Divieto di fumo durante l’orario lavorativo: concedersi una sigaretta può costare il posto?

Nel caso in cui un dipendente contravvenga al divieto di fumo durante le ore di lavoro e tale condotta sia qualificata come giusta causa di licenziamento dal contratto collettivo applicato nell’azienda datrice di lavoro, il giudice non è vincolato dalle previsioni del CCNL ma può escludere che il comportamento del lavoratore costituisca di fatto una giusta causa in considerazione delle circostanze concrete che lo hanno caratterizzato.

Così ha deciso la Cassazione con la sentenza n. 12841/29, depositata il 26 giugno. Ad un lavoratore, che aveva contravvenuto al divieto di fumo durante l’orario di lavoro concedendosi una sigaretta in un’intercapedine dei locali della ditta datrice di lavoro, veniva intimato il licenziamento per giusta causa . Mentre il Tribunale aveva ritenuto legittimo il licenziamento, la Corte d’Appello aveva accolto la domanda di annullamento dello stesso, rilevando che in luogo del licenziamento fosse da erogare la sanzione conservativa dell’ammonizione o della sospensione dal lavoro e dalla retribuzione. Avverso la decisione propone ricorso in Cassazione la società datrice di lavoro, lamentando che, per il contratto collettivo nazionale applicato in azienda nella specie, pulizia-servizi integrati-multiservizi , il divieto di fumare è inderogabile e la clausola contrattuale richiede che il pregiudizio all’incolumità delle persone e alla sicurezza sia anche solo potenziale. La Cassazione, ritenendo infondato il motivo, rileva che la Corte territoriale ha valutato sia il profilo soggettivo che oggettivo della condotta e ha osservato che il lavoratore è stato trovato intento a fumare in uno spazio privo di attrezzature pericolose e ha ritenuto di escludere la ricorrenza dei requisiti costitutivi della fattispecie contrattuale punita con sanzione espulsiva, non potendosi ritenete integrato un pericolo alla salute derivante dalla combustione della sigaretta. Pertanto, la Suprema Corte ritiene coretto il percorso logico giuridico seguito dalla sentenza impugnata, poiché rispettoso dei principi per cui in tema di licenziamento per giusta causa , ai fini della proporzionalità tra addebito e recesso, rileva ogni condotta che, per la sua gravità, possa scuotere la fiducia del datore di lavoro e far ritenere la continuazione del rapporto pregiudizievole agli scopi aziendali. Spetta al giudice di merito valutare la congruità della sanzione espulsiva , non sulla base di una valutazione astratta dell’addebito, ma tenendo conto di ogni aspetto concreto del fatto, alla luce di un apprezzamento unitario e sistematico della sua gravità, rispetto ad un’utile prosecuzione del rapporto di lavoro, assegnandosi rilievo alla configurazione delle mancanze operata dalla contrattazione collettiva, all’intensità dell’elemento intenzionale, al grado di affidamento richiesto dalle mansioni, alle precedenti modalità di attuazione del rapporto, alla durata dello stesso, all’assenza di pregresse sanzioni, alla natura e alla tipologia del rapporto medesimo . In particolare, la giusta causa di licenziamento è nozione legale ed il giudice non è vincolato dalle previsioni del contratto collettivo onde lo stesso può ritenere la sussistenza della giusta causa per un grave inadempimento o per un grave comportamento del lavoratore contrario alle norme della comune etica o del comune vivere civile ove tale grave inadempimento o tale grave comportamento, secondo un apprezzamento di fatto non sindacabile in sede di legittimità se congruamente motivato, abbia fatto venire meno il rapporto fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore e, per altro verso, può escludere altresì che il comportamento del lavoratore costituisca di fatto una giusta causa, pur essendo qualificato tale dal contratto collettivo, in considerazione delle circostanze concrete che lo hanno caratterizzato. Tuttavia la scala valoriale espressa dal contratto collettivo deve costituire uno dei parametri cui occorre fare riferimento per riempire di contenuto la clausola generale dell’art. 2119 c.c Chiarito questo, la Cassazione respinge il ricorso.