Troppo spesso al bar per un caffè: licenziato l’ausiliario della sosta

Inutile il ricorso proposto in Cassazione da una lavoratrice. Acclarate le condotte a lei addebitate, e certificate dalle parole di due testimoni. Definitivo il drastico provvedimento della società datrice di lavoro, che svolgeva l’incarico per conto del Comune.

Troppe ‘pausa caffè’ per l’ausiliario del traffico. La pessima abitudine può costare il posto di lavoro, sanciscono i Giudici. Cassazione, sez. Lavoro, ordinanza n. 18246/20, depositata oggi . Riflettori puntati sulle condotte tenute da una donna, che opera come ausiliario della sosta e addetta al controllo del pagamento del ticket delle automobili parcheggiate in qualità di dipendente di una società a cui tale attività è stata affidata dal Comune. In particolare, è emerso che la lavoratrice si è resa colpevole di soste al bar di vari minuti – eccedenti i 20 minuti – per ben sei occasioni , così tralasciando per il corrispondente arco temporale il controllo delle vetture in sosta . In aggiunta, poi, si è appurato che ella in un’occasione si è fermata mezz’ora in ufficio e ha indicato in modo erroneo l’orario di una sanzione, risultata applicata in coincidenza di una sua sosta al bar . I comportamenti tenuti dalla donna sono ritenuti gravi dalla società, che, preso atto della ripetuta interruzione del servizio , adotta il provvedimento più drastico il licenziamento . E dai giudici di merito arriva, nonostante le obiezioni mosse dalla lavoratrice, la conferma della decisione presa dall’azienda. Inequivocabili, in sostanza, gli addebiti a lei mossi. Su questo fronte, in particolare, gli addebiti posti alla base del recesso, contestati alla lavoratrice con due missive e accertati dalla società in sede di ispezione sono stati resi più solidi dalla deposizione di due testimoni , che con i loro racconti hanno confermato la correttezza degli orari delle pause al bar indicati nelle lettere di contestazione . In particolare, i due testimoni hanno personalmente partecipato all’attività di controllo e direttamente verificato gli orari di sosta della lavoratrice all’interno degli esercizi pubblici . Allo stesso tempo, è risultato confermato dall’istruttoria che in due diverse giornate la lavoratrice aveva riportato, in due avvisi di accertamento, un orario errato, coincidente con un periodo in cui ella non stava lavorando, ma si trovava in un bar o comunque era in pausa , e tali irregolarità sono state commesse dalla dipendente per coprire lo stato di non lavoro , hanno osservato i giudici d’Appello, e connotano di particolare gravità la complessiva condotta ascritta alla donna. Legittimo, quindi, il licenziamento, secondo i giudici di merito. E su questa posizione si attesta anche la Cassazione. Inutile il ricorso proposto dal difensore della donna. Il legale sostiene che il licenziamento è stato irrogato per avere la lavoratrice commesso un falso in atto pubblico che il datore di lavoro si era proposto di provare a mezzo testimoni e aggiunge che sia il Tribunale che la Corte d’appello hanno ritenuto provato tale presunto falso sulla base dell’ esame delle testimonianze rese dai due controllori . E ciò rende evidente, sempre secondo il legale, la violazione della norma codicistica poiché l’atto pubblico è idoneo a fare piena prova, fino a querela di falso, della provenienza del documento dal pubblico ufficiale che lo ha formato, nonché delle dichiarazioni delle parti e degli altri fatti che il pubblico ufficiale attesta avvenuti in sua presenza o da lui compiuti . E ciò, secondo il legale, doveva indurre a ritenere che l’ orario accertato dal pubblico ufficiale nell’ atto pubblico – ossia l’orario in cui il pubblico ufficiale dichiara di avere redatto l’atto pubblico –, quale deve ritenersi il verbale di accertamento delle violazioni redatto dagli ausiliari del traffico, ai sensi del comma 132 dell’art. 17 della l. n. 127/1997, come interpretato dall’art. 68 l. n. 488/99, sia un elemento dei fatti attestati dal pubblico ufficiale come avvenuti in sua presenza . In sostanza, né