Niente rivalutazione sui crediti del dipendente pubblico

Con riferimento ai rapporti di lavoro in essere con un datore di natura pubblica ed in un’ottica di contenimento della spesa pubblica, vige il divieto di cumulo tra gli interessi legali e la rivalutazione monetaria su tutti crediti di tipo retributivo, comprese le somme dovute a titolo di risarcimento del danno per licenziamento illegittimo.

Così ha deciso la Corte di Cassazione con la sentenza n. 13625/2020, depositata il 2.7.2020 Il bidello marocchino della scuola italiana La vicenda ha origine in una scuola italiana, dove il ricorrente aveva lavorato come bidello e custode per circa trent’anni. Il rapporto di lavoro instaurato con il Ministero degli Affari Esteri Italiano cessava a causa della chiusura della scuola. Si apriva quindi un contenzioso circa la legittimità della risoluzione, nell’ambito del quale i giudici avevano propeso per la natura privatistica del rapporto di lavoro, facendone conseguire le tutele di legge. Il contenzioso però non si esauriva nell’illegittimità del licenziamento , poiché il lavoratore lamentava altresì un’importante omissione contributiva , che gli veniva riconosciuta con diritto al risarcimento del danno . Il lavoratore quindi risultava creditore del Ministero per una somma di natura contributiva sulla quale chiedeva la maggiorazione per interessi legali e rivalutazione monetaria. La Corte territoriale adita per il secondo grado di giudizio non condannava il Ministero al pagamento della rivalutazione monetaria sulle somme dovute a titolo di risarcimento, osservando che, ai sensi dell’art 22 comma 36 l. 724/1994, la rivalutazione monetaria non era cumulabile con gli interessi legali che, invece, erano stati riconosciuti. Il divieto di cumulo tra interessi legali e rivalutazione monetaria. La questione del cumulo tra interessi legali e rivalutazione monetaria giunge sino alla Corte di Cassazione. Secondo il lavoratore entrambe le maggiorazioni sarebbero dovute in ragione della natura privatistica del rapporto di lavoro ed ai sensi dell’art 429 c.p.c. al contrario, secondo il Ministero la rivalutazione non sarebbe dovuta in quanto non cumulabile con gli interessi legali e per esigenze di conservazione delle pubbliche finanze. Da un lato, è vero che hanno natura privatistica tutti i rapporti di lavoro tra il Ministero degli Affari Esteri e i cittadini stranieri assunti contratti disciplinati dal diritto materiale locale, per mansioni ausiliarie presso istituti scolastici gestiti dall’Italia all’estero. La natura privatistica di simili rapporti è individuata ex lege, ai sensi della l. 775/1956 e dalla l. 1222/1971 sul personale assunto per esigenze temporanee in Paesi in via di sviluppo e da ciò conseguirebbe l’applicazione dell’art. 429 c.p.c., secondo cui sui crediti da lavoro sono dovuti gli interessi legali nonché il ristoro per il maggior danno eventualmente subito dal lavoratore per la diminuzione del valore dei suo credito”, i.e. rivalutazione monetaria. Dall’altro lato, però, occorre considerare che il divieto di cumulo è stato oggetto di questione di legittimità costituzionale Corte Cost. n. 459/2000 , sulla base della quale detto divieto risponderebbe ad esigenze di contenimento della spesa pubblica e, quindi, opererebbe in ipotesi residuali, ossia, nei rapporti di lavoro subordinati con enti pubblici non economici e nei rapporti di natura privatistica alle dipendenze dei Ministeri. Il divieto di cumulo, infatti, opera una significativa deroga all’art 429 c.p.c., che può essere giustificata solo in ragione di un interesse collettivo superiore, quale è la necessità di contenimento della spesa pubblica. Ciò considerato, la Corte di Cassazione rigetta il ricorso accerta la palese natura pubblica del datore di lavoro Ministero degli Affari Esteri , e ritiene di conseguenza operante il divieto di cumulo tra interessi legali e rivalutazione monetaria. Il ricorrente avrà quindi diritto al risarcimento del danno, già riconosciutogli e non contestato in sede di legittimità, maggiorato dei soli interessi legali. Ubi major, minor cessat.