Legittimo il licenziamento del dipendente pubblico accusato di abusi sessuali su minori

Respinte le obiezioni proposte dal lavoratore. Evidente la gravità dei comportamenti a lui attribuiti. Impossibile, secondo i Giudici, ipotizzare la prosecuzione del rapporto di lavoro.

Sacrosanto il licenziamento dell’impiegato pubblico colpevole di abusi sessuali su minorenni. Irrilevante il fatto che il reato sia stato commesso fuori dall’orario di servizio e non abbia riguardato in via diretta il fronte lavorativo. Per i Giudici, come per il datore di lavoro, difatti, il comportamento tenuto dal dipendente è così grave da non consentire neanche provvisoriamente la prosecuzione del rapporto Cassazione, sentenza n. 11762/21, sez. Lavoro, depositata il 5 maggio . Concordi i Giudici di merito, che, prima in Tribunale e poi in Appello, confermano la giustezza del licenziamento di un impiegato pubblico, provvedimento inquadrato come conseguenza del reato di abuso sessuale a danno di minori, commesso dal dipendente fuori dal servizio e non collegato in via diretta al rapporto di lavoro . I Giudici di secondo grado precisano che la mancata comunicazione della decisione dell’ente di sospendere il procedimento disciplinare, in attesa degli esiti del procedimento penale , non può essere causa di nullità del licenziamento, perché un tale obbligo non è previsto , e poi chiariscono, ribattendo all’obiezione mossa dal lavoratore, che il procedimento disciplinare non doveva per forza essere ripreso dopo il giudizio penale di primo grado , anche perché la complessità e la delicatezza degli addebiti, soprattutto a fronte della persistente contestazione della responsabilità, anche nel giudizio civile, giustificava l’attesa del giudicato, come peraltro previsto dalla legge . Per i Giudici d’Appello, comunque, ciò che è evidente è la gravità dei reati commessi dal lavoratore, reati che pur riguardando ambito diverso da quello lavorativo, comportano la rottura del rapporto fiduciario, data l’esigenza, specie per una pubblica amministrazione, di poter contare in generale sull’osservanza da parte del proprio addetto dei precetti dell’ordinamento e dei valori di legalità . In ultima battuta, poi, i giudici ribadiscono che correttamente gli effetti della sanzione sono stati fatti decorrere dalla data della sospensione dal servizio, in coerenza con la previsione in proposito del regolamento di disciplina . In Cassazione il dipendente a rischio prova a salvare il proprio posto di lavoro. In questa ottica, egli innanzitutto sostiene che il licenziamento è stato invalidato dalla mancata comunicazione della decisione dell’ente di attendere gli esiti del procedimento penale prima di definire la questione disciplinare e dalla mancata ripresa del procedimento disciplinare dopo il processo penale, di primo grado o, almeno, di secondo grado . I magistrati ribattono ricordando che la normativa non prevede che la decisione della pubblica amministrazione di sospendere il procedimento disciplinare sia comunicata al dipendente , e aggiungono che è difficoltoso ricostruire un indiscriminato interesse del lavoratore a che il procedimento disciplinare prosegua, quando per i medesimi fatti sia pendente procedimento penale, visto che l’attesa consente comunque la prosecuzione medio tempore del rapporto e permette la fruizione delle facoltà difensive insite nel procedimento penale . Di conseguenza, in mancanza della prova di concreti ed effettivi pregiudizi al diritto di difesa, il fatto che la pubblica amministrazione non palesi con comunicazione espressa l’intento di attendere l’esito del procedimento penale è pertanto privo di rilievo rispetto alla validità del procedimento disciplinare . Allo stesso tempo, si deve escludere, precisano ancora i Giudici, che il lavoratore possa dolersi del fatto che, dopo la sospensione del procedimento disciplinare, la pubblica amministrazione non lo riattivi dopo le sentenze di primo o di secondo grado emesse in sede penale . Ciò perché quella di sospendere il procedimento disciplinare è