Sussiste la giusta causa di licenziamento del dipendente che abbia agito senza un’ordinaria diligenza

In tema di licenziamento per giusta causa, ai fini della valutazione di proporzionalità è sempre necessario valutare in concreto se il comportamento tenuto, per la sua gravità, sia suscettibile di scuotere la fiducia del datore di lavoro e di far ritenere che la prosecuzione del rapporto si risolva in un pregiudizio per gli scopi aziendali, con particolare attenzione alla condotta del lavoratore che denoti una scarsa inclinazione ad attuare diligentemente gli obblighi assunti ed a conformarsi ai canoni di buona fede e correttezza.

Ad affermarlo è la Corte di Cassazione con sentenza n. 28927/19, depositata l’8 novembre. Il caso. La Corte di Appello di Roma, riformando la pronuncia di primo grado, dichiarava giustificato il licenziamento per giusta causa comunicato dall’INPS ad un proprio dipendente, colpevole di avere alterato i dati di alcune pratiche di ricongiunzione di periodi assicurativi e riscatti di periodi di laurea. Rilevavano in particolare i Giudici di merito come la condotta del lavoratore fosse stata posta in essere in violazione degli artt. 7 e 9 della l. n. 274/1991, i quali stabiliscono le modalità di individuazione della data della domanda, che deve coincidere con la data di spedizione della lettera raccomandata, quando essa sia stata presentata con lettera raccomandata, o con la data di protocollazione se presentata a mano, anche in ragione della circolare dell'Istituto n. 40 del 1995 . In tale contesto normativo, proseguiva la Corte di merito, qualora il lavoratore si fosse trovato a lavorare pratiche arretrate avrebbe dovuto trattarle in ragione dei dati in suo possesso a quella data, e non, invece, facendo riferimento un momento arbitrariamente individuato e antecedente, anche in ragione dell'ordinaria diligenza . Infine, nell’avviso della medesima Corte, non vi era violazione del principio del ne bis in idem, in quanto i fatti contestati erano sì coevi a quelli oggetto di un precedente procedimento disciplinare, ma da essi distinti. Contro tale pronuncia il lavoratore ricorreva alla Corte di Cassazione, articolando vari motivi. Ogni lavoratore, tanto più se con rilevante anzianità di servizio, deve agire con diligenza. In particolare, e per quanto qui interessa esaminare, il ricorrente si doleva della violazione del principio di proporzionalità tra inadempimento e sanzione disciplinare ad esso conseguente, attribuendo le proprie condotte a meri errori materiali dovuti ad una erronea interpretazione della normativa di riferimento. Motivo che tuttavia non viene condiviso dalla Cassazione la quale, affermando il principio esposto in massima, lo rigetta. Ed infatti, nell’avviso della Corte, il lavoratore era tenuto al rispetto della generale ordinaria diligenza che nella specie, secondo la condivisibile opinione del Giudice di secondo grado, non era ravvisabile attesa la valutazione complessiva dei fatti tutti univocamente indirizzati a un agire contrario al dato normativo , tanto più alla luce della pluriennale esperienza professionale e la non giovane età del ricorrente che non consentivano di considerarlo alla stregua di un inesperto impiegato . Diligenza che peraltro, precisa la Corte funzionalmente ad offrire una soglia-parametro” del grado di diligenza atteso da un lavoratore assegnato a mansioni quali quelle ricoperte dal ricorrente, poteva essere assolto sia con il confronto con i colleghi, sia mediante adempimenti istruttori integrativi, anche rivolgendosi agli interessati, al fine di colmare la mancanza di timbro di spedizione o di timbro di ricevimento . Il principio del ne bis in idem si riferisce solo al medesimo fatto storico. Sotto un ulteriore profilo, il ricorrente si doleva della violazione del principio del ne bis in idem assumendo che talune contestazioni ai lui mosse nel 2013 e nel 2016 si riferissero a pratiche trattate nello stesso periodo e affette da analoghe presunte irregolarità, sicché oggettivamente sussisteva la violazione del divieto del ne bis in idem da parte dell'INPS . Motivo che tuttavia, ancora una volta, non viene condiviso dalla Cassazione la quale, rigettando il ricorso, ribadisce come qualora il datore di lavoro abbia esercitato validamente il potere disciplinare nei confronti del prestatore di lavoro in relazione a determinati fatti [] non può esercitare, una seconda volta, per quegli stessi fatti [] il detto potere ormai consumato anche sotto il profilo di una sua diversa valutazione o configurazione giuridica [.] . Tale pacifico principio tuttavia, precisa la Cassazione, si riferisce solo a contestazioni riferite a la stessa condotta e non alle fattispecie – come quella in commento – in cui le condotte oggetto della sanzione disciplinare conservativa e di quella espulsiva sono diverse riguardando irregolarità analoghe ma effettuate nello svolgimento di distinte pratiche sia pure coeve .