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 16 gennaio – 2 luglio 2020, n. 13624 Presidente Nobile – Relatore Blasutto Fatti di causa 1. La Corte di appello di Roma, con sentenza n. 8453 del 2015, pronunciando sull'appello proposto da E.A.M., avverso la sentenza del Tribunale di Roma del 6 maggio 2014, rideterminava in Euro 51.226,00, oltre interessi legali, la somma dovuta dal Ministero degli Affari Esteri all'appellante a titolo di risarcimento del danno per omissione contributiva relativa al periodo 27 luglio 1972 al 31 dicembre 1993. Osservava la Corte d'appello che l'omissione contributiva riguardava un rapporto di lavoro intercorso con il Ministero di Affari Esteri in Marocco, sulla base della sentenza emessa dalla stessa Corte di appello nel giudizio di rinvio dalla cassazione in data 17 agosto 2004 . 2. Per quanto rileva ancora nella presente sede, la Corte di appello rigettava il motivo vertente sull'omessa condanna del Ministero al pagamento della rivalutazione monetaria sulle somme dovute a titolo risarcitorio. Osservava che, ai sensi della L. n. 724 del 1994, art. 22, comma 36, la rivalutazione monetaria non è cumulabile con gli interessi legali. 3. Per la cassazione di tale capo della sentenza di appello l'originario ricorrente ha proposto ricorso sulla base di un motivo. Ha resistito con controricorso il Ministero degli Affari Esteri. 4. A seguito di ordinanza interlocutoria Cass. n. 14013 del 2017 , la causa è stata rimessa questa Sezione per la trattazione in pubblica udienza. 5. Entrambe le parti hanno depositato memoria ex art. 378 c.p.c Ragioni della decisione 1. Preliminarmente, va rigettata l'eccezione sollevata dal Ministero degli Affari Esteri in ordine alla regolarità della procura alle liti, risultando osservati gli adempimenti di cui al combinato disposto di cui al D.Lgs. n. 75 del 2011, art. 52, comma 1, lett. f in riferimento al D.P.R. n. 445 del 2000, art. 33 con riguardo alla legalizzazione degli atti rilasciati dall'autorità estera ad opera del Consolato italiano. 1.1. Nel caso in esame la procura speciale alle liti conferita dall'odierno ricorrente all'avv. Bruno Caputo, espressamente riferita alla proposizione del ricorso per cassazione avverso la sentenza n. 8453/2015 della Corte di appello di Roma, reca in calce la sottoscrizione autenticata dalla competente autorità marocchina, seguita dalla legalizzazione ad opera del Consolato d'Italia a Casablanca in data 21 giugno 2016, ossia in data anteriore al ricorso. 1.2. In merito alla mancata notifica della procura in unione al ricorso, va considerato che il requisito dell'indicazione della procura al difensore se conferita con atto separato , prescritto dall'art. 366 c.p.c., comma 1, n. 5, a pena di inammissibilità del ricorso per cassazione, deve ritenersi sussistente quando la parte ricorrente abbia indicato nell'intestazione del ricorso tutti i dati occorrenti alla sua identificazione ed abbia tempestivamente depositato assieme al ricorso la procura speciale conferita all'estero, in modo da consentire alla controparte, attraverso il successivo controllo in cancelleria, di individuare siffatta procura e di verificarne l'anteriorità rispetto alla notificazione del ricorso stesso cfr. Cass. n. 27385 del 2005, n. 20812 del 2010 v. pure Cass. n. 1135 del 1983 e Cass. n. 6717 del 1988 . 