facoltà discrezionale attribuita alla pubblica amministrazione, la quale, fermo il principio della tendenziale autonomia del procedimento disciplinare rispetto a quello penale, può esercitarla qualora, per la complessità degli accertamenti o per altre cause, non disponga di elementi necessari per la definizione del procedimento, essendo legittimata, peraltro, a riprendere il procedimento disciplinare, senza attendere che quello penale venga definito con sentenza irrevocabile, allorquando ritenga che gli elementi successivamente acquisiti consentano la decisione . Ciò significa che tale ripresa anticipata è dunque facoltà propria della pubblica amministrazione, a tutela del proprio buon andamento, ma non sussiste alcun interesse giuridicamente tutelato del lavoratore a che essa abbia luogo, in quanto anche da questo punto di vista le tutele decadenziali sono previste solo in ragione del termine finale, susseguente al giudicato . Chiusi questi fronti, il lavoratore mette in discussione la decisione presa dal datore di lavoro, sostenendo che si è considerato solo il reato formalmente ascritto, senza valutare né l’assenza di precedenti, né il fatto che sul lavoro non vi erano contatti con minori e che, nel periodo dopo l’arresto, la condotta del dipendente era stata irreprensibile, tanto che vi era stata una promozione ed erano state accolte domande di trasferimento . Il lavoratore punta, quindi, a mettere in discussione la c ongruità della sanzione . I Giudici della Cassazione ribattono richiamando la valutazione compiuta in Appello, valutazione centrata non solo sulla particolare odiosità dei reati commessi ma anche sugli obblighi di osservanza dei valori di legalità che caratterizzano il pubblico impiegato . Legittimamente, quindi, si è concluso per l’irrimediabile rottura del rapporto fiduciario , chiariscono i Giudici. Suggestiva, ma infondata, è poi l’osservazione, proposta dal lavoratore, secondo cui la corretta prosecuzione del rapporto, con anche una promozione, nelle more del procedimento penale, avrebbe dovuto essere considerata nel giudizio sulla proporzione della sanzione. Infatti, qualora la pubblica amministrazione, per ragioni di garanzia e cautela, decida di posticipare la propria decisione all’esito del procedimento penale, ciò non significa che l’apprezzamento della gravità e dell’ improseguibilità del rapporto debba essere necessariamente condizionato dal comportamento tenuto medio tempore tenuto dal dipendente , osservano i Giudici. In sostanza, la pubblica amministrazione, sospendendo il procedimento disciplinare, legittimamente evita ogni giudizio sui fatti commessi, ma la loro gravità è destinata pienamente a riemergere, in tutta la sua portata ed in ogni aspetto, una volta che, con il giudicato, essi si abbiano per definitivamente accertati. Ne deriva che la regolare prosecuzione del rapporto, dopo la sospensione del procedimento disciplinare, non esclude la possibilità di valorizzare i fatti contestati anche quale ragione di licenziamento in tronco, se da essi, in sé considerati, discenda una valutazione che avvalori la conclusione in ordine alla rottura del rapporto fiduciario . Non decisivo, invece, il comportamento positivamente serbato dal lavoratore nella pendenza degli accertamenti penali . Ultima obiezione proposta dal dipendente è in merito al fatto che il licenziamento sia stato fatto retroagire, salvi i periodi di lavoro prestati, al momento della sospensione dal servizio . I giudici ribattono che la sospensione per detenzione riconnessa a misure penali, qualora conseguente agli stessi fatti che poi giustificano il licenziamento, si connota, in concreto, come prodromica rispetto ad esso e giustifica il retroagire degli effetti della sanzione espulsiva. Il licenziamento e la sua disposta retroattività hanno così l’effetto di giustificare definitivamente la neutralizzazione del periodo non lavorato per effetto della detenzione, salve le misure di favore previste dalla contrattazione a tutela del mantenimento interinale del lavoratore e della