Corte Suprema degli Stati Uniti: illegittimo il licenziamento del dipendente perché gay o transessuale

Il datore di lavoro che licenzia un proprio dipendente per il mero fatto di essere omossessuale o transessuale, inevitabilmente ed intenzionalmente discrimina quest’ultimo quantomeno a causa del suo sesso, violando così il Titolo VII del Civil Rights Act.

Ad affermarlo è la Corte Suprema degli Stati Uniti con decisione pubblicata il 15 giugno 2020 nel procedimento Bostock v. Clayton County. I casi. All’attenzione della Corte Suprema degli Stati Uniti d’America venivano sottoposti tre distinti ma analoghi casi, ciascuno dei quali traeva origine dal licenziamento di un dipendente nell’immediatezza della dichiarazione, da parte di quest’ultimi, della propria omosessualità o transessualità e, come pacifico in atti, fondato esclusivamente su tali dichiarazioni. Ciascuno di tali lavoratori aveva convenuto in giudizio il proprio datore di lavoro, asserendo che nel caso di specie fossero stati illegittimamente discriminati in ragione del proprio sesso e quindi in violazione del Titolo VII del Civil Rights Act del 1964. Tuttavia, con specifico riferimento al procedimento Bostock v. Clayton County, Georgia, nell’avviso dell’Undicesimo Circuit la legge i.e. il Titolo VII non proibisce ai datori di lavoro di licenziare i propri dipendenti perché omosessuali . Ad un esito diverso giungevano, invece, il Secondo ed il Sesto Circuit con riferimento ai restati due casi oggetto della decisione in commento, esprimendo in sintesi la seguente conclusione la discriminazione basata sull’orientamento sessuale o sull’ identità di genere viola il Titolo VII . Discriminare intenzionalmente un dipendente sulla base del suo sesso, viola la legge. In particolare, nei casi in esame, la Suprema Corte veniva chiamata a decidere se un datore di lavoro possa o meno licenziare qualcuno semplicemente per essere omosessuale o transessuale . La Corte rileva preliminarmente come, al fine di risolvere tali controversie, sia necessario stabilire quale sia il significato pubblico ordinario del disposto di cui al Titolo VII del Civil Rights Act a mente del quale, è illegittimo [] per un datore di lavoro non assumere o rifiutare di assumere o licenziare un individuo, o comunque discriminare un individuo in relazione al suo compenso, termini, condizioni o privilegi di impiego, a causa della razza, colore, religione, sesso o origine nazionale di tale individuo , e quindi quale fosse il significato di tale previsione al momento della sua emanazione. Muovendo dal presupposto che il termine sesso [] si riferisse esclusivamente alla distinzione biologica tra uomo e donna , la Corte rileva come il Titolo VII proibisce in particolare che il datore di lavoro adotti determinate azioni a causa” del sesso , precisando che il termine a causa” [] integra il semplice” e tradizionale” standard di but-for causation i.e. del nesso di causalità . In particolare, questa forma di causalità è accertata ogniqualvolta un determinato risultato non si sarebbe verificato in assenza della causa presunta . Da tali considerazioni, emerge dunque che il convenuto non può evitare una propria responsabilità in tal senso soltanto citando qualche altro fattore che abbia contribuito alla sua contestata decisione . Inoltre, la Corte specifica come il termine discriminazione di cui alla legge in questione già nel 1964 significasse trattare un individuo in modo peggiore rispetto ad altri che si trovano in una posizione analoga , ricordando peraltro come la differenza di trattamento basata sul sesso debba essere intenzionale . Pertanto, un datore di lavoro che intenzionalmente tratta una persona in modo peggiore a causa del sesso – ad esempio licenziando una persona per azioni o caratteristiche che avrebbe tollerato in un individuo di un altro sesso – discrimina quella persona in violazione del Titolo VII . Infine, nell’avviso della Corte l’uso ripetuto nel Titolo VII del termine individuo significa che l’attenzione è posta su un essere particolare come distinto da una categoria , a conferma che la legge in discorso si concentri sull’individuo in sé e non sul gruppo. La discriminazione basata sull’orientamento sessuale o identità di genere implica necessariamente una discriminazione basata sul sesso. Muovendo dal significato dei suddetti termini, la Corte statuisce il seguente principio un datore