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 18 febbraio – 26 giugno 2020, n. 12841 Presidente Di Cerbo – Relatore Boghetich Fatti di causa 1. La Corte di appello di Genova, in riforma della sentenza del Tribunale della medesima sede, ha - con sentenza n. 305 depositata il 24.9.2018 - accolto la domanda di annullamento del licenziamento per giusta causa intimato da PH Facility s.r.l., in data 11.8.2016, a C.G. , per aver contravvenuto al divieto di fumo durante l’orario di lavoro e presso un recondito ambito intercapedine dei locali della ditta committente Ansaldo Energia. 2. La Corte, circoscritto l’oggetto del licenziamento esclusivamente alla contravvenzione al divieto di fumare con esclusione delle altre infrazioni contestate nella lettera del 28.7.2016 , escludeva che il fatto addebitato al lavoratore, risultato provato, rientrasse nella previsione di cui all’art. 48, lett. b del CCNL Pulizie - Multiservizi, disposizione che ricollega il licenziamento ai casi in cui il lavoratore sia trovato a fumare dove può provocare pregiudizio all’incolumità delle persone o alla sicurezza degli impianti , dovendosi, invece, ritenere integrata la previsione collegata al mero divieto di fumare dettata dall’art. 47 del medesimo CCNL e concernente la sanzione conservativa dell’ammonizione o della sospensione dal lavoro e dalla retribuzione, con conseguente illegittimità del licenziamento ed applicazione della tutela reintegratoria di cui alla L. n. 300 del 1970, art. 18, comma 4, come modificato dalla L. n. 92 del 2012. 3. Per la cassazione di tale sentenza la società ha proposto ricorso affidato a due motivi. Il lavoratore ha resistito con controricorso. Ragioni della decisione 1. Con il primo motivo di ricorso si deduce nullità della sentenza per violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4 in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 avendo, la Corte distrettuale, fornito una motivazione incomprensibile ed apparente nella misura in cui ha affermato che la contestazione disciplinare e la lettera di licenziamento dovevano essere valutate nella loro interezza ossia considerando l’intero comportamento tenuto dal lavoratore e poi ha affermato che l’unico oggetto del licenziamento doveva ritenersi essere l’infrazione al divieto di fumare con esclusione della condotta di insubordinazione e di inattività durante l’orario di lavoro . 2. Con il secondo motivo di ricorso si denunzia violazione e/o falsa applicazione della L. n. 3 del 2003, art. 51, nn. 1 e 2, art. 48 B, lett. f e 47, lett. h del ccnl imprese di Pulizia-servizi integrati-Multiservizi in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 avendo, la Corte distrettuale, trascurato che il divieto di fumare è, per legge, inderogabile e la clausola contrattuale richiede che il pregiudizio all’incolumità delle persone e alla sicurezza degli impianti sia anche solo potenziale. 3. Il primo motivo è inammissibile. Nel caso di specie difetta la necessaria riferibilità delle censure alla motivazione della sentenza impugnata, in quanto la Corte territoriale non ha affermato che la contestazione disciplinarè e la lettera di licenziamento dovevano essere valutate nella loro interezza ossia comprensive di tutti i fatti addebitati al lavoratore nella lettera di contestazione bensì, effettuando un’operazione esegetica sia della lettera di contestazione disciplinare sia della lettera di licenziamento, ha rilevato che il datore di lavoro aveva, dapprima nella lettera di contestazione , descritto una molteplicità di condotte inadempienti e, poi nella lettera di licenziamento , si era limitato per sua imponderabile scelta discrezionale a sanzionare solamente il comportamento relativo all’infrazione al divieto di fumo. La censura non coglie la ratio decidendi perché il ricorrente insiste sul contraddittorio percorso logico-giuridico esposto nella sentenza impugnata insussistente, come anzidetto ma nulla deduce sulla interpretazione delle lettere di contestazione disciplinare e di licenziamento. 4. Il secondo motivo di ricorso è infondato. La Corte territoriale - condividendo le conclusioni assunte dal Tribunale circa la vigenza del divieto di fumo a norma di legge e di specifica disposizione adottata dalla ditta committente in tutto lo stabilimento Ansaldo Energia presso il quale il C. era stato assegnato per lo svolgimento della sua attività lavorativa - ha valutato, ai fini di riempire di contenuto la clausola generale dettata dall’art. 2119 c.c., la scala valoriale del codice disciplinare contenuto nel contratto collettivo applicato in azienda avendo rinvenuto due tipizzazioni contrattuali concernenti l’infrazione al divieto di fumo l’una, ex art. 47 ccnl, punita con