sua famiglia e salvo il fatto, espressamente affermato in Appello, che gli obblighi negoziali permangono intatti nei periodi non coperti dalla misura penale o da altri provvedimenti sospensivi applicati dalla pubblica amministrazione . Peraltro, l’art. 18 del C .C.N.L. del comparto enti pubblici non economici , qui da applicare, regola sotto la medesima rubrica della sospensione cautelare sia la sospensione d’ufficio per detenzione penale, sia quella facoltativamente disposta per ragioni di tutela urgente della pubblica amministrazione , e comunque, concludono i giudici, ove il procedimento disciplinare si concluda in senso sfavorevole al dipendente con l’adozione della sanzione del licenziamento, la precedente sospensione dal servizio – pur strutturalmente e funzionalmente autonoma rispetto al provvedimento risolutivo del rapporto, giacché adottata in via meramente cautelare in attesa del secondo – si salda con il licenziamento, tramutandosi in definitiva interruzione del rapporto e che legittimando il recesso del datore di lavoro retroattivamente, con perdita ex tunc del diritto alle retribuzioni a far data dal momento della sospensione medesima . Tirando le somme, è sacrosanto il licenziamento del dipendente pubblico.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 25 novembre 2020 – 5 maggio 2021, n. 11762 Presidente Tria – Relatore Bellè Fatti di causa 1. La Corte d’Appello di Trento ha rigettato il gravame proposto da M.R. avverso la sentenza del Tribunale di Rovereto con la quale era stata respinta l’impugnativa del licenziamento disciplinare intimato al predetto dall’Istituto Nazionale della Previdenza Sociale di seguito, INPS , quale conseguenza del reato di abuso sessuale a danno di minori, commesso fuori dal servizio e non attinente in via diretta al rapporto di lavoro, ma ritenuto tale da non consentirne neanche provvisoriamente la prosecuzione. La Corte territoriale riteneva che la mancata comunicazione della decisione dell’ente di sospendere il procedimento disciplinare in attesa degli esiti del procedimento penale non fosse causa di nullità del licenziamento, perché un tale obbligo non era previsto. La Corte riteneva altresì infondato l’assunto del ricorrente secondo cui il procedimento disciplinare avrebbe potuto essere ripreso dopo il giudizio penale di primo grado, per avere la P.A. a quel punto elementi sufficienti per decidere, rimarcando come la complessità e delicatezza degli addebiti, soprattutto a fronte della persistente contestazione della responsabilità, anche nel giudizio civile, giustificasse l’attesa del giudicato, come peraltro previsto dalla legge. Nel merito, la sentenza di appello riteneva che la gravità dei reati commessi, pur riguardando ambito diverso da quello lavorativo, comportasse la rottura del rapporto fiduciario, data l’esigenza, specie per una P.A., di poter contare in generale sull’osservanza da parte del proprio addetto dei precetti dell’ordinamento e dei valori di legalità. Infine, la Corte riteneva che correttamente gli effetti della sanzione fossero stati fatti decorrere dalla data della sospensione dal servizio, in coerenza con la previsione in proposito del regolamento di disciplina. 2. Il M. ha proposto ricorso per cassazione sulla base di quattro motivi, cui l’INPS ha resistito con controricorso. Ragioni della decisione 1. Con il primo motivo il ricorrente denuncia la violazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, artt. 54 e segg., nonché dell’art. 12 preleggi e dell’art. 3 Cost. art. 360 c.p.c., n. 3 sostenendo che il licenziamento sarebbe invalidato dalla mancata comunicazione della decisione dell’ente di attendere gli esiti del procedimento penale prima di definire la questione disciplinare. Con il secondo motivo è affermata la violazione delle stesse norme, ma sotto il profilo del non avere la P.A. ripreso il procedimento disciplinare dopo il processo penale di primo grado o, almeno, di secondo grado. 2. I due motivi possono essere esaminati congiuntamente e sono infondati. 