Licenziamento disciplinare: fino a che punto si estende l’obbligo di fedeltà del lavoratore

La Corte di Cassazione evidenzia in base a quali parametri il giudice dovrà effettuare il giudizio di proporzionalità tra la condotta addebitata al lavoratore e il licenziamento disciplinare, soffermandosi poi sul contenuto dell’obbligo di fedeltà.

Questo il contenuto della sentenza della Sezione Lavoro della Suprema Corte n. 24976/19, depositata il 7 ottobre. Il fatto. La Corte d’Appello di Roma riformava la sentenza del Giudice di prime cure, dichiarando legittimo il licenziamento per giusta causa dell’attuale ricorrente, posto in essere dal datore di lavoro per via della ritardata comunicazione inerente al suo stato di privazione della libertà personale dovuto ad un arresto per detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti . La Corte aveva, infatti, ritenuto che il lavoratore, essendo rimasto assente dal lavoro senza comunicare le effettive ragioni che ne stavano alla base, avesse violato gli obblighi di correttezza e buona fede nell’esecuzione del rapporto, configurando un comportamento grave al punto da compromettere il vincolo fiduciario con il datore di lavoro. Il lavoratore, dunque, propone ricorso per cassazione, contestando, tra i diversi motivi, la scelta del Giudice di non valutare le circostanze in presenza delle quali il fatto era stato commesso, nonché l’intensità dell’elemento intenzionale che aveva connotato la sua condotta. Giudizio di proporzionalità tra fatto addebitato e licenziamento. La Suprema Corte dichiara infondato il motivo prospettato dal ricorrente, richiamando l’orientamento di legittimità in base al quale il giudizio di proporzionalità tra il fatto addebitato ed il licenziamento disciplinare non va effettuato in termini astratti, bensì riferendosi a tutte le circostanze del caso concreto, all’entità della condotta, al movente, nonché all’intensità dell’elemento colposo e di quello intenzionale, traducendosi in una valutazione, da una parte, della gravità dell’inadempimento del lavoratore e, dall’altra, dell’adeguatezza della sanzione. In tale contesto, qualora il giudice d’appello risolva tali questioni mediante un apprezzamento in fatto corredato da esauriente e completa motivazione come avvenuto nel caso di specie , esso non può essere sottoposto a riesame in sede di legittimità. Ciò posto, gli Ermellini evidenziano che le norme codicistiche non escludono che il dovere di diligenza del lavoratore subordinato si estenda anche a doveri di natura complementare e strumentale, i quali concorrono a qualificare il rapporto di lavoro avente ad oggetto un facere , e precisano che l’obbligo di fedeltà deve intendersi in senso ampio, andando a ricomprendere anche quelle condotte che sembrano in contrasto con i doveri connessi all’inserimento del lavoratore all’interno dell’impresa ovvero creano situazioni conflittuali con le finalità e gli interessi di quest’ultima. Alla luce di quanto esposto, collegando l’omessa comunicazione del ricorrente alla violazione dell’obbligo di fedeltà appena delineato, gli Ermellini rigettano il ricorso.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 9 maggio – 7 ottobre 2019, n. 24976 Presidente Nobile – Relatore Negri della Torre Fatti di causa 1. Con sentenza n. 707/2018, depositata il 16 febbraio 2018, la Corte di appello di Roma, in riforma della sentenza del Tribunale di Cassino, ha dichiarato legittimo il licenziamento per giusta causa disposto da FCA Italy, con lettera in data 21/1/2016, nei confronti di P.L. per avere il lavoratore comunicato il proprio stato di privazione della libertà personale soltanto il 17/11/2015, a fronte di arresto avvenuto il 4/11 precedente per detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti. 2. La Corte, esclusa la tardività della contestazione, ha osservato come anche il solo fatto di essere rimasto assente dal lavoro per quattordici giorni, senza comunicarne le effettive ragioni al datore di lavoro, costituisse violazione degli obblighi di correttezza e di buona fede nell’esecuzione del rapporto e un comportamento di gravità tale da determinare il venir meno del vincolo fiduciario ha inoltre ritenuto di non dare ingresso alle prove per testi articolate dal lavoratore, sia per la loro genericità, sia perché lo stesso P. , nell’avanzare richiesta di permesso il 12/11/2015, aveva fatto riferimento esclusivamente a ragioni personali , omettendo in tal modo di comunicare al datore di lavoro il proprio stato di detenzione. 3. Avverso detta sentenza ha proposto ricorso per cassazione il P. con tre motivi, cui ha resistito FCA Italy S.p.A. con controricorso. Ragioni della decisione 1. Con il primo motivo viene dedotta la violazione e falsa applicazione degli artt. 2119, 2104, 2105 e 2106 c.c. per non avere il giudice di appello compiuto il necessario apprezzamento in concreto della fattispecie dedotta in giudizio, omettendo in particolare di valutare le circostanze nelle quali il fatto addebitato era stato commesso e l’intensità dell’elemento intenzionale che aveva caratterizzato la condotta del lavoratore ed inoltre non spiegando le ragioni per le quali aveva ritenuto che la condotta contestata dovesse considerarsi di tale gravità da giustificare il licenziamento. 2. Con il secondo motivo viene dedotta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4, la violazione e falsa applicazione dell’art. 2119 c.c. e degli artt. 244, 420 e 421 c.p.c. per non avere il giudice di appello dato ingresso ad alcuni capitoli di prova nn. 17-19 , relativi all’intervenuta comunicazione, da parte del coniuge del ricorrente, delle ragioni dell’impedimento a riprendere il lavoro, nonostante che tali capitoli risultassero ammissibili e rilevanti. 