il Tribunale né la Corte d’Appello potevano giungere a ritenere provato un errore, doloso o colposo, della lavoratrice nella redazione dei verbali, poiché, in mancanza di querela di falso , il verbale conserva la fede privilegiata sulla realtà e veridicità del suo contenuto nelle ipotesi in cui si deducano sviste o altri involontari errori o omissioni percettivi da parte del verbalizzante , afferma il legale, e quindi, il Tribunale non avrebbe dovuto dare ingresso alla prova testimoniale e la Corte distrettuale non avrebbe dovuto considerare le dichiarazioni dei testi sul punto erroneità-falsità dell’orario di elevazione delle contestazioni . E ancora il giudice d’appello avrebbe dovuto escludere la correttezza della avvenuta ammissione in primo grado della prova testimoniale laddove diretta a contestare un fatto accertato in atto pubblico, al di fuori del procedimento di querela di falso . Per il legale, quindi, i giudici di entrambi i gradi del merito hanno dichiarato l’esistenza di un falso in atto pubblico, falso ideologico, attribuendo al pubblico ufficiale la volontà di dichiarare il falso al fine di rappresentare una realtà differente da quella materiale, in mancanza della procedura prevista dal legislatore, con violazione degli artt. 2700 c.c. e 116 e 221 c.p.c. . E allo stesso tempo il giudice del merito avrebbe dovuto assumere differenti valutazioni in relazione alla corrispondenza tra fatti contestati e fatti commessi, nonché in relazione alla proporzione tra il provvedimento espulsivo e gli illeciti disciplinari contestati alla lavoratrice e ritenuti accertati dal giudice del merito . Tutte queste osservazioni sono però inutili, poiché il ricorso proposto dal legale è ritenuto connotato da assoluta novità e come tale inammissibile . In secondo grado, difatti, la linea difensiva era centrata sull’assunto che il Tribunale aveva omesso di vagliare la possibilità che vi fosse stato un errore materiale nella redazione del verbale, quanto all’indicazione dell’orario ivi specificato, con riguardo alla sosta senza ticket , dando quindi per scontato che quanto affermato nella contestazione dell’addebito fosse veritiero , osservano dalla Cassazione, e quindi ammettendo, nella sostanza, che il contenuto dell’avviso di accertamento non fosse esatto . Non essendo in discussione, quindi, le condotte addebitate alla lavoratrice, è confermato il suo licenziamento .

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, ordinanza 24 giugno – 2 settembre 2020, n. 18246 Presidente Raimondi – Relatore Arienzo Rilevato che 1. Il Tribunale di Venezia respingeva la impugnativa di licenziamento proposta, in sede di opposizione avverso l'ordinanza conclusiva della fase sommaria, da Al. Ta., lavoratrice dipendente dell'AVM s.p.a. dal 2004, con mansioni di cd. ausiliario della sosta, addetta al controllo del pagamento del ticket delle auto parcheggiate nelle zone a pagamento di Mestre e Lido VE - attività svolta dalla società per conto del Comune di Venezia - rilevando che gli addebiti posti alla base del recesso, contestati alla predetta con missive del 2.12.2015 e 10.12.2015, accertati dalla società in sede di ispezione interna, non erano stati contestati in sé quali fatti storici dalla lavoratrice ed erano stati confermati dall'istruttoria orale svolta in fase sommaria 1.1. tali addebiti erano relativi a soste al bar di vari minuti, eccedenti i venti minuti, per ben sei occasioni, da parte della Ta., che aveva tralasciato per il corrispondente arco temporale il controllo delle vetture in sosta e, con riferimento alla giornata del 2.12.2015, all'ulteriore condotta di essersi fermata mezz'ora in ufficio ed avere indicato in modo erroneo l'orario di una sanzione, risultata applicata in coincidenza di una sua sosta al bar 1.2. la condotta ascritta alla Ta. era relativa anche ad una reiterazione dei fatti di inadempimento posti in essere, comportamenti ritenuti non giustificati da problemi di salute da cui era affetta la lavoratrice, come accertato dal C.t.u. medico legale officiato, che aveva escluso la