2.1 Questa Corte ha ricostruito il procedimento disciplinare come destinato a svolgersi attraverso le diverse fasi della sua apertura, della contestazione, dell’istruttoria amministrativa ed infine, della irrogazione della sanzione. Tale ricostruzione ha poi portato, con riferimento alla normativa conseguente al D.Lgs. n. 150 del 2009, a ravvisare fattispecie decadenziali soltanto nell’inosservanza dei tempi del procedere rispetto al termine iniziale per la contestazione, di cui al D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55-bis, commi 2 e 4, ed ai termini finali di conclusione del procedimento di irrogazione di cui alle stesse norme, oltre che, nel caso di sospensione in attesa della definizione del procedimento penale, dei termini finali di cui al D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55-ter, u.c., per effetto implicito nel rinvio di quest’ultima disposizione all’art. 55-bis, che appunto qualifica come perentori i termini ultimi di irrogazione. Non è stata invece ritenuta di portata decadenziale l’inosservanza del termine di cinque giorni previsto per la trasmissione degli atti all’Ufficio per i Procedimenti Disciplinari Cass. 14 dicembre 2018, n. 32491 Cass. 26 agosto 2015, n. 17153 , ove non si dimostri un pregiudizio al diritto di difesa e, con riferimento anche al termine e le modalità per la convocazione a difesa disciplinati dal D.Lgs. n. 150 del 2009, art. 55-bis, ne è stata posta in evidenza la finalità di garanzia Cass. 6 marzo 2019, n. 6555 Cass. 2 ottobre 2018, n. 23895, Cass. 22 agosto 2016, n. 17245, Cass. 10 agosto 2016, n. 16900 , traendone la conseguenza che i vizi procedurali correlati all’audizione del lavoratore possono dare luogo a nullità del procedimento, e della conseguente sanzione, solo ove sia dimostrato, dall’interessato, un pregiudizio al concreto esercizio del diritto di difesa, e non di per sé soli. D’altra parte, anche le recenti modifiche apportate dal D.Lgs. n. 75 del 2017 c.d. Riforma Madia , per quanto qui non applicabili ratione temporis, prevedono analogamente, dell’art. 55-bis, nuovo comma 9-ter, che la violazione dei termini e delle disposizioni sul procedimento disciplinare previste dagli artt. da 55 a 55-quater non determina la decadenza dall’azione disciplinare nè l’invalidità degli atti e della sanzione irrogata, purché non risulti irrimediabilmente compromesso il diritto di difesa del dipendente, e le modalità di esercizio dell’azione disciplinare, anche in ragione della natura degli accertamenti svolti nel caso concreto, risultino comunque compatibili con il principio di tempestività e che sono da considerarsi perentori il termine per la contestazione dell’addebito e il termine per la conclusione del procedimento . 2.2 Ciò posto, si rileva che il D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55-ter, non prevede che la decisione della P.A. di sospendere il procedimento disciplinare sia comunicata al dipendente. D’altra parte, è difficoltoso ricostruire un indiscriminato interesse del lavoratore a che il procedimento disciplinare prosegua, quando per i medesimi fatti sia pendente procedimento penale, visto che l’attesa al di là del caso di provvedimenti cautelari, che a livello di ricostruzione generale non rileva consente comunque la prosecuzione medio tempore del rapporto e permette la fruizione delle facoltà difensive insite nel procedimento penale. In mancanza della prova di concreti ed effettivi pregiudizi al diritto di difesa, il fatto che la P.A., non palesi con comunicazione espressa l’intento di attendere l’esito del procedimento penale è pertanto privo di rilievo rispetto alla validità del procedimento disciplinare. L’unica decadenza in tali casi è quella, già menzionata, che potrebbe verificarsi all’esito dell’ultimazione del processo penale, momento rispetto al quale la ripresa del procedimento disciplinare è rigorosamente regolata dall’art. 55-ter, comma 4, con riferimento a dati formali certi, il cui superamento cronologico come si è detto è causa di invalidità della sanzione. Ma, rispetto a tale decadenza, la mancanza di comunicazione dell’originaria sospensione non ha alcun rilievo, in quanto dopo il giudicato la riattivazione ha luogo attraverso la rinnovazione della contestazione, la quale naturalmente consente di dispiegare ogni eventuale reazione riguardo al rispetto dei termini decadenziali in quel contesto previsti. 