Anche nel pubblico impiego l’esigibilità del TFR si verifica con la cessazione dal servizio

Nel pubblico impiego, la esigibilità del TFR è legata ai medesimi presupposti previsti per il lavoro nel settore privato e dunque alla cessazione formale del rapporto di lavoro. È quindi irrilevante l’eventuale continuità temporale, sotto un profilo meramente fattuale, tra più rapporti di lavoro.

Ad affermarlo è la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 2828/21 depositata il 5 febbraio. Il caso. La Corte di Appello di Palermo dichiarava inammissibile l’appello proposto dall’INPS quale successore dell’INPDAP contro la pronuncia con cui il Giudice di primo grado aveva condannato l’Istituto a corrispondere a favore di una dipendente del Ministero della Giustizia il TFR da quest’ultima maturato alla data di cessazione per dimissioni del primo rapporto di lavoro a termine alle dipendenze della medesima Amministrazione. In particolare, i Giudici di merito avevano in passato ripetutamente disatteso la tesi prospettata dall’INPS negando la supposta continuità giuridica tra i due rapporti lavorativi e sottolineando come vi fosse stata la successione di un rapporto del tutto nuovo ad un altro anteriore, estinto, con conseguente diritto del lavoratore a percepire l’importo di TFR, computato sulla durata del contratto estinto . Contro la pronuncia di primo grado l’INPS ricorreva alla Corte di Cassazione, articolando un unico motivo. L’infrazionabilità del TFR secondo l’INPS. In particolare, e per quanto qui interessa esaminare, l’Istituto si doleva della violazione dell’art. 2120 c.c., dell’art. 2 della Legge n. 335/95 nonché del d.P.C.M. 20 dicembre 1999, per avere i Giudici di merito erroneamente presupposto l’integrale applicazione della disciplina privatistica al Comparto del pubblico impiego privatizzato . L’INPS, rilevato che le peculiarità oggettive e soggettive della liquidazione del TFR nel pubblico impiego facevano venire in rilievo la cd. continuità previdenziale , sosteneva tra il resto che l’applicazione della disciplina civilistica comporterebbe una previa revisione delle aliquote contributive di riferimento, necessaria per garantire l’equilibrio finanziario della gestione, che nella specie non era intervenuta . Motivo che non viene condiviso dalla Cassazione la quale, affermando il principio esposto in massima, rigetta il ricorso. Il TFR ha natura retributiva La Corte, a sostegno del proprio ragionamento, richiama i principi enunciati dalle SS.UU. della stessa Cassazione con la sentenza n. 24280/2014 nell’avviso della quale, alla luce del mutato quadro normativo che ha assoggettato i molteplici trattamenti di fine servizio dei dipendenti pubblici contrattualizzati alla disciplina privatistica di cui all’art. 2120 c.c., il TFR ha carattere retributivo e sinallagmatico come del resto anche confermato dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 159/2019 ed è collegato, per espressa previsione normativa, alla sola cessazione del rapporto di lavoro. Conseguentemente, viene meno il ponte concettuale che permetteva di sostenere la tesi della infrazionabilità del trattamento di fine servizio pur in presenza di un’estinzione del rapporto di lavoro, quando ciò non implicasse anche l’estinzione del rapporto previdenziale . pertanto, la sua esigibilità è ancorata alla sola cessazione del rapporto di lavoro. I suesposti principi, prosegue la Corte, sono altresì stati applicati in altra propria recente pronuncia i.e. la n. 5895/2020 , nella quale si statuiva che la esigibilità del TFR è ancorata ai medesimi presupposti previsti per il lavoro privato e, dunque, alla cessazione giuridica del rapporto di lavoro e non alla cessazione della iscrizione al fondo per il trattamento di fine rapporto, gestito dall’INPS. Resta pertanto irrilevante, al pari di quanto previsto per il lavoro privato, la eventuale continuità temporale, in fatto, di più rapporti di lavoro, in forza della quale permanga la iscrizione al fondo assume, invece, esclusivo rilievo ai fini della esigibilità del TFR la cessazione dal servizio” ovvero la cesura sotto il profilo giuridico tra due rapporti di lavoro, seppure in successione temporale tra loro ed alle dipendenze della medesima amministrazione statale .