di lavoro viola il Titolo VII quando intenzionalmente licenzia un singolo dipendente anche solo in parte per ragioni legate al sesso di quest’ultimo , non assumendo in tal senso alcun rilievo la circostanza che altri fattori oltre al sesso del ricorrente abbiano contribuito alla decisione datoriale ovvero che il datore di lavoro abbia trattato le donne come gruppo allo stesso modo degli uomini intesi come gruppo . Ciò comporta quindi che il sesso di un singolo dipendente sia irrilevante ai fini della sua selezione, valutazione o compensazione e più in generale ai fini delle decisioni datoriali, e per l’effetto anche la sua eventuale omosessualità o transessualità. Ed infatti, è impossibile discriminare una persona per essere omosessuale o transessuale senza discriminare quest’ultima sulla base del suo stesso sesso , posto che discriminare su queste basi richiede che un datore di lavoro tratti intenzionalmente singoli dipendenti in modo diverso a causa del loro sesso . In altre parole, un datore di lavoro che licenzia un dipendente perché omosessuale o transessuale, licenzia quest’ultimo in ragione di caratteristiche o azioni che non avrebbe messo in discussione in membri di un altro sesso . Dunque, un datore di lavoro che intenzionalmente penalizza un dipendente per essere omosessuale o transessuale viola anche in questo caso il Titolo VII sul presupposto che chi discrimina su queste basi intende inevitabilmente fare leva sul sesso nel suo processo decisionale . I precedenti. La correttezza della propria conclusione è ulteriormente suffragata, prosegue la Corte, da tre importanti precedenti le cui statuizioni rilevano anche con riferimento ai casi in esame. Richiamandosi appunto a tali precedenti, la Corte sostiene innanzitutto come sia irrilevante come un datore di lavoro possa chiamare la sua pratica discriminatoria, come gli altri possano etichettarla, o cos’altro possa motivarla . In secondo luogo, la Corte sottolinea ancora una volta come il sesso del ricorrente non deve necessariamente essere l’unica o principale causa dell’azione negativa del datore di lavoro , non assumendo quindi alcuna importanza la circostanza per cui un altro fattore - come il sesso da cui il ricorrente è attratto - possa [] svolgere un ruolo preminente nella decisione datoriale . Infine, prosegue la Corte, un datore di lavoro non può sfuggire alla propria responsabilità dimostrando che tratti uomini e donne, intesi come gruppi, in modo analogo e dunque un datore di lavoro che licenzia intenzionalmente un singolo dipendente omosessuale o transessuale in parte a causa del suo sesso viola la legge anche se è disposto a sottoporre tutti i dipendenti omosessuali o transessuali, uomini e donne, alla stessa regola . La tutela antidiscriminatoria in Italia e nell’Unione Europa . La pronuncia in commento offre l’occasione per una breve digressione sulla tutela antidiscriminatoria di cui gode la comunità LGBT nel nostro Paese e nell’Unione Europea sul luogo di lavoro. A tal riguardo, occorre in prima battuta segnalare l’art. 15 dello Statuto dei Lavoratori, a mente del quale è nullo qualsiasi patto o atto diretto [] a fini di discriminazione [] di sesso [] o basata sull’orientamento sessuale . Nel nostro Paese, dunque, è lo stesso diritto positivo a prevedere la nullità del licenziamento intimato in ragione del sesso o dell’orientamento sessuale del dipendente. In ambito comunitario e con espresso riferimento alle persone transessuali, invece, merita una particolare menzione la nota sentenza della Corte di Giustizia Europea nella causa C - 13/94 P. c. S. e Cornwall County Council, le cui statuizioni hanno poi trovato seguito anche in successive e diverse pronunce cfr. Sarah Margaret Richards v. Secretary of State for Work and Pensions, causa C - 423/04 . Con tale specifica pronuncia, la Corte Europea ha ritenuto che il licenziamento di una lavoratrice transessuale fosse in contrasto con l’allora direttiva n. 76/207/CEE relativa all’attuazione del principio di parità di trattamento tra uomini e donne per quanto riguarda l’accesso al lavoro , poi rifusa nella direttiva 2006/54/CE, estendendone quindi l’applicazione anche alle discriminazioni che hanno origine [] nel mutamento di sesso , in quanto siffatte discriminazioni si basano essenzialmente, se non esclusivamente, sul sesso dell’interessato .

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