2.3 Quanto sopra consente altresì di escludere che il lavoratore possa dolersi del fatto che, dopo la sospensione del procedimento disciplinare, la P.A. non lo riattivi dopo le sentenze di primo o di secondo grado emesse in sede penale. Questa Corte ha già precisato che quella di sospendere il procedimento disciplinare è facoltà discrezionale attribuita alla P.A., la quale, fermo il principio della tendenziale autonomia del procedimento disciplinare rispetto a quello penale, può esercitarla qualora, per la complessità degli accertamenti o per altre cause, non disponga di elementi necessari per la definizione del procedimento, essendo legittimata, peraltro, a riprendere il procedimento disciplinare, senza attendere che quello penale venga definito con sentenza irrevocabile, allorquando ritenga che gli elementi successivamente acquisiti consentano la decisione Cass. 13 maggio 2019, n. 12662 . Tale ripresa anticipata è dunque facoltà propria della P.A., a tutela del proprio buon andamento, ma non sussiste alcun interesse giuridicamente tutelato del lavoratore a che essa abbia luogo, in quanto anche da questo punto di vista le tutele decadenziali sono previste solo in ragione del termine finale, susseguente al giudicato. 3. Il terzo motivo è dedicato all’asserita violazione art. 360 c.p.c., n. 3 , del D.Lgs. n. 165 del 2001, artt. 54 e segg., nonché dell’art. 12 preleggi e dell’art. 3 Cost., anche ex art. 360 c.p.c., n. 5, per essersi considerato solo il reato formalmente ascritto, senza valutare nè l’assenza di precedenti, nè il fatto che sul lavoro non vi erano contatti con minori e che, nel periodo dopo l’arresto, la condotta del dipendente era stata irreprensibile, tanto che vi era stata una promozione ed erano state accolte domande di trasferimento. Il motivo attiene all’apprezzamento in concreto della congruità della sanzione rispetto al fatto addebitato ed al complesso delle circostanze riguardanti il ricorrente. Sul punto la Corte territoriale ha sottolineato, con giudizio di merito in sé logico e concludente, non solo la particolare odiosità dei reati commessi, ma anche gli obblighi di osservanza dei valori di legalità che caratterizzano il pubblico impiegato, per concluderne che complessivamente dovesse aversi per giustificata la valutazione di irrimediabile rottura del rapporto fiduciario. Suggestiva, ma infondata, è poi l’osservazione secondo cui la corretta prosecuzione del rapporto, con anche una promozione, nelle more del procedimento penale, avrebbe dovuto essere considerata nel giudizio sulla proporzione della sanzione. Infatti, qualora la P.A., per ragioni di garanzia e cautela, decida di posticipare la propria decisione all’esito del procedimento penale, ciò non significa che l’apprezzamento della gravità e dell’improseguibilità del rapporto debba essere necessariamente condizionato dal comportamento tenuto medio tempore tenuto dal ricorrente. La P.A., sospendendo il procedimento disciplinare, legittimamente evita ogni giudizio sui fatti commessi, ma la loro gravità è destinata pienamente a riemergere, in tutta la sua portata ed in ogni aspetto, una volta che, con il giudicato, essi si abbiano per definitivamente accertati. Ne deriva che la regolare prosecuzione del rapporto dopo la sospensione del procedimento disciplinare non esclude la possibilità di valorizzare i fatti contestati anche quale ragione di licenziamento in tronco, se da essi, in sé considerati, discenda una valutazione che avvalori la conclusione in ordine alla rottura del rapporto fiduciario. In definitiva il giudizio sull’incidenza dei reati commessi sul rapporto fiduciario resta valutazione di merito, nel caso di specie non implausibilmente fondata sulla gravità dei fatti e sulle peculiarità del lavoro pubblico, sotto il profilo del rispetto della legalità e senza che sia necessariamente decisivo quanto accaduto o il comportamento positivamente serbato dall’incolpato nella pendenza degli accertamenti penali. 