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 14 ottobre 2020 – 5 febbraio 2021, n. 2828 Presidente Tria – Relatore Tricomi Svolgimento del processo 1. La Corte d’Appello di Palermo, con l’ordinanza n. 1/R/2014, pronunciando, ai sensi dell’art. 348-bis, 348-ter e 436-bis c.p.c., sull’appello proposto dall’INPS, quale successore INPDAP nei confronti di L.G.M.C. , avverso la sentenza emessa tra le parti dal Tribunale di Trapani n. 416 del 2013. ha dichiarato inammissibile l’appello. 2. 11 Tribunale aveva condannato l’INPS, quale successore INPDAP a corrispondere a favore della lavoratrice, dipendente del Ministero della giustizia, il trattamento di fine rapporto maturato nel periodo dal 2 novembre 2000 al 28 dicembre 2008, in cui aveva lavorato, quale LSU con contratto a tempo determinato presso la suddetta amministrazione, con gli interessi legali dal 28 settembre 2009 al saldo. 3. La Corte d’Appello con precedenti pronunce aveva già disatteso le tesi dell’INPS, negando la supposta continuità giuridica tra i due rapporti lavorativi e sottolineando come vi fosse stata la successione di un rapporto del tutto nuovo ad un altro anteriore, estinto, con conseguente diritto del lavoratore a percepire l’importo di TFR. computato sulla durata del contratto estinto. 4. Per la cassazione della sentenza del Tribunale di Trapani ricorre l’INPS prospettando un motivo di impugnazione. 5. La lavoratrice è rimasta intimata. Ragioni della decisione 1. Occorre premettere che il rapporto di lavoro a termine che viene in rilievo si è svolto nell’arco temporale dal 2 novembre 2000 al 28 dicembre 2008. Dal 29 dicembre 2008 è intervenuto tra le parti un rapporto di lavoro a tempo indeterminato. 2. Tanto premesso può passarsi ad esaminare il motivo di ricorso dell’INPS. 11 ricorrente prospetta la violazione e falsa applicazione dell’art. 2120 c.c., della L. n. 335 del 1995, art. 2, commi 5, 6, 7, 8, e 9, nonché del D.P.C.M. 20 dicembre 1999, in particolare dell’art. 1 dello stesso. 2.1. Premette il ricorrente che la lavoratrice aveva prestato e prestava servizio presso il Ministero della giustizia, dapprima in virtù di contratto a tempo determinato stipulato secondo le modalità stabilite dalla L. n. 242 del 2000, in relazione al collocamento dei cosiddetti lavoratori socialmente utili, più volte prorogato, intervenendo poi la stabilizzazione per effetto della L. n. 296 del 2006, art. 1, comma 519. Tale stabilizzazione, precisa il ricorrente, veniva realizzata mediante la stipula di un contratto individuale di lavoro a tempo indeterminato, previa estinzione del precedente rapporto a tempo determinato, estinzione che andava perfezionata tramite recesso del lavoratore dal contratto, o per mutuo consenso. La lavoratrice aveva avanzato le proprie dimissioni dal servizio a tempo determinato, con effetto dal 29 dicembre 2008, sottoscrivendo un nuovo contratto a tempo indeterminato, avente efficacia dalla data del 29 dicembre 2008. Il Tribunale di Trapani aveva affermato che trovavano applicazione l’art. 2120 c.c., nonché il D.P.C.M. 20 dicembre 1999, art. 1, comma 6, per cui spettava alla lavoratrice il TFR maturato alla data di cessazione del periodo di servizio a tempo determinato. Tanto premesso, rileva il ricorrente che la statuizione della Corte d’Appello presuppone, erroneamente, l’integrale applicazione della disciplina privatistica al Comparto del pubblico impiego privatizzato. Nella fattispecie in esame, invece, trovavano applicazione la L. n. 335 del 1995, art. 2, commi 5, 6, 7, 8, e art. 9 e il D.P.C.M. 20 dicembre 1999. Nel pubblico impiego il TFR non è corrisposto dal datore di lavoro nell’ambito del rapporto bilaterale, ma dall’INPS, terzo rispetto al rapporto di lavoro. Inoltre, ai sensi dell’art. 1, comma 7 suddetto D.P.C.M., per la gestione del fondo TFR per i dipendenti dello Stato, è fissato un contributo previdenziale a favore dell’INPDAP, ora INPS, e a carico dell’Amministrazione del 9,60. Dunque peculiarità oggettive e soggettive comportavano una diversa connotazione della disciplina, e facevano venire in rilievo la cd. continuità previdenziale. Mentre per i lavoratori del settore privato, ad ogni cessazione del servizio il datore di lavoro provvede ad erogare il TFR accantonato, per i dipendenti