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 18 giugno – 8 novembre 2019, n. 28927 Presidente Napoletano – Relatore Tricomi Svolgimento del fatto 1. La Corte d’Appello di Roma, con la sentenza n. 1547 del 2018, accoglieva il reclamo proposto dall’INPS nei confronti di P.M. avverso la sentenza con la quale il Tribunale di Viterbo rigettava l’opposizione, proposta dal medesimo Istituto ex L. n. 92 del 2012, avverso l’ordinanza che aveva accolto l’impugnazione del licenziamento disciplinare proposta dal P. . Il giudice di secondo grado, pertanto, dichiarava legittimo il licenziamento disciplinare senza preavviso disposto nei confronti del lavoratore con determinazione n. 16/2016 del 22 febbraio 2016. 2. Il P. , nella qualità di addetto con qualifica contrattuale B2, in concorso con altri, avrebbe alterato i dati di alcune pratiche di ricongiunzione di periodi assicurativi o riscatti di periodi di laurea. Il Tribunale aveva ritenuto non sufficientemente provati i fatti addebitati al P. e l’irrilevanza dell’esistenza di danno effettivo per l’Istituto, atteso il numero esiguo delle pratiche contestate. 3. La Corte d’Appello, quanto alle pratiche in ordine alle quali il Tribunale non aveva ravvisato l’irregolarità nella indicazione della data di trattazione da parte del lavoratore, ha affermato che l’errore in cui era incorso il giudice di primo grado consisteva nel non aver considerato che l’operato del P. era stato posto in essere in violazione della L. n. 247 del 1991, artt. 7 e 9 recte 274 , che stabiliscono le modalità di individuazione della data della domanda, che deve coincidere con la data di spedizione della lettera raccomandata, quando essa sia stata presentata con lettera raccomandata, o con la data di protocollazione se presentata a mano, anche in ragione della circolare dell’Istituto n. 40 del 1995. Qualora il lavoratore si fosse trovato a lavorare pratiche arretrate avrebbe dovuto trattarle in ragione dei dati in suo possesso a quella data, e non, invece, facendo riferimento un momento arbitrariamente individuato e antecedente, anche in ragione dell’ordinaria diligenza. Vi erano poi pratiche per le quali il P. aveva svolto una duplice lavorazione, con effetto di una retrodatazione della domanda e conseguente vantaggio per il soggetto che aveva beneficiato di un calcolo di oneri minori, in quanto svolto sulla retribuzione goduta all’epoca di presentazione della domanda, che tuttavia non aveva una data certa e che era antecedente alla data di acquisizione della domanda da parte del sistema informatico. La modalità di lavorazione contestata al lavoratore aveva determinato il danno quantificabile nel ribasso irregolare degli oneri dovuti. Erroneamente, il Tribunale aveva ritenuto che non esistevano regole positive a regolamentare la lavorazione delle pratiche. Infine, ulteriori pratiche presentavano irregolarità nell’individuazione della retribuzione da utilizzare come base di calcolo, incontestata la data della domanda. Anche per queste ultime il quadro complessivo delle violazioni denotava la responsabilità del lavoratore per i fatti addebitatigli, contrariamente a quanto ritenuto dal Tribunale. Inoltre, era emerso un accordo tra il lavoratore e altri dipendenti impiegati nel medesimo settore e oggetto di procedimento disciplinare. Doveva escludersi l’esiguità e la non rilevanza del danno economico conseguente alle pratiche irregolari, sia perché persisteva la gravità dei fatti e l’idoneità a ledere il rapporto fiduciario, sia per l’entità del danno stesso, di poco minore della somma di Euro 400.000,00. La Corte d’Appello escludeva la violazione del principio di proporzionalità della sanzione, non assumendo peraltro rilievo le sanzioni conservative inflitte agli altri soggetti anch’essi coinvolti nell’accordo. Non vi era violazione del principio del ne bis in idem, in quanto i fatti per cui è causa erano coevi a quelli oggetto di un precedente procedimento disciplinare, ma distinti, e la contestazione era stata tempestiva tenuto conto dei tempi di accertamento. 4. Per la cassazione della sentenza di appello ricorre P.M. prospettando sei motivi di ricorso. 5. Resiste l’INPS con controricorso. 