste Italiane s.p.a. resiste con controricorso la proposta del relatore, ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c., è stata comunicata alle parti, unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza in camera di consiglio non partecipata. Considerato che Con il primo motivo la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 2087 e 1228 c.c., poiché illegittimamente la Corte territoriale aveva ritenuto che Poste Italiane s.p.a. non fosse tenuta a rispondere ex se per la condotta dei propri dipendenti, in mancanza di allegazioni e prove riguardo alla conoscenza da parte del datore di lavoro delle condotte lesive e all’inerzia da parte del medesimo riguardo alla loro rimozione con il secondo motivo deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 2043 e 2049 c.c., anche in riferimento all’art. 32 Cost., risultando la decisione in contrasto con il principio in forza del quale l’accertamento di un rapporto di necessaria occasionalità tra fatto illecito del preposto ed esercizio delle mansioni affidategli comporta l’insorgenza di una responsabilità diretta a carico della società per i danni arrecati a terzi dagli agenti nello svolgimento delle incombenze loro affidate con il terzo motivo deduce omesso esame di fatti decisivi per il giudizio in ordine al mobbing oggetto di discussione tra le parti, specificamente con riguardo ai plurimi e sistematici atti lesivi perpetrati nei confronti della lavoratrice dal 2006 al 2010, determinanti lesione della sua personalità e dignità con il quarto motivo deduce violazione degli artt. 2697, 2087 e 1218 c.c. per avere la Corte d’appello errato nel ritenere che spettasse alla ricorrente allegare e provare che Poste Italiane s.p.a. fosse a conoscenza dell’asserito mobbing, dovendo invece la società dimostrare di aver posto in essere tutte le misure per impedire il verificarsi del danno con il quinto motivo deduce omesso esame circa fatti decisivi in ordine a condotte lesive integranti mobbing, facendo riferimento a una pluralità di condotte vessatorie che assume confermate dai testi e provate da documentazione medica con il sesto motivo lamenta la violazione art. 2967, 1218 e 2087 c.c., quanto alle condotte lesive non integranti mobbing, operando in favore della lavoratrice, in riferimento all’art. 2087 c.c., la presunzione di colpa di cui all’art. 1218 c.c., in deroga dell’art. 2697 c.c. deduce, infine, violazione art. 115 e 116 c.p.c., per avere la Corte disatteso la richiesta istruttoria di consulenza tecnica medico legale il primo e il secondo motivo sono infondati in base al principio in forza del quale la responsabilità del datore di lavoro - su cui incombono gli obblighi ex art. 2049 c.c. - non è esclusa dalla circostanza che la condotta di mobbing provenga da un altro dipendente, posto in posizione di supremazia gerarchica rispetto alla vittima, ove il datore di lavoro sia rimasto colpevolmente inerte nella rimozione del fatto lesivo ex multis Cass. n. 18093 del 25/07/2013 , laddove nella specie la Corte territoriale aveva escluso, con accertamento in fatto insindacabile in questa sede, che il datore di lavoro, identificabile con la direzione provinciale di Catanzaro, fosse stato messo a conoscenza delle presunte condotte persecutorie nei confronti della dipendente il terzo motivo è inammissibile poiché le condotte enunciate dalla ricorrente sono state esaminate dal giudice d’appello, che ha escluso, a seguito dell’istruttoria espletata, l’esistenza di molti episodi denunciati gli altri motivi di ricorso, da trattare congiuntamente, sono inammissibili poiché propongono una diversa valutazione dei fatti di causa rispetto a quella compiuta dal giudice del merito, ancorché proposti sub specie violazione di legge Cass. n. 8758 del 04/04/2017, SU 34476 del 27/12/2019 in base alle svolte argomentazioni il ricorso va complessivamente rigettato e le spese sono liquidate secondo soccombenza in considerazione della statuizione, sussistono i presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, se dovuto, per il ricorso. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in complessivi Euro 4.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali al 15% e accessori di legge. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, se dovuto, per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.