delle pubbliche amministrazioni, in caso di contratti succedutisi senza soluzione di continuità, non possono essere liquidati plurimi TFR. Da un punto di vista sistemico, liquidare il TFR ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni, applicando la disciplina civilistica, comporterebbe una previa revisione delle aliquote contributive di riferimento, necessaria per garantire l’equilibrio finanziario della gestione, che nella specie non era intervenuta. L’Istituto richiama, a sostegno delle proprie argomentazioni, Cass., n. 24474 del 2011, che aveva cassato la sentenza di appello che aveva ritenuto ammissibile l’istituto della anticipazione del TFR per i pubblici dipendenti. Sempre a sostegno delle proprie argomentazioni, l’INPS ha richiamato la questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale di Reggio Emilia con ordinanza del 5 marzo 2013. Nella fattispecie in esame, vi era stato un nuovo rapporto di lavoro a tempo indeterminato, successivo ma senza soluzione di continuità con quello precedente a tempo determinato, pertanto il rapporto previdenziale non era venuto meno. Inoltre, la stabilizzazione era avvenuta mediante stipula di un contratto a tempo indeterminato avente ad oggetto non solo le identiche mansioni già precedentemente svolte presso la medesima amministrazione, ma anche lo svolgimento della prestazione nella medesima destinazione. Dunque, nella specie, non era intercorso alcun lasso temporale, il datore di lavoro era lo stesso, le mansioni erano rimaste identiche, la prestazione era svolta nella medesima sede. 3. Il motivo non è fondato. 3.1. la L. 18 agosto 2000, n. 242, art. 1, comma 2, in attesa della revisione delle piante organiche, al fine di garantire, in particolare, la piena attuazione del D.Lgs. n. 51 del 1998, istitutivo del giudice unico di primo grado, ove richiesto da carenze di organico presso i vari uffici giudiziari, ha previsto che il Ministero della giustizia poteva provvedere, entro tre mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, alla stipulazione di contratti a tempo determinato per diciotto mesi, prioritariamente, per i lavoratori impegnati in lavori socialmente utili, relativamente a progetti aventi scadenza massima successiva al 1 aprile 2000, ovvero impegnati nei lavori socialmente utili nelle sedi periferiche della giustizia minorile ovvero utilizzati per progetti di utilità collettiva presso uffici giudiziari su autorizzazione del Ministero della giustizia citato art. 1, comma 2, lett. a . Detti contratti, venivano successivamente prorogati in ragione di diverse ulteriori disposizioni di legge. Infine, la L. n. 296 del 2006, art. 1, comma 519, prevedeva un generale programma di stabilizzazione a domanda del personale non dirigenziale in servizio a tempo determinato da almeno tre anni, anche non continuativi, o che conseguiva tale requisito in virtù di contratti stipulati anteriormente alla data del 29 settembre 2006, o che fosse stato in servizio per almeno tre anni, anche non continuativi, nel quinquennio anteriore alla data di entrata in vigore della presente legge, che ne avesse fatto istanza, purché fosse stato assunto mediante procedure selettive di natura concorsuale o previste da norme di legge. Alle iniziative di stabilizzazione del personale assunto a tempo determinato mediante procedure diverse, si provvedeva previo espletamento di prove selettive. La norma aveva poi previsto che le Amministrazioni continuavano ad avvalersi del personale di cui al medesimo comma già assunto con contratti a termine come specificato, nelle more della conclusione delle procedure di stabilizzazione. 