6. In prossimità dell’udienza pubblica il lavoratore ha depositato memoria. Ragioni della decisione 1. Con il primo motivo di ricorso è dedotto il vizio di falsa applicazione della L. n. 274 del 1991, art. 7, comma 6, e dell’art. 9, comma 2, art. 360 c.p.c., n. 3 . Dopo aver richiamato il contenuto precettivo delle disposizioni invocate, il ricorrente contesta che in mancanza di data certa, risultante da lettera raccomandata o da protocollo di arrivo, le pratiche devono essere istruite dando alle stesse la data del giorno in cui l’operatore le lavora. Richiama in tal senso le argomentazioni del Tribunale, e afferma che, diversamente da quanto ritenuto dalla Corte d’Appello, dalle disposizioni della L. n. 274 del 1991 si desume solo che per le domande di ricongiunzione o di riscatto che fossero state presentate con lettera raccomandata, la data di presentazione era da considerare quella di spedizione e non quella di arrivo all’Ente , ma nulla veniva disposto per le domande presenti agli atti, ma prive di protocollo in arrivo, e non pervenute con lettera raccomandata. Pertanto, la Corte d’Appello aveva superato il dato normativo obiettivo, non desumendosi dalle suddette disposizioni la disciplina dell’ipotesi della giacenza di pratiche presso la sede INPS di Viterbo, prive di protocollo in arrivo delle relative domande e sprovviste di ricevute di raccomandata, risultando arbitrario il riferimento alla data in cui l’Istituto le inseriva nel sistema. 2. Il motivo non è fondato. Occorre premettere che come riportato dal ricorrente pag. 4 del ricorso la contestazione riguardava irregolarità amministrative addebitate al P. in particolare per avere proceduto al calcolo degli oneri prendendo a riferimento la data - sempre notevolmente antecedente a quella della lavorazione - apposta manualmente sulla domanda senza protocollo o timbro di ricevimento e quindi priva di data certa . Le disposizioni della cui falsa applicazione si duole il ricorrente prevedono quanto segue. La L. n. 274 del 1991, art. 7 Riscatti , al comma 5 stabilisce Nel caso di domanda presentata a mezzo lettera raccomandata, come data di presentazione si considera quella di spedizione . L’art. 9 Ricongiunzione , al comma 2, prevede Per le domande di ricongiunzione, ai sensi della L. 7 febbraio 1979, n. 29, presentate alle Casse pensioni degli istituti di previdenza a mezzo lettera raccomandata, come data di presentazione si considera quella della spedizione . La Corte d’Appello, in ragione del chiaro dettato normativo delle suddette disposizioni - che tende ad ancorare la data di presentazione all’INPS della domanda di riscatto o di ricongiungimento ad un evento certo, quale la data di spedizione, al fine di cristallizzare temporalmente i dati rilevanti per l’espletamento della stessa nel rispetto dei principi di trasparenza e buon andamento dell’attività amministrativa - ha affermato che in caso di presentazione di una domanda con modalità diverse da quella della spedizione con raccomandata o presentazione a mano, la pratica doveva essere lavorata secondo i dati in possesso alla data della lavorazione stessa, e non ad un momento arbitrariamente individuato e antecedente. Resta fermo che il lavoratore poteva confrontarsi con gli altri colleghi, e chiedere, formalmente agli interessati di produrre elementi che potessero giustificare ufficialmente la presentazione della pratica in un momento diverso, così tenendo un comportamento trasparente, senza generare incertezze in ordine al modus operandi per le irregolarità che erano poi state riscontrate. Ciò tenuto conto che il lavoratore era tenuto al rispetto anche della generale ordinaria diligenza, che nella specie, afferma il giudice di secondo grado, non si ravvisava attesa la valutazione complessiva dei fatti tutti univocamente indirizzati a un agire contrario al dato normativo. Pertanto, non è ravvisabile il vizio dedotto, atteso che la Corte d’Appello, in ragione della ratio della L. n. 274 del 1991, artt. 7 e 9 e dei principi di trasparenza, imparzialità e buon andamento che governano l’attività amministrativa art. 97 Cost. , ha ritenuto che, in mancanza di dati certi, occorresse fare riferimento alla data di lavorazione della domanda, e che sussisteva in capo al lavoratore un onere di generale ordinaria diligenza, che poteva essere assolte sia con il confronto con i colleghi, sia mediante adempimenti istruttori integrativi, anche rivolgendosi agli interessati, al fine di colmare la mancanza di timbro di spedizione o di timbro di ricevimento. 