Il contratto a tutele crescenti viola il diritto europeo? La questione alla Corte di Giustizia

Il contratto a tutele crescenti non ha introdotto una diversa tipologia contrattuale, né ha portato con sé un sistema di tutele crescenti, ma ha solo introdotto, per i rapporti di lavoro a tempo indeterminato costituiti a far data dal 7 marzo 2015, un sistema sanzionatorio nel quale viene espressamente esclusa la reintegrazione per i licenziamenti economici” il livello di tutela è fortemente attenuato rispetto al passato, sebbene la fattispecie di recesso rimanga inalterata nei suoi aspetti normativi.

Lo ha affermato il Tribunale di Milano, Sez. Lavoro, con l’ordinanza del 5 agosto 2019. Tutti reintegrati tranne uno Jobs Act contrario al diritto europeo? La decisione in commento trae origine dal ricorso presentato, avanti al Giudice del lavoro di Milano, da alcuni lavoratori coinvolti in una procedura di licenziamento collettivo al fine di far dichiarare l’illegittimità del recesso datoriale. Nella fase sommaria, il Tribunale ha ordinato la reintegrazione nel posto di lavoro di tutti i ricorrenti, ad eccezione di uno, nei confronti del quale la tutela dell’art. 18 stat. lav. è stata ritenuta inapplicabile in ragione della data di stabilizzazione del rapporto, avvenuta dopo il 7 marzo 2015. Il lavoratore ha, quindi, promosso un giudizio di opposizione, ribadendo la violazione dei criteri di scelta da parte dell’ex datore di lavoro ed il diritto alla reintegrazione, evidenziando il possibile conflitto con i principi e le norme del diritto comunitario del difforme trattamento che caratterizza la medesima azione di impugnativa di un licenziamento collettivo nell’ambito della stessa procedura derivante esclusivamente dalla data di assunzione ed, in particolare, dalla data di trasformazione del rapporto da lavoro a termine in lavoro a tempo determinato . Nella fattispecie, la data di costituzione del rapporto di lavoro, in quanto anteriore al 7 marzo 2015, determinerebbe l’applicazione del regime previsto dall’art. 18 stat. lav. tuttavia, la circostanza che il rapporto di lavoro si sia trasformato a tempo determinato in data successiva al 7 marzo 2015 impone l’applicazione dell’art. 1, commi 2 e 10, d.lgs. n. 23/2015 c.d. Jobs Act , che estende ai rapporti di lavoro trasformati dopo tale data il campo di applicazione della nuova disciplina relativa al c.d. contratto a tutele crescenti”. Il quadro normativo in materia di licenziamenti collettivi. L'evoluzione normativa sui modelli sanzionatori in caso di licenziamenti collettivi ha determinato la coesistenza di regimi profondamente diversi tra loro, che, in astratto possono trovare contestuale applicazione in una medesima procedura di licenziamento collettivo. Per i rapporti di lavoro a tempo indeterminato costituiti fino al 7 marzo 2015 trova, infatti, applicazione l'art. 18 stat. lav., che assicura ai lavoratori, in caso di violazione dei criteri di scelta, la tutela reale rappresentata dalla reintegrazione nel posto di lavoro cfr. art. 5, comma 3, l. n. 223/1991, novellato dalla l. n. 92/2012 . Per i rapporti di lavoro a tempo indeterminato costituiti a decorrere dal 7 marzo 2015 e, comunque, per i rapporti di lavoro a termine convertiti a far tempo da tale data, come nella fattispecie, trova, viceversa, applicazione l'art. 10 d.lgs. n. 23/2015 c.d. Jobs Act . Tale norma dispone che, in caso di licenziamento collettivo intimato in violazione dei criteri di scelta di cui all'art. 5, comma 1, l. n. 223/1991, il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di una indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale di importo pari a due mensilità dell'ultima retribuzione per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a quattro e non superiore a ventiquattro mensilità. Successivamente, con la l. n. 96/2018, che ha convertito il d.l. n. 87/2018 c.d. decreto dignità” , la misura dell’indennità dovuta dal datore di lavoro in caso di licenziamento illegittimo per i lavori cessati a decorrere dal 13 luglio 2018 è stata elevata e portata da un minimo di 6 ad un massimo di 36 mensilità. Licenziamenti collettivi l’autonomia del legislatore nazionale non è illimitata. In base all’art. 30 della Carte dei diritti dell’Unione europea, ogni lavoratore ha il diritto alla tutela contro ogni licenziamento ingiustificato, conformemente al diritto comunitario e alle legislazioni e prassi nazionali . Il diritto alla tutela dell'art. 30 opera a tutela di tutte le tipologie di licenziamento, stante la competenza dell’Unione ad intervenire con propri atti normativi su tale materia. La specifica disciplina dei licenziamenti collettivi rientra certamente nell'alveo del diritto dell'Unione, la quale, sul punto, ha da tempo esercitato la propria potestà normativa con l'approvazione della direttiva 98/59/CE, attuata in Italia con la l. n. 223/1991. La materia dei