sanzione conservativa e l’altra, ex art. 48, lett. f con sanzione espulsiva ha proceduto alla verifica della sussistenza dei requisiti elaborati dalle parti sociali per l’adozione del provvedimento di licenziamento, pervenendo alla conclusione della impossibilità della sussunzione della condotta adottata dal C. nell’art. 48, lett. f per carenza della situazione di pericolo per le persone o per gli impianti . La Corte distrettuale, valutando sia il profilo soggettivo che quello oggettivo della condotta e in specie la conformazione del luogo ove il lavoratore è stato trovato intento a fumare zona di intercapedine tra uffici sprovvisto di impianti e di persone assenza di attrezzature pericolose quali bombole contenenti materiale infiammabile planimetria dello stabilimento , ha ritenuto di escludere la ricorrenza dei requisiti costitutivi della fattispecie contrattuale punita con sanzione espulsiva, in particolare rilevando che - alla luce delle circostanze concrete che caratterizzavano la condotta del lavoratore - non poteva ritenersi integrato un pericolo alla salute derivante dalla mera combustione di una sigaretta posto che l’infrazione al divieto di fumo in ambienti chiusi previsto dalla legge L. n. 3 del 2003, art. 51 doveva misurarsi, quanto agli effetti sul rapporto di lavoro, con le due distinte previsioni disciplinari elaborate dalle parti sociali artt. 47 e 48 ccnl . 4.1. Il percorso logico-giuridico seguito dalla sentenza impugnata è corretto e rispettoso dei principii di diritto formulati da questa Corte con riguardo al codice disciplinare contenuto nei contratti collettivi. In tema di licenziamento per giusta causa, ai fini della proporzionalità tra addebito e recesso, rileva ogni condotta che, per la sua gravità, possa scuotere la fiducia del datore di lavoro e far ritenere la continuazione del rapporto pregiudizievole agli scopi aziendali, essendo determinante, in tal senso, la potenziale influenza del comportamento del lavoratore, suscettibile, per le concrete modalità e il contesto di riferimento, di porre in dubbio la futura correttezza dell’adempimento, denotando scarsa inclinazione all’attuazione degli obblighi in conformità a diligenza, buona fede e correttezza. Spetta al giudice di merito valutare la congruità della sanzione espulsiva, non sulla base di una valutazione astratta dell’addebito, ma tenendo conto di ogni aspetto concreto del fatto, alla luce di un apprezzamento unitario e sistematico della sua gravità, rispetto ad un’utile prosecuzione del rapporto di lavoro, assegnandosi rilievo alla configurazione delle mancanze operata dalla contrattazione collettiva, all’intensità dell’elemento intenzionale, al grado di affidamento richiesto dalle mansioni, alle precedenti modalità di attuazione del rapporto, alla durata dello stesso, all’assenza di pregresse sanzioni, alla natura e alla tipologia del rapporto medesimo cfr. Cass. n. 2013 del 2012 e, precedentemente, in senso analogo, tra le tante, Cass. nn. 13574, 7948, 5095, 4060 del 2011 . In particolare, la giusta causa di licenziamento è nozione legale ed il giudice non è vincolato dalle previsioni del contratto collettivo onde lo stesso può ritenere la sussistenza della giusta causa per un grave inadempimento o per un grave comportamento del lavoratore contrario alle norme della comune etica o del comune vivere civile ove tale grave inadempimento o tale grave comportamento, secondo un apprezzamento di fatto non sindacabile in sede di legittimità se congruamente motivato, abbia fatto venire meno il rapporto fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore e, per altro verso, può escludere altresì che il comportamento del lavoratore costituisca di fatto una giusta causa, pur essendo qualificato tale dal contratto collettivo, in considerazione delle circostanze concrete che lo hanno caratterizzato cfr. Cass. 4060/2011 cit. . Tuttavia la scala valoriale espressa dal contratto collettivo deve costituire uno dei parametri cui occorre fare riferimento per riempire di contenuto la clausola generale dell’art. 2119 c.c. Cass. n. 9396 del 2018 Cass. n. 28492 dei 2018 principio ribadito da Cass. n. 14062 del 2019 Cass. n. 14063 del 2019 v. anche Cass. n. 13865 del 2019 , considerato altresì che la L. n. 183 del 2010, art. 30, comma 3, ha previsto che nel valutare le motivazioni poste a base del licenziamento, il giudice tiene conto delle tipizzazioni di giusta causa e di giustificato motivo