3.2. Sul tema in esame della frazionabilità sono intervenute le Sezioni Unite civili con la sentenza n. 24280 del 2014. Le Sezioni Unite hanno posto in evidenza l’intervenuto cambiamento del quadro normativo, perché il legislatore, con la riforma delle pensioni L. n. 335 del 1995 , ha armonizzato i molteplici trattamenti di fine servizio dei dipendenti pubblici contrattualizzati, assoggettandoli tutti alla disciplina privatistica dettata dall’art. 2120 c.c. come riformato dalla L. n. 297 del 1982 . Alla stregua di questa normativa, il TFR spetta in ogni caso di cessazione del rapporto di lavoro subordinato art. 2120 c.c., comma 1 , quindi il collegamento, per espressa previsione normativa, è con la cessazione del rapporto di lavoro subordinato. All’interprete non è consentito modificare il contenuto della norma operando il collegamento con l’estinzione del rapporto previdenziale, qualora le estinzioni dei due rapporti non coincidano. Inoltre, il TFR viene costituito mediante l’accantonamento anno per anno di quella che l’art. 2120 c.c. definisce una quota della retribuzione determinata dividendo per 13.50 la retribuzione annua corrisposta, a titolo non occasionale, in dipendenza del rapporto di lavoro. Hanno, quindi affermato le Sezioni Unite che è pertanto chiaro il carattere retributivo e sinallagmatico del TFR. Di conseguenza, viene meno il ponte concettuale che permetteva di sostenere la tesi della infrazionabilità del trattamento di fine servizio pur in presenza di un’estinzione del rapporto di lavoro, quando ciò non implicasse anche l’estinzione del rapporto previdenziale. 3.3. La natura retributiva del TFR ha trovato conferma nella sentenza della Corte costituzionale n. 159 del 2019. La suddetta sentenza ha affermato, tra l’altro, che l’evoluzione normativa, stimolata dalla giurisprudenza costituzionale, ha ricondotto le indennità di fine rapporto erogate nel settore pubblico al paradigma comune della retribuzione differita con concorrente funzione previdenziale, nell’ambito di un percorso di tendenziale assimilazione alle regole dettate nel settore privato dall’art. 2120 c.c. D.P.C.M. 20 dicembre 1999 . Tale processo di armonizzazione, contraddistinto anche da un ruolo rilevante dell’autonomia collettiva sentenza Corte Cost. n. 213 del 2018 , rispecchia la finalità unitaria dei trattamenti di fine rapporto, che si prefiggono di accompagnare il lavoratore nella delicata fase dell’uscita dalla vita lavorativa attiva. 3.4. Dei principi enunciati dalle Sezioni Unite, con la pronuncia n. 24280 del 2014. ha fatto applicazione, in fattispecie analoga a quella in esame, la sentenza di questa Corte, Sezione Lavoro, n. 5895 del 2020, la cui motivazione si richiama ai sensi dell’art. 118 disp. att. c.p.c. Cass. n. 5895 del 2020, nel richiamare i principi enunciati dalle S.U., sopra riportati, ha affermato, tra l’altro, che la esigibilità del TFR è stata cioè ancorata ai medesimi presupposti previsti per il lavoro privato e, dunque, alla cessazione giuridica del rapporto di lavoro e non alla cessazione della iscrizione al fondo per il trattamento di fine rapporto, gestito dall’INPS. Resta pertanto irrilevante, al pari di quanto previsto per il lavoro privato, la eventuale continuità temporale, in fatto, di più rapporti di lavoro, in forza della quale permanga la iscrizione al fondo assume, invece, esclusivo rilievo ai fini della esigibilità del TFR la cessazione dal servizio ovvero la cesura sotto il profilo giuridico tra due rapporti di lavoro, seppure in successione temporale tra loro ed alle dipendenze della medesima amministrazione statale . 3.5. A tali principi si intende dare continuità, nè argomenti a sostegno della tesi del ricorrente possono trarsi dalla giurisprudenza di legittimità richiamata dallo stesso - Cass. n. 24474 del 2011 - atteso il diverso istituto dell’anticipazione dell’indennità di buonuscita che in quella sede veniva in rilievo. Quanto al richiamo da parte dell’INPS all’ordinanza di rimessione del Tribunale di Reggio Emilia, occorre rilevare che la Corte costituzionale con la sentenza n. 244 del 2014 ha rigettato la questione escludendo la disparità di trattamento prospettata dal giudice a quo e sostenuta anche dall’INPS nel presente ricorso. 3.6. Dei principi enunciati da Cass. S.U., n. 24280 del 2014, e Cass., Sezione Lavoro, n. 5895 del 2020, ha fatto corretta applicazione la Corte d’Appello, atteso che nella fattispecie di causa è pacifico che il rapporto di lavoro a termine è cessato per dimissioni ed è stato costituito un nuovo rapporto di lavoro a tempo indeterminato - seppure alle dipendenze della stessa amministrazione - assumendo tale dato rilievo dirimente. 4. Il ricorso deve essere rigettato. Nulla spese poiché la controparte è rimasta intimata. 5. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1-bis, se dovuto. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1-bis, se dovuto.