1.3. Tali adempimenti sono stati rispettati, atteso che il ricorso per cassazione notificato il 22 giugno 2016 reca nell'intestazione la puntuale indicazione di tutti i dati occorrenti alla identificazione della procura speciale, la quale è stata altresì depositata in Cancelleria unitamente al ricorso in data 1 luglio 2016. 2. Con unico motivo di ricorso E.A.M. denuncia violazione ed errata applicazione della L. n. 724 del 1994, art. 22, comma 36 che richiama la L. n. 412 del 1991, art. 16, comma 6 secondo cui dal 1 gennaio 1995 il cumulo di rivalutazione e interessi legali non è più ammesso per i crediti di lavoro pubblico. La Corte di appello, pur avendo riconosciuto al ricorrente il diritto a percepire gli interessi legali sulle somme liquidate in suo favore, non gli ha invece riconosciuto il diritto alla rivalutazione, ritenendo che nel caso di specie la rivalutazione non sia cumulabile con gli interessi. Tale statuizione, secondo il ricorrente, è da ritenere erronea, poichè la norma citata riguarda i soli crediti di natura retributiva, pensionistica ed assistenziale e non quelli di natura risarcitoria, come quello oggetto del giudizio. 3. Il ricorso è infondato per i motivi che seguono. 3.1. Occorre premettere che non è in contestazione la liquidazione operata dalla Corte di appello a titolo di risarcimento del danno da omissione contributiva Euro 51.226,00, oltre interessi legali , ma solo il mancato riconoscimento della rivalutazione monetaria in cumulo con gli interessi. 4. Il diritto del lavoratore al risarcimento del danno per omessa o irregolare contribuzione assicurativa sorge solo nel momento in cui si verifica il duplice presupposto dell'inadempienza contributiva del datore di lavoro e della perdita, totale o parziale, della prestazione previdenziale od assistenziale e non da quello in cui i contributi omessi avrebbero dovuto essere versati o ne sia maturata la prescrizione o sia cessato il rapporto di lavoro cfr. Cass. n. 10528 del 1997, v. pure Cass. 3773 del 1999 cfr. da ultimo Cass. n. 27660 del 2018 . Nel caso in esame, vertendo l'azione risarcitoria sulla perdita totale o parziale del trattamento previdenziale, il momento della maturazione del diritto si colloca necessariamente in epoca successiva al 31.12.94 e dunque nella vigenza della L. n. 724 del 1994. Difatti, la regola del divieto di cumulo di cui alla L. 23 dicembre 1994, n. 724, art. 22, comma 36, in relazione alla L. 30 dicembre, art. 16, comma 6, non avendo la legge anzidetta effetto retroattivo, riguarda i crediti maturati dopo il 31 dicembre 1994. 5. Occorre svolgere altresì alcune osservazioni sulla qualificazione del rapporto di lavoro a suo tempo intercorso tra l'odierno ricorrente e il Ministero degli Affari esteri. 5.1. Risulta dalla sentenza delle Sezioni Unite di questa Corte n. 13984/2002 - che ebbe a riconoscere la giurisdizione del giudice ordinario, rigettando l'eccezione all'epoca sollevata dal Ministero degli Affari Esteri - che E.A.M., cittadino del OMISSIS , adì con ricorso del 13 gennaio 1998 il Pretore di Roma, in funzione di giudice del lavoro, deducendo di avere svolto dal 1961 al 1993 attività di vigilanza e di custodia presso la scuola italiana di Tangeri alle dipendenze del Ministero degli Affari Esteri. Le Sezioni Unite osservarono che il rapporto di lavoro fra il Ministero degli esteri e cittadini stranieri, che siano stati assunti con contratti soggetti alla normativa locale e per lo svolgimento di mansioni ausiliarie presso istituti culturali o scolastici gestiti dall'Italia all'estero, ha natura privatistica per effetto della qualificazione direttamente operata dalla L. 30 giugno 1956, n. 775 sul ruolo transitorio presso il Ministero degli affari esteri, il cui art. 15 definisce di diritto privato il contratto con il personale assunto per esigenze temporanee secondo le leggi e gli usi locali, e della L. 15 dicembre 1971, n. 1222, sulla cooperazione tecnica con i Paesi in via di sviluppo, il cui art. 1 ripropone analoga definizione. 