4. Il quarto motivo sostiene ancora la violazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, artt. 54 e segg., nonché dell’art. 12 preleggi e art. 3 Cost., per avere la Corte di merito ritenuto legittimo che il licenziamento fosse stato fatto retroagire, salvi i periodi di lavoro prestati, al momento della sospensione dal servizio. In tal modo, secondo il ricorrente, si sarebbe trascurato il fatto che si trattava di sospensione dovuta alla detenzione personale, mentre il Regolamento di disciplina faceva riferimento alla sospensione cautelare, da intendere in senso stretto come misura di tutela interinale assunta discrezionalmente dalla P.A., che nel caso di specie non era stata disposta. Il motivo è infondato. La sospensione per detenzione riconnessa a misure penali, qualora conseguente agli stessi fatti che poi giustificano il licenziamento, si connota, in concreto, come prodromica rispetto ad esso e giustifica il retroagire degli effetti della sanzione espulsiva. Il licenziamento e la sua disposta retroattività hanno così l’effetto di giustificare definitivamente la neutralizzazione del periodo non lavorato per effetto della detenzione, salve le misure di favore previste dalla contrattazione a tutela del mantenimento interinale dell’interessato e della sua famiglia e salvo il fatto, espressamente affermato dalla Corte territoriale, che gli obblighi negoziali permangono intatti nei periodi non coperti dalla misura penale o da altri provvedimenti sospensivi applicati dalla P.A Non a caso, del resto, l’art. 18 del c.c.n.l. del Comparto enti pubblici non economici, qui da applicare, regola sotto la medesima rubrica della sospensione cautelare sia la sospensione d’ufficio per detenzione penale, sia quella facoltativamente disposta per ragioni di tutela urgente della P.A. Ed analoga disciplina e rubrica è contenuta, per quanto qui non applicabile ratione temporis, nel c.c.n.l. dell’anno 2018 del Comparto unificato delle Funzioni Centrali art. 64 , come anche nei c.c.n.l. degli altri Comparti di quello stesso anno. Tutto ciò è conforme all’orientamento di questa Corte, secondo cui ove il procedimento disciplinare si concluda in senso sfavorevole al dipendente con l’adozione della sanzione del licenziamento, la precedente sospensione dal servizio - pur strutturalmente e funzionalmente autonoma rispetto al provvedimento risolutivo del rapporto, giacché adottata in via meramente cautelare in attesa del secondo - si salda con il licenziamento, tramutandosi in definitiva interruzione del rapporto e che legittimando il recesso del datore di lavoro retroattivamente, con perdita ex tunc del diritto alle retribuzioni a far data dal momento della sospensione medesima Cass. 9 settembre 2008, n. 22863 successivamente Cass. 12 maggio 2015, n. 618 . Pertanto il Regolamento di disciplina, da intendere, nel regime del lavoro pubblico contrattualizzato - come atto di autonomia privata di gestione del rapporto di impiego, cui non è precluso porre disciplina integrativa in melius in termini di maggiori garanzie procedimentali per il dipendente o di dettaglio del procedimento disciplinare Cass. 4 maggio 2011, n. 9767 , disponendo e venendo interpretato nei termini di cui sopra è coerente con l’assetto dei diritti da regolare e come tale è stato posto del tutto legittimamente a fondamento della sentenza impugnata. 3. In definitiva il ricorso è nel suo insieme infondato e va pertanto disatteso, con regolazione secondo soccombenza delle spese del grado. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento in favore della controparte delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 5.000,00 per compensi ed Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali ed accessori di legge. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.