Da quali condotte può desumersi la rinuncia tacita al compenso da parte dell’amministratore della società?

La rinuncia al compenso spettante all’amministratore della società non si desume semplicemente dalla sua condotta inerte, ma necessita un comportamento concludente tale da rivelare in modo univoco la sua volontà abdicativa. Nel caso concreto, il non aver mai richiesto la liquidazione del proprio compenso durante l’intero e lungo rapporto di lavoro può realizzare la condotta di tacita rinuncia al compenso.

Questa la decisione della Sezione Lavoro della Suprema Corte n. 22802/19, depositata il 12 settembre. Il caso. La Corte d’Appello di Cagliari rigettava la domanda proposta dall’attuale ricorrente vertente sul riconoscimento del compenso per l’attività di amministratore prestata a favore di una società per 14 anni, poiché riteneva che il comportamento da lui tenuto durante la lunga durata del rapporto di lavoro potesse essere interpretato come una rinuncia tacita alla prestazione, visto che non aveva mai reclamato alcun compenso. Lo stesso propone ricorso per cassazione avverso la suddetta pronuncia, contestando, tra i diversi motivi, l’affermazione della Corte per cui la mancata richiesta del compenso per tutta la durata del mandato equivalesse ad una rinuncia tacita allo stesso, in quanto tale ragionamento contrasterebbe con i principi di buona fede. Rinuncia tacita al compenso. La Suprema Corte dichiara il ricorso infondato, osservando come l’amministratore della società acquista il diritto ad essere compensato per l’attività svolta in esecuzione del mandato quando accetta l’incarico, ma tale diritto è disponibile, essendo dunque derogabile non solo da eventuali clausole statutarie ma anche da un’eventuale rinuncia, che può tradursi nella remissione tacita del debito. Ciò posto, gli Ermellini evidenziano che la rinuncia non si desume semplicemente dalla condotta inerte dell’amministratore, essendo necessario a tal fine un comportamento concludente che manifesti senza equivoci la sua volontà abdicativa. Tuttavia, nel caso concreto la Corte rileva che il Giudice aveva già provveduto a porre in essere degli accertamenti di fatto circa la condotta dell’amministratore, dai quali aveva tratto il convincimento che egli avesse voluto rinunciare a richiedere il proprio compenso attraverso un comportamento concludente, e tra gli indici sintomatici di tale volontà c’è la mancata richiesta di porre all’ordine del giorno dell’assemblea dei soci a cui il ricorrente partecipava nelle vesti di socio fondatore proprio la determinazione del suo compenso. Gli Ermellini affermano, dunque, che la ricostruzione operata dal Giudice di merito non si è limitata alla semplice valutazione dell’inerzia del ricorrente, ma ha tenuto in considerazione altre condotte significative che, alla luce dei criteri di ragionevolezza e della buona fede nello svolgimento del rapporto di lavoro, ha qualificato come rinuncia tacita al compenso. Per questi motivi, la Corte di Cassazione rigetta il ricorso.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, ordinanza 5 marzo – 12 settembre 2019, n. 22802 Presidente Bronzini – Relatore Garri Rilevato che 1. La Corte di appello di Cagliari, sezione di Sassari, in riforma della sentenza del Tribunale di Sassari ha rigettato la domanda proposta da F.G.B. nei confronti della Gea s.r.l. in liquidazione tesa al riconoscimento del compenso per l’attività di amministratore prestata in favore della società dal 4 febbraio 1992 al 7 luglio 2006. 2. La Corte di merito ha ritenuto che, sebbene a norma dell’art. 16 dello Statuto della società l’attività di amministratore doveva essere compensata, tuttavia il comportamento tenuto dal F. per tutta la lunga durata del rapporto con la società, durante il quale mai tale compenso era stato reclamato, non poteva essere interpretato altro che come una rinuncia tacita alla prestazione, tenuto conto del fatto che, nel contempo, e per effetto della mancata corresponsione del compenso, gli utili distribuiti ai soci ed anche al F. erano stati più elevati e la domanda di pagamento del compenso, proposta quando la società era oramai in liquidazione, finiva per risolversi in danno degli altri soci. 3. Per la cassazione della sentenza propone ricorso F.G.B. affidato a tre motivi. Resiste con controricorso la Gea s.r,l. in liquidazione. Considerato che 4. Con il primo motivo di ricorso denunciata la violazione e falsa applicazione degli artt. 1324, 1362 e 1366 c.c. e dell’art. 1709 c.c., art. 2383 c.c., comma 3, art. 2392 c.c., comma 1, n. 3 e art. 2389 c.c., oltre che dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5. 4.1. Sostiene il ricorrente che erroneamente la Corte di merito ha ritenuto che la mancata richiesta del compenso per i quattordici anni di durata del mandato debba essere interpretata come rinuncia tacita allo stesso. Si tratta di interpretazione del comportamento tenuto che si pone in contrasto con i principi di buona fede atteso che la mera condotta inerte non può costituire fatto concludente e decisivo nel senso di tale rinuncia. 5. Con il secondo motivo di ricorso è denunciata la violazione e falsa applicazione degli artt. 1324, 1362 e 1366 c.c. e dell’art. 1709 c.c., art. 2383 c.c., comma 3, art. 2392 c.c., comma 1, n. 3 e art. 2389 c.c. e dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5. 