2. Con il secondo motivo di ricorso è dedotta la violazione di norme di diritto con riferimento al principio generale della proporzionalità tra fatto e sanzione. Violazione dell’art. 2106 c.c. richiamato dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55, comma 2 . Il ricorrente ricorda quanto statuito dal Tribunale, sia con l’ordinanza che con la sentenza, di cui riporta ampi stralci, che aveva ritenuto la sanzione disciplinare del licenziamento non proporzionale agli errori addebitati al lavoratore per un limitato numero di casi rispetto al complesso delle pratiche dallo stesso trattate. Quindi censura la statuizione della Corte d’Appello che ha ritenuto proporzionale la sanzione in base all’erroneo assunto che nella fattispecie esistesse una normativa di legge che regolava la trattazione di pratiche prive di protocollo in arrivo e non spedite con raccomandata con ricevuta di ritorno, facendo derivare dalla violazione di tali norme di legge l’assenza di diligenza del lavoratore, l’assenza di buona fede, e presupponendo un accordo tra il P. e i suoi superiori diretto a violare tali disposizioni. Poiché tale normativa di legge non sussisterebbe, e la fictio iuris di dare alle pratiche prive di protocollo in arrivo una data coincidente con quella in cui sono trattate non avrebbe fondamento giuridico, la valutazione della proporzionalità della sanzione sarebbe illegittima. 2.1. Il motivo non è fondato. In tema di licenziamento per giusta causa, ai fini della valutazione di proporzionalità è sempre necessario valutare in concreto se il comportamento tenuto, per la sua gravità, sia suscettibile di scuotere la fiducia del datore di lavoro e di far ritenere che la prosecuzione del rapporto si risolva in un pregiudizio per gli scopi aziendali, con particolare attenzione alla condotta del lavoratore che denoti una scarsa inclinazione ad attuare diligentemente gli obblighi assunti e a conformarsi ai canoni di buona fede e correttezza cfr., Cass., n. 18195 del 2019 . Come si è affermato nella trattazione del primo motivo di ricorso, correttamente la Corte d’Appello ha ritenuto che, in mancanza di dati certi, occorresse fare riferimento alla data di lavorazione della domanda, e che sussisteva in capo al lavoratore un onere di generale ordinaria diligenza. Ciò non in ragione di una norma inesistente come afferma il ricorrente, ma tenuto conto della disciplina di cu alla L. n. 274 del 1991, artt. 7 e 9, che pone in evidenzia la necessità di un criterio certo per fissare la data delle domande, in conformità ai principi di trasparenza, imparzialità e buon andamento dell’amministrazione di cui all’art. 97 Cost., che la Corte d’Appello, in mancanza di quanto previsto dalla suddetta legge, salvo gli esiti di un’attività istruttoria, ha ravvisato nella data di lavorazione della pratica. Inoltre, nello svolgere il giudizio sulla proporzionalità della sanzione irrogata, la Corte d’Appello, nel fare corretta applicazione della giurisprudenza sopra richiamata, ha considerato sia l’esistenza di un accordo tra le parti consapevole e volontariamente diretto a porre in essere le violazioni in questione, di per sé dannose sia dal punto di vista economico che etico e di fiducia, sia l’assenza di buona fede, anche considerata la pluriennale esperienza professionale e la non giovane età del P. che non consentivano di considerarlo alla stregua di un inesperto impiegato. 3. Con il terzo motivo di ricorso è dedotta la violazione di norme di diritto con riferimento al principio generale del ne bis in idem sanzionatorio art. 360 c.p.c., n. 3 . Assume il ricorrente che le contestazioni mosse a sé medesimo nel 2013 caso relativo all’iscritto Pa.Gi. , per cui, con determinazione n. 30 del 18 settembre 2013, gli era stata comminata la sanzione disciplinare della sospensione dal servizio e dallo stipendio per 6 mesi e nel 2016 recte 2015 altri casi per fatti coevi a quello del 2013 si riferissero a pratiche trattate nello stesso periodo e affette da analoghe presunte irregolarità, sicché oggettivamente sussisteva la violazione del divieto del ne bis in idem da parte dell’INPS, attuata mediante la determinazione di licenziamento dell’UPD n. 16/16 del 22 febbraio 2016. 