6. Venendo specificamente alla questione oggetto del presente giudizio, va ricordato che la Corte costituzionale con la pronuncia n. 459/2000 - nel dichiarare l'illegittimità costituzionale della L. n. 724 del 1994, art. 22, comma 36 nella parte in cui estendeva all'ipotesi dell'inadempimento dei crediti retributivi dei lavoratori subordinati privati la regola della non cumulabilità degli interessi e della rivalutazione monetaria, già prevista per i crediti previdenziali dalla L. 30 dicembre 1991, n. 412, art. 16, comma 6, così sottraendoli al regime di cui all'art. 429 c.p.c., comma 3, - ha osservando che le uniche ragioni giustificatrici dell'intervento legislativo risiedevano, in un contesto di progressivo deterioramento degli equilibri della finanza pubblica, nella necessità di una più adeguata ponderazione dell'interesse collettivo al contenimento della spesa pubblica cfr. tra le tante, Cass. n. 16889 del 2015 e n. 15272 del 2017, nonchè Cass. n. 16284 del 2005 v. anche Cass. 3708 e 4366 del 2009, nonchè Cass. n. 4652 del 2011 . 7. Proprio muovendo dalla ratio sottesa a tale pronuncia, questa Corte ha specificato che l'esclusione dal divieto di cumulo non può trovare applicazione per i dipendenti privati di enti pubblici non economici e neppure per i rapporti di lavoro di natura privatistica alle dipendenze di Ministeri. Per tali categorie di rapporti di lavoro ricorrono le ragioni di contenimento della spesa pubblica , che sono alla base della disciplina differenziata, secondo la ratio decidendi prospettata dal Giudice delle leggi con la citata sentenza n. 459/2000. 7.1. In tal senso si sono espresse Cass. n. 535 del 2013 e Cass. n. 20765 del 2018, che hanno riguardato i lettori di lingua straniera dell'Università degli Studi, e Cass. n. 17869 del 2014, riguardante il lavoro dei detenuti. In tali casi opera il divieto di cumulo tra rivalutazione monetaria ed interessi legali, poichè non ricorre la medesima ratio di cui alla pronuncia di accoglimento della Corte costituzionale n. 459 del 2000 che ha escluso il divieto per i crediti dei lavoratori privati - ma sussistono ragioni di contenimento della spesa pubblica, che giustificano la differenziazione della disciplina. 8. Giova richiamare, in particolare, quanto osservato da questa Corte a fronte della rivendicazione del riconoscimento della rivalutazione monetaria sulla mercede carceraria. Si è osservato che l'aspetto privatistico dell'organizzazione del lavoro che nel caso di lavoro carcerario si svolge anche in esecuzione di commesse esterne all'interno dei singoli istituti penitenziari non esclude che il Ministero della Giustizia sia il centro di direzione e coordinamento delle strutture aziendali che a detti istituti fanno capo e che i rapporti di lavoro intercorrano con il Ministero, per cui la qualificazione pubblica dell'amministrazione nel cui ambito operano i carcerati determina il regime degli accessori, in linea con la pronuncia della Corte Costituzionale n. 459 del 2000. 8.1. Analoghe considerazioni devono svolgersi per il caso in esame, atteso che il rapporto di lavoro a suo tempo intercorso tra l'odierno ricorrente e il Ministero degli Affari Esteri, pur di natura interamente privatistica e precaria, faceva capo ad una Amministrazione dello Stato italiano ed era svolta nel contesto di una sua attività istituzionale gestione di scuola italiana all'estero . 