3. Con il terzo motivo viene dedotta la violazione e falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, art. 7, commi 1 e 2, per avere la Corte ritenuto che la contestazione disciplinare non fosse tardiva, sebbene formulata soltanto in data 11 gennaio 2016 a fronte di una conoscenza dello stato di privazione della libertà personale del ricorrente già acquisita quanto meno con la ricezione della lettera in data 18 novembre 2015. 4. Il primo motivo è infondato. 5. La Corte di appello ha, infatti, compiutamente valutato la fattispecie sottoposta al suo esame sia sul piano oggettivo, ricostruendo in modo analitico lo svolgersi dei fatti, tra il giorno dell’arresto e la comunicazione dello stato di detenzione sia sul piano soggettivo, ponendo in rilievo come dalla loro sequenza emergesse la precisa volontà del lavoratore di non fare risultare le vere ragioni dell’assenza dal lavoro. 6. La Corte ha poi ritenuto che l’avere taciuto per ben 14 giorni di assenza dal lavoro come era da considerarsi accertato - il proprio stato di detenzione costituisse violazione degli obblighi di correttezza e buona fede che incombono sul dipendente nell’esecuzione del rapporto e che detta condotta, imponendo un giudizio prognostico negativo circa la correttezza del futuro adempimento, fosse di gravità tale da giustificare il recesso del datore di lavoro. 7. In tal modo la Corte di appello di Roma si è uniformata al consolidato orientamento, per il quale il giudizio di proporzionalità tra fatto addebitato al lavoratore e licenziamento disciplinare non va effettuato in astratto, bensì con specifico riferimento a tutte le circostanze del caso concreto, all’entità della mancanza considerata non solo da un punto di vista oggettivo, ma anche nella sua portata soggettiva e in relazione al contesto in cui essa è stata posta in essere , ai moventi, all’intensità dell’elemento intenzionale e al grado di quello colposo cfr. Cass. n. 4881/1998, fra le molte conformi . 8. È, poi, altrettanto consolidato l’orientamento, per il quale, in tema di procedimento disciplinare, il giudizio di proporzionalità tra violazione contestata e provvedimento adottato si sostanzia nella valutazione della gravità dell’inadempimento del lavoratore e dell’adeguatezza della sanzione, tutte questioni di merito che, ove risolte dal giudice di appello con apprezzamento in fatto adeguatamente giustificato con motivazione esauriente e completa, si sottraggono al riesame in sede di legittimità cfr. Cass. n. 24349/2006 conformi, fra le molte n. 7948/2011 n. 8293/2012 . 9. D’altra parte, come già precisato da questa Corte, gli artt. 2104 e 2105 c.c., richiamati dalla disposizione dell’art. 2106 relativa alle sanzioni disciplinari, non vanno interpretati restrittivamente e non escludono che il dovere di diligenza del lavoratore subordinato si riferisca anche ai vari doveri strumentali e complementari, che concorrono a qualificare il rapporto obbligatorio di durata avente ad oggetto un facere, e che l’obbligo di fedeltà vada inteso in senso ampio e si estenda a comportamenti che per la loro natura e le loro conseguenze appaiano in contrasto con i doveri connessi all’inserimento del lavoratore nella struttura e nell’organizzazione dell’impresa o creino situazioni di conflitto con le finalità e gli interessi dell’impresa Cass. n. 11437/1995 . 10. Il secondo motivo risulta inammissibile. 11. Si deve rilevare in proposito che quando siano denunciati con il ricorso per cassazione la mancata ammissione di mezzi istruttori e vizi della sentenza derivanti dal rifiuto del giudice di merito di dare ingresso a mezzi istruttori ritualmente richiesti, il ricorrente non ha solo l’onere di indicare specificamente questi ultimi, trascrivendo le circostanze che costituiscono oggetto della prova, ma ha anche l’onere di dimostrare sia l’esistenza di un nesso eziologico tra l’omesso accoglimento dell’istanza e l’errore addebitato al giudice, sia che la pronuncia, senza quell’errore, sarebbe stata diversa, così da consentire al giudice di legittimità un controllo sulla decisività delle prove cfr. Cass. n. 4178/2007 conforme, fra le più recenti, Cass. n. 23194/2017 . 12. Nella specie, tale dimostrazione non può dirsi offerta dal ricorrente, e tanto meno raggiunta, a fronte di sentenza che ha sottolineato - senza che sul punto risulti mossa alcuna specifica censura - come il lavoratore avesse fatto riferimento esclusivamente a ragioni personali nell’avanzare richiesta di permesso, omettendo in tal modo di comunicare al datore di lavoro il proprio stato di detenzione cfr. sentenza, p. 3, ultimo capoverso . 13. Il terzo motivo è infondato. 14. La Corte di appello ha escluso la tardività della contestazione disciplinare, in rapporto all’avvenuta conoscenza dello stato di privazione della libertà personale, sul rilievo della necessità di accertamenti, da un lato, e, dall’altro, facendo riferimento alle dimensioni certamente non ridotte della reclamante . 15. Su tale premessa, la sentenza impugnata si sottrae alla censura di violazione e falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, art. 7, posto che in materia di licenziamento disciplinare, l’immediatezza della contestazione va intesa in senso relativo, dovendosi dare conto delle ragioni che possono cagionare il ritardo, quali il tempo necessario per l’accertamento dei fatti o la complessità della struttura organizzativa dell’impresa, fermo restando che la valutazione delle suddette circostanze è riservata al giudice del merito Cass. n. 281/2016 . 16. Consegue da quanto sopra che il ricorso deve essere respinto. 17. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, liquidate in Euro 200,00 per esborsi e in Euro 4.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% e accessori di legge. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.