necessità di interruzione del servizio per le patologie pregresse in ragione di ciò la sua condotta veniva sanzionata, a differenza che per altri colleghi della Ta., con sanzione espulsiva 2. la Corte d'appello di Venezia, con sentenza del 25.10.2018, rigettava il reclamo proposto da Al. Ta. avverso la indicata decisione, osservando, per quel che ancora rileva nella presente sede che il quarto motivo di gravame era infondato, posto che, dalla deposizione dei testi Ro. e Bu., era risultata confermata la correttezza degli orari delle pause al bar indicati nelle lettere di contestazione del 2.12.2015 e 10.12.2015, da ritenersi pienamente provati per avere i due testimoni indicati personalmente partecipato all'attività di controllo e direttamente verificato gli orari di sosta della reclamante all'interno degli esercizi pubblici che parimenti era risultato confermato dall'istruttoria che, in data 30.11.2015 e 2.12.2015, la lavoratrice aveva riportato, in due avvisi di accertamento, un orario errato, coincidente con un periodo in cui la stessa non stava lavorando, ma si trovava in un bar o comunque in altro luogo nello specifico, rispettivamente a le ore 11,47, orario in cui la lavoratrice si trovava all'interno del Bar Caneve, in via Caneve 50 Mestre, dalle ore 11,24 alle ore 12,13 e b le ore 18.02, orario in cui la stessa era in pausa all'interno dell'ufficio in Piazzale Candiani, dalle ore 17,41 alle ore 18,30 che tali irregolarità erano state commesse dalla dipendente per coprire lo stato di non lavoro e connotavano di particolare gravità la complessiva condotta ascrittale 3. di tale decisione domanda la cassazione la Ta., affidando l'impugnazione ad unico motivo - illustrato nella memoria depositata ai sensi dell'art. 380 bis. 1 c.p.c. -, cui resiste, con controricorso, la s.p.a. AVM. Considerato che 1. il motivo di ricorso denuncia violazione dell'art. 2700 c.c., in relazione agli artt. 116 e 221 c.p.c. assumendo la ricorrente che il licenziamento era stato irrogato per avere ella commesso un falso in atto pubblico che il datore di lavoro si era proposto di provare a mezzo testimoni e che sia il Tribunale, che la Corte distrettuale hanno ritenuto provato, sulla base dell'esame delle testimonianze rese dai controllori Ro. e Bu. 1.1. la ricorrente sostiene che la violazione della norma codicistica invocata è evidente per essere l'atto pubblico idoneo a fare piena prova, fino a querela di falso, della provenienza del documento dal pubblico ufficiale che lo ha formato, nonché delle dichiarazioni delle parti e degli altri fatti che il pubblico ufficiale attesta avvenuti in sua presenza o da lui compiuti 1.2. aggiunge che ciò doveva indurre a ritenere che l'orario accertato dal pubblico ufficiale nell'atto pubblico - ossia l'orario in cui il p. u. dichiara di avere redatto l'atto pubblico -, quale deve ritenersi il verbale di accertamento delle violazioni redatto dagli ausiliari del traffico, ai sensi del comma 132 dell'art. 17 della L. 127/1997, come interpretato dall'art. 68 L. 488/99, sia un elemento dei fatti attestati dal Pubblico Ufficiale come avvenuti in sua presenza 1.3. la Ta. assume che né il Tribunale, né la Corte d'appello potevano giungere a ritenere provato un errore, doloso o colposo, della stessa nella redazione dei verbali, poiché, in mancanza di querela di falso, il verbale conserva la fede privilegiata sulla realtà e veridicità del suo contenuto nelle ipotesi in cui si deducano sviste o altri involontari errori o omissioni percettivi da parte del verbalizzante sostiene che il Tribunale non avrebbe dovuto dare ingresso alla prova testimoniale e che la Corte distrettuale non avrebbe dovuto considerare le dichiarazioni dei testi Bu. e Ro. sul punto erroneità/falsità dell'orario di elevazione delle contestazioni 1.4. rileva che il giudice d'appello avrebbe dovuto escludere la correttezza della avvenuta ammissione in primo grado della prova testimoniale laddove diretta a contestare un fatto accertato in atto pubblico, al di fuori del procedimento di querela di falso, ed osserva che, se