9. Per completezza, va osservato che, una volta valorizzata, ai fini dell'individuazione della normativa applicabile, la natura pubblica del datore di lavoro e ritenuto operante il divieto di cumulo, deve trovare applicazione il D.M. n. 352 del 1998, il cui art. 3, comma 2 prevede che gli interessi legali o la rivalutazione monetaria sono calcolati sulle somme dovute, al netto delle ritenute previdenziali, assistenziali ed erariali cfr. Cass. n. 20765 del 2018 . 10. La seconda questione da affrontare è quella relativa alla applicabilità o meno della regola or ora specificata ai crediti di natura risarcitoria riferibili ad un rapporto di lavoro che soggiace alla previsione limitativa di cui alla L. n. 724 del 1994, art. 22, comma 36. 11. Osserva la Corte che, sebbene l'elencazione contenuta nella L. n. 724 del 1994, art. 22, comma 36 la L. 30 dicembre 1991, n. 412, art. 16, comma 6, si applica anche agli emolumenti di natura retributiva, pensionistica ed assistenziale non menzioni testualmente i crediti di natura risarcitoria, le sentenze di questa Corte intervenute successivamente alla pronuncia n. 459/2000 della Corte Costituzionale hanno generalmente ritenuto che la norma riguardi i crediti di lavoro , senza ulteriori specificazioni cfr. Cass. S.U. n. 38 del 2001 e successive conformi , e tale locuzione non può che includere anche ai crediti di natura risarcitoria nascenti dal rapporto di lavoro, cui è riferibile l'art. 429 c.p.c., rispetto al quale il legislatore ha introdotto una regola limitativa. 11.1. La locuzione crediti di lavoro di cui all'art. 429 c.p.c., comma 3, nella giurisprudenza di questa Corte, ha un'ampia portata applicativa, essendo ricompresi in tale ampia accezione tutti i crediti connessi al rapporto di lavoro e non soltanto a quelli aventi natura strettamente retributiva. Così vi rientrano anche le somme liquidate a titolo di risarcimento del danno cfr. Cass. n. 5024 del 2002 per i crediti risarcitori ex art. 2087 c.c., conf. Cass. 12098 del 2004 v. Cass. 6 luglio 1990 n. 7101 cui adde Cass. 7 febbraio 1996 n. 976 per la generale affermazione che l'art. 429 c.p.c. sulla decorrenza degli interessi e della rivalutazione liquidati a favore del lavoratore si riferisce a tutti i crediti connessi ad un rapporto di lavoro, senza alcuna esclusione per quelli aventi titolo risarcitorio . Si è pure affermato che, in materia di risarcimento del danno da omissione contributiva, opera la disposizione dell'art. 429 c.p.c., comma 3, sul maggior danno da svalutazione monetaria, poichè l'omissione contributiva costituisce violazione di un'obbligazione scaturente dal rapporto di lavoro e dà luogo ad un credito di valore Cass. n. 10528 del 1997, n. 5559 del 1999 . 12. Pure la sentenza n. 82 del 2003 della Corte Costituzionale ha accomunato nella ratio della L. n. 724 del 1994, art. 22, comma 36, e nel meccanismo ivi previsto tutti i crediti di lavoro riferibili al datore di lavoro pubblico. 12.1. Con tale sentenza è stato osservato che il legislatore è libero di sostituire quel meccanismo quello di cui all'art. 429 c.p.c., comma 3 n.d.r. con altro, restando ferma la necessità di riconoscere ai crediti di lavoro un'effettiva specialità di tutela rispetto alla generalità degli altri crediti, cui si riferisce l'art. 1224 c.c., ponendo una remora all'inadempimento del datore di lavoro mediante la previsione di un meccanismo di riequilibrio del vantaggio patrimoniale indebitamente da lui conseguito . La dichiarazione di illegittimità costituzionale del divieto di cumulo di interessi e rivalutazione - relativamente al rapporto di lavoro privato - risulta decisivamente fondata sulla constatazione che la norma impugnata poteva incentivare l'inadempimento del datore di lavoro, consentendogli di lucrare con