3.1. Il motivo non è fondato. Come questa Corte ha già affermato Cass. 26815 del 2018 in tema di licenziamento, qualora il datore di lavoro abbia esercitato validamente il potere disciplinare nei confronti del prestatore di lavoro in relazione a determinati fatti, complessivamente considerati, non può esercitare, una seconda volta, per quegli stessi fatti singolarmente considerati, il detto potere ormai consumato anche sotto il profilo di una sua diversa valutazione o configurazione giuridica, essendogli consentito soltanto di tener conto delle sanzioni eventualmente applicate, entro il biennio, ai fini della recidiva. Tanto premesso, occorre precisare che la violazione del principio del ne bis in idem richiede che la contestazione disciplinare e la sanzione siano irrogate per lo stessa condotta. Nella specie, invece, le condotte oggetto della sanzione disciplinare conservativa e di quella espulsiva sono diverse riguardando irregolarità analoghe ma effettuate nello svolgimento di distinte pratiche sia pure coeve. Ed infatti Cass., n. 27657 del 2018 per il principio di consunzione del potere disciplinare ed in linea con quanto affermato dalla Corte EDU, nella sentenza 4.3.2014, Grande Stevens ed altri c. Italia, che ha sancito la portata generale, estesa a tutti i rami del diritto punitivo , del divieto di ne bis in idem , che una identica condotta sia sanzionata più volte a seguito di una diversa valutazione o configurazione giuridica. 4. Con il quarto motivo di ricorso è dedotta la violazione di norme di diritto con riferimento al principio generale di diritto desumibile dalla L. n. 300 del 1970, art. 7 della tempestività della contestazione art. 360 c.p.c., n. 3 . Il ricorrente contesta la statuizione della Corte d’Appello che ha considerato tempestiva la contestazione disciplinare intervenuta il 19 novembre 2015 si v. controricorso pag. 18 affermando che l’INPS aveva avuto compiuta conoscenza dei fatti oggetto del procedimento disciplinare conclusosi con l’irrogazione del licenziamento, dopo la conoscenza dei diversi fatti - anche se della stessa natura e coevi - oggetto del primo procedimento disciplinare del 2013 contestazione 16 luglio 2013, v. controricorso pag. 4 . Espone che le condotte ascrittegli erano coeve a quelle del procedimento disciplinare del 2013 fattispecie relativa all’assistito Pa. e che sempre nell’anno 2013 l’INPS aveva presentato una denuncia alla Procura della Repubblica di Viterbo fornendo gli elementi in base ai quali venivano prelevati pratiche dalla sede dell’Istituto di Viterbo , e designava i Dott.ri C. e F. come esperti per analizzare le pratiche. Dunque, la denuncia penale era incompatibile con il differimento della contestazione in ragione della genericità delle notizie. Ciò anche considerando che l’INPS disponeva dei dati dei propri registri informatici che gli avrebbero permesso di conoscere con immediatezza gli errori del lavoratore. 4.1. Il motivo è inammissibile. La giurisprudenza di legittimità ha statuito Cass. 16706 del 2018 che in tema di procedimento disciplinare, ai fini della decorrenza del termine perentorio previsto per la contestazione dell’addebito dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 bis, comma 4, assume rilievo esclusivamente il momento in cui l’ufficio competente abbia acquisito una notizia di infrazione di contenuto tale da consentire allo stesso di dare, in modo corretto, l’avvio al procedimento mediante la contestazione, la quale può essere ritenuta tardiva solo qualora la P.A. rimanga ingiustificatamente inerte, pur essendo in possesso degli elementi necessari per procedere, sicché il suddetto termine non può decorrere a fronte di una notizia che, per la sua genericità, non consenta la formulazione dell’incolpazione e richieda accertamenti di carattere preliminare volti ad acquisire i dati necessari per circostanziare l’addebito. La Corte d’Appello ha ritenuto la tempestività della contestazione in quanto la compiuta conoscenza dei nuovi fatti è avvenuta da parte dell’INPS successivamente alla fattispecie già contestata, seppure siano coevi tra loro, facendo corretta affermazione del principio sopra richiamato. Tale statuizione non è adeguatamente censurata, atteso che l’affermazione contenuta nel ricorso, e nella memoria, che nel 2013 l’INPS aveva presentato denuncia alla Procura della Repubblica di Viterbo per irregolarità