pure l'art. 116 c.p.c. demanda la valutazione delle prove al prudente apprezzamento del giudice, ciò è consentito solo salvo che la legge disponga altrimenti 1.5. evidenzia come la disciplina codicistica lasci libertà di apprezzamento al giudice del merito, ma imponga una sorta di gerarchia tra le prove, e che i giudici di entrambi i gradi del merito hanno dichiarato l'esistenza di un falso in atto pubblico, falso ideologico, attribuendo al P.U. la volontà di dichiarare il falso al fine di rappresentare una realtà differente da quella materiale, in mancanza della procedura prevista dal legislatore, con violazione degli artt. 2700 c.c. e 116 e 221 c.p.c. 1.6. la ricorrente conclude osservando che il giudice del merito avrebbe dovuto assumere differenti valutazioni in relazione alla corrispondenza tra fatti contestati e fatti commessi, nonché in relazione alla proporzione tra il provvedimento espulsivo e gli illeciti disciplinari contestati alla lavoratrice e ritenuti accertati dal giudice del merito 2. la questione oggetto dell'unico motivo di ricorso è connotata da assoluta novità e come tale deve ritenersi inammissibile 3. la Corte distrettuale non si è pronunciata sulla questione de qua perché le censure in sede di gravame attenevano ad altri profili ed, in particolare, la doglianza espressa nel quarto motivo dell'atto di appello si incentrava sull'assunto che il Tribunale aveva omesso di vagliare la possibilità che vi fosse stato un errore materiale nella redazione del verbale, quanto all'indicazione dell'orario ivi specificato, con riguardo alla sosta senza ticket, dando quindi nella sostanza per scontato che quanto affermato nella contestazione dell'addebito fosse veritiero e quindi ammettendo, nella sostanza, che il contenuto dell' avviso di accertamento non fosse esatto per mero errore materiale 3.1. tale difesa è pertanto incompatibile con quanto osservato soltanto nella presente sede attraverso la introduzione di una questione che doveva essere posta negli stessi termini già nelle fasi di merito, laddove non emerge che la decisione assunta dal Tribunale fosse stata censurata su tale specifico piano 3.2. invero, qualora una questione giuridica - implicante un accertamento di fatto - non risulti trattata in alcun modo nella sentenza impugnata, il ricorrente che la proponga in sede di legittimità, onde non incorrere nell'inammissibilità per novità della censura, ha l'onere non solo di allegare l'avvenuta deduzione della questione dinanzi al giudice di merito, ma anche, per il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, di indicare in quale atto del giudizio precedente lo abbia fatto, per consentire alla Corte di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione, prima di esaminare nel merito la censura stessa cfr. Cass. 13.12.2019 n. 2848 4. anche il rilievo, avanzato in appello, che i testi escussi avevano riferito circostanze apprese de relato è indice della novità della questione odierna, posto che l'impostazione difensiva non riteneva preclusa la prova per testi in generale, ma si basava sull'inattendibilità e inutilizzabilità della testimonianza resa dagli stessi 5. alla stregua di tali considerazioni deve pervenirsi alla declaratoria di inammissibilità del ricorso 6. le spese del presente giudizio seguono la soccombenza del ricorrente e sono liquidate nella misura indicata in dispositivo 7. essendo stato il ricorso proposto in epoca posteriore al 30 gennaio 2013, occorre dare atto della sussistenza dei presupposti per l'applicabilità dell'art. 13, comma 1 quater, D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall'art. 1, comma 17, legge 24 dicembre 2012, n. 228, presupposti che ricorrono anche in ipotesi di declaratoria di inammissibilità del ricorso cfr. Cass., Sez. Un., n. 22035/2014 P.Q.M. la Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 200,00 per esborsi, Euro 4500,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% e accessori di legge. Ai sensi dell'art. 13, co. 1 quater, del D.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, ove dovuto.