investimenti finanziari, pur privi di rischio l'eventuale differenziale tra il rendimento dell'investimento ed il tasso di svalutazione . Siffatta ratio decidendi non può essere automaticamente estesa al datore di lavoro pubblico. La pubblica amministrazione infatti conserva pur sempre - anche in presenza di un rapporto di lavoro ormai contrattualizzato - una connotazione peculiare sentenza n. 275 del 2001 , sotto il profilo - per quanto qui rileva - della conformazione della condotta cui essa è tenuta durante lo svolgimento del rapporto al rispetto dei principi costituzionali di legalità, imparzialità e buon andamento, cui è estranea ogni logica speculativa . Non esistendo una necessità di predisporre per il datore di lavoro pubblico le stesse remore all'inadempimento, deve escludersi quella omogeneità di situazioni, cui il rimettente ricollega l'asserita lesione del principio di uguaglianza posto dall'art. 3 Cost. sent. cit., in motivazione . 13. Alle esposte considerazioni di ordine logico-giuridico di carattere generale, va aggiunto che questa Corte ha già avuto occasione di riconoscere l'applicabilità della suddetta regola limitativa a crediti di natura risarcitoria riferibili a rapporti di c.d. pubblico impiego contrattualizzato. 13.1. In particolare, è stata applicata tale regola ai casi di illegittimità del licenziamento con ordine di reintegra nel posto di lavoro e condanna della Pubblica Amministrazione al risarcimento dei danni pari all'importo della retribuzione globale di fatto maturata dal dipendente dalla data del licenziamento a quella della effettiva reintegrazione in servizio v. Cass. n 21192 del 2018 e Cass. n. 15639 del 2018, entrambe relative al diritto al risarcimento del danno ai sensi della L. n. 300 del 1970, art. 18, con cui questa Corte, accogliendo il relativo motivo di ricorso proposto dall'Ente pubblico non economico , e, decidendo nel merito ex art. 384 c.p.c., comma 2, ha condannato l'ente locale a corrispondere la maggior somma tra gli interessi legali e la rivalutazione monetaria ai sensi della L. n. 724 del 1994, art. 22, comma 36, sulla somma liquidata a titolo risarcitorio nella impugnata sentenza. 14. Nella materia pensionistica devoluta alla giurisdizione della Corte dei Conti, il diritto alla rivalutazione automatica del credito nonchè alla liquidazione d'ufficio degli interessi legali in applicazione dell'art. 429 c.p.c., comma 3, riguardante anche prestazioni aventi natura risarcitoria o indennitaria, a seguito della L. n. 205 del 2000, art. 5 che ha reso omogeneo il regime dei crediti pensionistici, è stato affermato dalle Sezioni riunite che, con la sentenza n. 6 del 2008, hanno affermato che il rinvio operato dalla L. n. 205 del 2000, art. 5 è un rinvio dinamico, e quindi comprendente anche la successiva evoluzione normativa quale dettata dal combinato disposto della L. 412 del 1991, art. 16, comma 6, dalla L. n. 724 del 1994, art. 22, comma 36, dal D.M. 1 settembre 1998, n. 352 e dalla L. 23 dicembre 1998, n. 448, art. 45, comma 6. 15. In conclusione, la previsione limitativa di cui alla L. n. 724 del 1994, art. 22, comma 36, trova applicazione anche ai crediti di natura risarcitoria riferibili ad un rapporto di lavoro ricadente nell'area di operatività di detta norma. 16. Il ricorso va dunque rigettato. Tenuto conto della novità delle questioni oggetto del giudizio, ricorrono giusti motivi per compensare tra le parti le spese del presente giudizio. 17. Va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis v. Cass. S.U. n. 23535 del 2019 . P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e compensa le spese del presente giudizio. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso art. 13, se dovuto.