nella trattazione delle pratiche a seguito della quale venivano prelevati diversi fascicoli dalla sede INPS di Viterbo, e l’INPS designava due funzionari per esaminarli, è priva di specificità non venendo riportato il contenuto della denuncia stessa, anche ai fini del vaglio di rilevanza della censura, e non venendo circostanziato il prospettato rapporto tra la denuncia del 2013, quando veniva fatta la contestazione disciplinare per la pratica Pa. , e la compiuta conoscenza delle condotte poi oggetto della contestazione disciplinare del 2015. Ciò anche considerato che l’INPS pag. 5 del controricorso espone che i fatti relativi alla pratica dell’assistito Pa. venivano rapportati all’autorità giudiziaria con segnalazione dell’INPS del 25 giugno 2013, in seguito alla quale la Procura della Repubblica di Viterbo instaurava procedimento penale a carico del P. e altri dipendenti dell’INPS, e che le indagini penali avrebbero poi accertato ulteriori gravi fatti che sarebbero stati oggetto del nuovo procedimento disciplinare promosso dall’INPS a carico del P. nel novembre 2015. Priva di specificità e non circostanziato, e pertanto inammissibile, è, altresì, il profilo della censura che fa riferimento ai sistemi informatici dell’INPS, quale strumento, nella specie, di tempestiva conoscenza delle irregolarità. 5. Con il quinto motivo di ricorso è dedotta la violazione di norme di diritto con riferimento al principio generale della immodificabilità e specificità della contestazione disciplinare. Rileva il ricorrente che la Corte d’Appello avrebbe ritenuto la responsabilità del lavoratore in quanto avrebbe agito per favorire soggetti che conosceva, e per l’accordo con altri colleghi di lavoro. Tali circostanze non rientravano nella contestazione che era stata quindi modificata dalla Corte d’Appello in ragione delle intercettazioni che erano state prodotte in giudizio dall’Istituto. 5.1. Il motivo è inammissibile. Il principio di necessaria corrispondenza tra addebito contestato e addebito posto a fondamento della sanzione disciplinare, vieta di infliggere un licenziamento sulla base di fatti diversi da quelli contestati. La giurisprudenza di legittimità ha, altresì, affermato Cass. n. 10853 del 2019 che la necessaria correlazione dell’addebito con la sanzione deve essere garantita e presidiata, in chiave di tutela dell’esigenza difensiva del lavoratore, anche in sede giudiziale, nella quale le condotte del lavoratore medesimo sulle quali è incentrato l’esame del giudice di merito non devono nella sostanza fattuale differire da quelle poste a fondamento della sanzione espulsiva, pena lo sconfinamento dei poteri del giudice in ambito riservato alla scelta del datore di lavoro. Nella specie, tuttavia, il motivo di ricorso che si duole della violazione di tali principi, non supera il vaglio di ammissibilità, in quanto il ricorrente non riporta il contenuto della contestazione disciplinare effettuata dall’INPS, specificando in modo circostanziato la censura in relazione allo stesso, anche al fine di consentire il vaglio di decisività, e non si confronta con l’affermazione della sentenza di appello della sussistenza della responsabilità disciplinare del lavoratore in relazione alle contestazioni relative alla violazione delle modalità di individuazione della data della domanda cfr., pagg. 8 e 9 della sentenza di appello alla duplice lavorazione, con effetto di retrodatazione della domanda e conseguente vantaggio per il soggetto interessato cfr., pag. 10 e pag. 12 della sentenza di appello all’irregolarità nell’individuazione della retribuzione da utilizzare come base di calcolo, incontestata la data della domanda cfr., pag. 13 della sentenza di appello alla quantificazione erronea degli oneri cfr., pagg. 13 e 14 della sentenza di appello . Tali contestazioni, peraltro, risultano contenute nella contestazione disciplinare, per come riportata dall’INPS nel controricorso pagg. 18 e 19 , così come l’aver agito in concorso con altri dipendenti. Quanto ai rapporti con alcuni interessati pag. 15 della sentenza la Corte d’Appello ne prende in esame uno, quale dato per evidenziare come il negare una conoscenza più approfondita rispetto a quella palesata appariva funzionale a coprire le irregolarità e violazioni che erano state oggetto di contestazione disciplinare. 