licenziamenti collettivi, ivi compresa, quindi, anche la valutazione dell'adeguatezza della tutela, rientra, pertanto, per effetto dell'adozione dello specifico atto normativa, nell’ambito di applicazione del diritto dell'Unione. Ricondotti i licenziamenti collettivi nell'ambito della tutela assicurata dalla Carta dei diritti fondamentali dell'Unione, il Tribunale di Milano osserva che tale diritto deve essere assicurato conformemente al diritto comunitario e alle legislazioni e prassi nazionali”. Sebbene lo stesso art. 30 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione stabilisca una facoltà normativa in capo ai singoli Stati, in ordine alle conseguenze derivanti da un recesso illegittimo, tuttavia tale facoltà deve essere esercitata, per espressa previsione della norma, conformemente al diritto dell’'Unione”. Tale inciso introduce un limite esterno e, quindi, un parametro inderogabile per il legislatore nazionale. Il vincolo imposto alla legislazione dei singoli Stati di attuare una normativa conformemente” al diritto dell'Unione impone di ritenere che sul regime sanzionatorio non sussista una assoluta autonomia normativa dei singoli Paesi membri. Assume, quindi, rilevanza anche per il legislatore nazionale che intenda disciplinare le conseguenze di un licenziamento collettivo il contenuto della tutela stabilita in tale sistema, caratterizzata da effettività, adeguatezza e dissuasività, nonché il rispetto del principio di uguaglianza e di non discriminazione, elementi entrambi sanciti dagli artt. 20 e 21 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione che, in quanto principi fondamentali, non possono essere disattesi in sede di esercizio della potestà normativa da parte del legislatore nazionale. Il Jobs Act viola il principio della parità di trattamento? Il diritto dell'Unione, inoltre, non può ritenersi compatibile con un sistema di tutela dei licenziamenti che, in presenza di situazioni non differenziate, determini una difformità di trattamento, dato che un duplice modello sanzionatorio confliggerebbe con il principio di parità di trattamento. L'art. 20 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione statuisce, infatti, che tutte le persone sono uguali davanti alla legge intendendosi per legge” il complesso di norme che caratterizzano il sistema normativo dell'Unione. Il principio della parità di trattamento, quindi, deve trovare piena applicazione con riferimento ai licenziamenti collettivi. La diversa data di assunzione non può avere alcuna rilevanza ai fini di giustificare una tutela difforme, in quanto il fattore tempo non giustifica una sostanziale diversità di tutela per licenziamenti caratterizzati da una procedura collettiva che si applica allo stesso tempo ai lavoratori coinvolti dal processo selettivo omogeneo. Il Tribunale di Milano ritiene, quindi, che, nell'ambito del diritto dell'Unione, non possa considerarsi compatibile un contemporaneo doppio regime di tutela avverso licenziamenti che, sia pur basati sugli stessi presupposti perfezionati allo stesso tempo, stabiliscano, per due rapporti di lavoro aventi le stesse caratteristiche, una tutela più forte per alcuni e più debole per altri, ossia reintegratoria per alcuni e meramente indennitaria per altri. Una differenziazione normativa del regime di tutela basata sul solo fattore tempo”, rappresentato dalla data di assunzione in realtà costituisce un elemento oggettivamente discriminatorio indiretto, in violazione dell’art. 21 della Carta e dell’art. 4 della direttiva 90/70 CE. La questione passa alla Corte di Giustizia. La disciplina del Jobs Act esclude l'anzianità ininterrotta dei rapporti di lavoro a termine ai fini della tutela forte prevista per i licenziamenti collettivi affermando che, ai fini del sistema sanzionatorio, non rileva l'antecedente data di costituzione del rapporto di lavoro e, quindi, l'anzianità pregressa, bensì la data di conversione del rapporto. Vi è la coesistenza nel medesimo momento di discipline radicalmente diverse e riferite a fattispecie identiche che si verificano nello stesso segmento temporale. I rapporti di lavoro a tempo determinato, quindi, pur stipulati contestualmente ai rapporti di lavoro a tempo indeterminato ai fini della tutela prevista per i licenziamenti collettivi, vengono penalizzati in quanto il Jobs Act esclude espressamente il periodo precedente. Le assunzioni dei rapporti di lavoro a termine antecedenti alla data di entrata in vigore del d.lgs. n. 23/2015 vengono, quindi, irragionevolmente discriminate ai fini della tutela applicabile al rapporto. In ragione di quanto sopra, il Tribunale di Milano ritiene necessario rimettere la questione alla Corte di Giustizia dell’Unione europea al fine di far accertare la compatibilità della disciplina interna con il diritto europeo.

Tribunale di Milano, sez. Lavoro, ordinanza 5 agosto 2019 Giudice Pazienza