presenti nei contratti collettivi di lavoro cfr. Cass. n. 32500 del 2018 circa la natura non meramente ricognitiva delle disposizioni contenute nella L. n. 183 del 2010, art. 30, v. anche Cass. n. 25201 del 2016 . Il principio generale subisce eccezione ove la previsione negoziale ricolleghi ad un determinato comportamento giuridicamente rilevante solamente una sanzione conservativa in tal caso il giudice è vincolato dal contratto collettivo, trattandosi di una condizione di maggior favore fatta espressamente salva dal legislatore L. n. 604 del 1966, art. 12 . Pertanto, ove alla mancanza sia ricollegata una sanzione conservativa, il giudice non può estendere il catalogo delle giuste cause o dei giustificati motivi di licenziamento oltre quanto stabilito dall’autonomia delle parti cfr., in particolare, Cass. n. 15058 del 2015 Cass. n. 4546 del 2013 Cass. n. 13353 del 2011 Cass. n. 1173 del 1996 Cass. n. 19053 del 1995 , a meno che non si accerti che le parti stesse non avevano inteso escludere, per i casi di maggiore gravità, la possibilità di una sanzione espulsiva , dovendosi attribuire prevalenza alla valutazione di gravità di quel peculiare comportamento, come illecito disciplinare di grado inferiore, compiuta dall’autonomia collettiva nella graduazione delle mancanze disciplinari cfr. ex multis Cass. n. 1173 del 1996 Cass. n. 14555 del 2000 Cass. n. 6165 del 2016 Cass. n. 11860 del 2016 Cass. n. 17337 del 2016 . In ordine ai criteri di interpretazione di un contratto collettivo ed alla previsione di una scala valoriale recepita dal contratto collettivo, questa Corte ha già affermato che, in considerazione della sua natura privatistica, vanno applicate le disposizioni dettate dall’art. 1362 c.c. e ss., che sussiste il divieto di interpretazione analogica delle clausole contrattuali e che l’interpretazione estensiva è possibile solo ove risulti l’ inadeguatezza per difetto dell’espressione letterale adottata dalle parti rispetto alla loro volontà, verifica che deve essere condotta con particolare severità in un contesto nel quale trova applicazione il principio generale secondo cui una norma che preveda una eccezione tutela reintegratoria nel testo della L. n. 300 del 1970, art. 18 come novellato dalla L. n. 92 del 2012 rispetto alla regola generale tutela risarcitoria deve essere interpretata restrittivamente. Cass. n. 12365 del 2019 e ivi ampi riferimenti giurisprudenziali conf. Cass. n. 31839 del 2019 . 4.2. È, dunque, conforme ai principi sopra richiamati l’operato della Corte distrettuale che ha accertato se sussisteva la nozione legale di giusta causa di licenziamento, anche alla luce delle fattispecie previste dal ccnl di settore e sulla base della scala valoriale ivi contenuta, e, pervenuta alla esclusione della ricorrenza di una giustificazione della sanzione espulsiva, ha svolto - ai fini della scelta del sistema sanzionatorio da applicare - una disamina sulla ricorrenza delle condizioni previste dall’art. 18, comma 4 per accedere alla tutela reintegratoria dovendo, in assenza, applicare il regime generale costituito dalla c.d. tutela risarcitoria forte del comma 5 . 5. In conclusione, il ricorso va respinto. Le spese di lite sono liquidate secondo il criterio della soccombenza dettato dall’art. 91 c.p.c 6. Il ricorso è stato notificato in data successiva a quella 31/1/2013 di entrata in vigore della legge di stabilità del 2013 L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 , che ha integrato il D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, aggiungendovi il comma 1 quater del seguente tenore Quando l’impugnazione, anche incidentale è respinta integralmente o è dichiarata inammissibile o improcedibile, la parte che l’ha proposta è tenuta a versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione, principale o incidentale, a norma art. 1 bis. Il giudice da atto nel provvedimento della sussistenza dei presupposti di cui al periodo precedente e l’obbligo di pagamento sorge al momento del deposito dello stesso . Essendo il ricorso in questione avente natura chiaramente impugnatoria integralmente da respingersi, deve provvedersi in conformità. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente a pagare le spese del presente giudizio di legittimità liquidate in Euro 200,00 per esborsi e in Euro 5.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore impOrto a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis se dovuto.