6. Con il sesto motivo di ricorso è dedotto il vizio di omesso esame circa fatti decisivi per il giudizio che sono stati oggetto di discussione tra le parti art. 360 c.p.c., n. 5 . Il motivo si articola in due censure. La Corte d’Appello avrebbe omesso di esaminare il fatto decisivo costituito dalla contestazione della ritenuta irregolarità delle pratiche S. , R. , St. , F. , B. , G. , Fi. , effettuata dal P. con la memoria di appello. Un altro fatto decisivo di cui si denunciava l’omesso esame sarebbe la mancanza di danno, con conseguente insussistenza del fatto contestato disciplinarmente per mancanza di grave nocumento. Tale danno, infatti, era stato determinato erroneamente, applicando il principio che per le pratiche prive di data certa dovesse farsi riferimento alla data di lavorazione, principio che non trovava fondamento normativo. 7. Il motivo è inammissibile. 7.1. Quanto alla prima censura si osserva che la Corte d’Appello dopo aver evidenziato che il Tribunale di Viterbo aveva già accertato e riconosciuto l’irregolarità della lavorazione di diverse pratiche relative alle posizioni S. , R. , St. , F. , B. , G. , Fi. , statuiva che la parte reclamata non aveva svolto specifiche deduzioni contrarie e pertanto i relativi fatti devono darsi per acquisiti. Il ricorrente si duole dell’omesso esame delle deduzioni difensive svolte in appello rispetto alla suddetta pronuncia del Tribunale. Come questa Corte ha già avuto modo di affermare Cass., n. 26305 del 2018 l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come riformulato dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, conv., con modif., dalla L. n. 134 del 2012, introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, nel cui paradigma non è inquadrabile la censura concernente la omessa valutazione di deduzioni difensive, con conseguente inammissibilità della censura in esame. 7.2. Quanto al secondo profilo, va premesso che la Corte d’Appello ha ritenuto che il danno ammontava a poco meno di 400.000,00, e non era di scarsa rilevanza, ed ha affermato che, comunque, l’eventuale esiguità del danno non sarebbe utile a escludere la gravità dei fatti e la loro idoneità a ledere il rapporto fiduciario con il datore di lavoro. La Corte d’Appello ha ritenuto consistente il danno come sopra quantificato, tenuto conto della necessità che le casse dell’Istituto, che deve provvedere alle esigenze previdenziali e assicurative della maggior parte dei lavoratori pubblici, non entrino ingiustificatamente in deficit. Il ricorrente contesta che per la quantificazione del danno, che a proprio avviso non sussisteva, sia stata fatta applicazione del criterio di datazione della domanda, priva di data certa, alla data di lavorazione, con argomenti che hanno costituito oggetto anche del primo motivo di ricorso e che per le ragioni sopra esposte, sono state ritenuti non fondati. Anche in questo caso si è in presenza di deduzioni difensive, peraltro disattese nella trattazione del primo motivo di ricorso, per le quali non è deducibile l’omesso esame ex art. 360 c.p.c., n. 5. Inoltre va considerato che qualora il ricorrente, in sede di legittimità, denunci l’omessa valutazione di prove documentali relazione Guardia di finanza del 30 marzo 2015 e relativa documentazione citata a pag. 30 del ricorso , per il principio di specificità ha l’onere, nella specie non adempiuto, non solo di trascrivere il testo integrale, o la parte significativa del documento nel ricorso per cassazione, al fine di consentire il vaglio di decisività, ma anche di specificare gli argomenti, deduzioni o istanze che, in relazione alla pretesa fatta valere, siano state formulate nel giudizio di merito, pena l’irrilevanza giuridica della sola produzione, che non assicura il contraddittorio e non comporta, quindi, per il giudice alcun onere di esame, e ancora meno di considerazione dei documenti stessi ai fini della decisione. 6. Il ricorso deve essere rigettato. 7. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo. 8. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1-bis. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese di giudizio che liquida in Euro 5.500,00, per compensi professionali, oltre Euro 200,00 per esborsi, spese generali in misura del 15% e accessori di legge. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1-bis.