5.1. Ad avviso del ricorrente la circostanza che egli stesso nel corso del periodo e come socio abbia approvato i bilanci annuali partecipando pro quota alla distribuzione degli utili non avrebbe alcun rilievo ai fini di una rinuncia tacita. Ritiene infatti che proprio traendo spunto dalla giurisprudenza richiamata dallo stesso giudice territoriale si sarebbe dovuti pervenire al contrario convincimento della insussistenza di una condotta concludente in tal senso poiché in quel caso nel verbale di assemblea con il quale venne fissare il compenso dell’amministratore per il futuro si era dato atto della gratuità dell’incarico per il passato laddove nella fattispecie in esame, al contrario il compenso venne stabilito per il futuro ma nulla si disse quanto al passato. 6. Con l’ultimo motivo di ricorso, nel richiamare ancora una volta l’avvenuta violazione e falsa applicazione degli artt. 1324, 1362 e 1366 c.c., art. 1709 c.c., art. 2383 c.c., comma 3, art. 2392 c.c., comma 1, n. 3 e art. 2389 c.c. e dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, si sostiene che la Corte di appello si sarebbe spinta oltre le deduzioni delle parti ed avrebbe paventa un ingiusto vantaggio con riguardo agli utili confondendo però la posizione del socio e quella dell’amministratore e pretendendo di ravvisare una incompatibilità tra i compensi per quest’ultimo e gli utili da distribuire tra i soci. 6.1. Ad avviso del ricorrente il giudice di secondo grado avrebbe trascurato di considerare che l’importo era stato devalutato al 1992 e successivamente rivalutato e che sarebbe stato deducibile. Inoltre non avrebbe tenuto conto del fatto che, in sede di liquidazione, il socio amministratore avrebbe visto ridotta, al pari degli altri, la quota spettante. Insiste poi nel chiedere che sia riconosciuto il suo diritto a percepire il 5% sulla plus valenza nella liquidazione del compenso, spettante proprio con riguardo all’attività di amministratore svolta. 7. Il ricorso è infondato e deve essere rigettato. 7.1. Il primo ed il terzo motivo di ricorso possono essere esaminati congiuntamente e sono in parte infondati ed in parte inammissibili. 7.2. Va rilevato infatti che, se è vero che l’amministratore di una società, con l’accettazione della carica, acquisisce il diritto ad essere compensato per l’attività svolta in esecuzione dell’incarico affidatogli, tuttavia tale diritto è disponibile e, così come può essere derogato da una clausola dello statuto della società, che condizioni lo stesso al conseguimento di utili, ovvero sancisca la gratuità dell’incarico cfr. Cass. 21/06/2017 e n. 15382 , del pari può anche essere oggetto di rinuncia anche attraverso una remissione tacita del debito. 7.3. Sebbene, poi, la rinuncia non è desumibile sic et simpliciter da un mero comportamento inerte dell’amministratore inerzia o silenzio , atteso che è necessario un comportamento concludente del titolare che riveli in modo univoco una sua volontà abdicativa cfr. Cass. 03/10/2018 n. 24139 tuttavia, nel caso in esame, la Corte di merito, proprio in adesione ai principi su enunciati e con accertamento di fatto in questa sede incensurabile, ha ricostruito la condotta tenuta dal F. in un arco temporale assai consistente e fino alle sue dimissioni, e ne ha tratto il convincimento che, con comportamento concludente, egli avesse inteso rinunciare a reclamare il compenso per la lunga attività svolta quale amministratore della società di cui era anche socio. La Corte nel rammentare che il compenso dell’amministratore - il cui incarico non era stato previsto come gratuito - doveva essere concretamente determinato dall’assemblea dei soci, di cui lo stesso F. era partecipe quale socio fondatore, ha accertato che mai, prima della liquidazione della società, questi aveva chiesto che fosse posta all’ordine del giorno la determinazione dello stesso, come pure avrebbe potuto e dovuto. Ha posto in rilievo come l’attività di amministratore si fosse svolta per un arco temporale assai consistente, oltre quattordici anni, e che del pari erano trascorsi oltre quattro anni dalla cessazione dalla carica e dalla fissazione del compenso in favore del nuovo amministratore prima che la liquidazione del compenso fosse sollecitata. Si tratta di ricostruzione che non si limita alla mera valutazione dell’inerzia ma prende in considerazione contestuali condotte qualificanti e significative ricostruendo secondo canoni di ragionevolezza ed alla luce della buona fede nello svolgimento del rapporto la condotta tenuta come rinuncia tacita cfr. per un caso analogo Cass. 20/02/2009 n. 4261 . 7.2. Il secondo motivo di ricorso è invece inammissibile. La censura non riporta nella sua parte descrittiva il contenuto del verbale della cui errata interpretazione si duole incorrendo così nella violazione dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6. Il ricorrente per cassazione, il quale intenda dolersi dell’omessa od erronea valutazione di un documento da parte del giudice di merito, infatti, ha un duplice onere imposto dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 deve produrlo agli atti indicando esattamente nel ricorso in quale fase processuale ed in quale fascicolo di parte si trovi il documento in questione e deve indicarne il contenuto trascrivendolo o riassumendolo nel ricorso la violazione anche di uno soltanto di tali oneri nella specie il secondo rende inammissibile la censura cfr. Cass. 28/09/2016 n. 19048 . 8. Al rigetto del ricorso consegue la condanna al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che si liquidano in dispositivo. Sussistono inoltre le condizioni per l’applicazione del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che si liquidano in Euro 5.000,00 per compensi professionali, Euro 200,00 per esborsi, 15% per spese forfettarie oltre agli accessori dovuti per legge. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.