Il dirigente pubblico è escluso dall’art. 2103 c.c.

L'inapplicabilità ai dirigenti dell'art. 2103 c.c., sancita dall’art. 19 d.lgs. n. 165/2001, discende dalle peculiarità proprie della qualifica dirigenziale che non esprime più una posizione lavorativa inserita nell'ambito di una carriera e caratterizzata dallo svolgimento di determinate mansioni, bensì esclusivamente l'idoneità professionale del soggetto a ricoprire un incarico dirigenziale - necessariamente a termine - conferito con atto datoriale gestionale, distinto dal contratto di lavoro a tempo indeterminato.

Ad affermarlo è la Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, con l’ordinanza n. 17636 depositata il 1° luglio 2019. Il caso. La Corte di Appello di Torino, riformando la pronuncia di primo grado, respingeva la domanda di un primario di una Azienda Ospedaliera Universitaria, tesa ad ottenere il ripristino dei posti letto dei pazienti affetti da fibrosi cistica e di consentire alla dirigente di continuare a svolgere le ricerche e gli studi sulla fibrosi cistica quale referente della Regione Piemonte per il centro di riferimento della fibrosi cistica . Ad avviso della Corte di merito, contrariamente a quanto ritenuto dal Tribunale, le risultanze istruttorie avevano confermato come la riduzione dei posti letto fosse l’epilogo di una effettiva riorganizzazione dell’attività ospedaliera e che la riduzione delle attività interne alla struttura diretta dalla lavoratrice non avesse leso la sua professionalità, intesa come insieme dei compiti relativi alla struttura a lei assegnata. Inoltre, in ambito pubblicistico la dequalificazione andava commisurata al dato formale degli elementi che delimitavano l'incarico dirigenziale, al di là delle funzioni di direzione ed organizzazione svolte, non avendo il dirigente diritto alcuno alla sua adibizione all'una piuttosto che all'altra delle patologie. Concludevano i Giudici di merito affermando come è la struttura complessa a caratterizzare l'incarico dirigenziale, con conseguente equivalenza delle patologie ad essa pertinenti e delle relative prestazioni, non potendo ritenersi che le attività connesse alla fibrosi cistica valessero a connotare il detto incarico , atteso che nel settore pubblico, ex art. 52 d.lgs. 165/2001, deve aversi riguardo ad un concetto di equivalenza formale delle mansioni ancorato ad una valutazione demandata ai contratti collettivi e non sindacabile dal giudice, indipendentemente dalla professionalità acquisita . Contro tale pronuncia la lavoratrice ricorreva alla Corte di Cassazione, articolando vari motivi. L’art. 2103 c.c. è norma che riguarda il solo impiego privato. Con un primo motivo, per quanto qui interessa, la ricorrente si doleva di come i Giudici di merito avessero errato nel trascurare l’impatto che la riorganizzazione datoriale aveva avuto sulla professionalità della dirigente, dovendosi all’uopo valutare i canoni sanciti dall’art. 2103 c.c. a suo dire applicabile alla c.d. dirigenza tecnica . Motivo che tuttavia non viene condiviso dalla Cassazione la quale, affermando il principio esposto in massima, rigetta il ricorso. Ritiene infatti la Corte che non è applicabile al rapporto dirigenziale l’art. 52 del d.lgs. n. 165/2001, riferibile al solo personale che non rivesta la qualifica di dirigente e che, inoltre, quanto alla dirigenza sanitaria, inserita in un unico ruolo distinto per profili professionali e in un unico livello” art. 15 d.lgs. n. 502/1992 , la giuridica impossibilità di applicare la disciplina dettata dall’art. 2103 c.c. è ribadita dall'art. 15- ter del d.lgs. n. 502/1992 [] secondo cui nel conferimento degli incarichi e per il passaggio ad incarichi di funzioni dirigenziali diverse, le aziende tengono conto che data l’equivalenza delle mansioni dirigenziali non si applica l’art. 2103, comma 1, c.c. nello stesso senso anche Cass. nn. 28151/2018 30913/2018 . La non contestazione non rende necessariamente pacifico un fatto. Con un ulteriore motivo, la ricorrente si doleva di come i Giudici di merito non avessero adeguatamente valutato la non contestazione, da parte del datore di lavoro, della lesione che la riorganizzazione effettuata aveva arrecato alla professionalità della dirigente. Motivo che ancora una volta non viene condiviso dalla Cassazione seppur, nell’avviso di chi scrive, sulla base di una valutazione non integralmente condivisibile. Ritiene infatti la Corte che la non contestazione dei fatti non costituisce prova legale bensì un mero elemento di prova sicché il giudice di appello, ove nuovamente investito dell'accertamento dei medesimi fatti con specifico motivo di impugnazione, è chiamato a compiere una valutazione discrezionale di tutto il materiale probatorio ritualmente acquisito, senza essere vincolato alla condotta processuale tenuta dal convenuto nel primo grado del giudizio così anche Cass. n. 8708/2017 . Inoltre, e soprattutto, conclude la Cassazione chiarendo che se il giudice ha ritenuto contestato uno specifico fatto e, in assenza di ogni tempestiva deduzione al riguardo, abbia proceduto all'ammissione ed al conseguente espletamento di un mezzo istruttorio in ordine all'accertamento del fatto stesso, la successiva allegazione di parte diretta a far valere l'altrui pregressa non contestazione diventa inammissibile così anche Cass. n. 4249/2012 .

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, ordinanza 9 maggio – 1 luglio, n. 17636 Presidente Napoletano – Relatore Arienzo Rilevato che 1. il Tribunale di Pinerolo, in sede di reclamo avverso l’ordinanza dichiarativa del difetto di giurisdizione del G.O., revocava la detta ordinanza ed ordinava alla Azienda Ospedaliera Universitaria omissis di ripristinare i posti letto dei pazienti affetti da fibrosi cistica nell’ambito della struttura sotto la direzione della Prof. D.R.V. e di consentire alla stessa di continuare a svolgere le ricerche e gli studi sulla fibrosi cistica quale referente della Regione Piemonte per il centro di riferimento per la fibrosi cistica 2. il successivo ricorso dell’AOU inteso all’accertamento di non avere posto in essere nei confronti della D.R. alcuna condotta discriminatoria o vessatoria, né determinato un suo demansionamento, ed all’inefficacia della suddetta ordinanza, essendo la Delibera consequenziale a ragioni organizzative, veniva respinto dal Tribunale, che accoglieva, invece, le domande avanzate in via riconvenzionale dalla D.R. , rilevando che la Delib. 30 settembre 2009, n. 636 che sottraeva alla struttura complessa della stessa – - il centro fibrosi era priva di motivazione e non chiariva i motivi dell’assegnazione alta struttura diretta dal Prof. S. dei posti letto dedicati ai pazienti affetti da fibrosi cistica, come tale affetta da illegittimità 3. la sentenza del Tribunale rilevava che, a prescindere dalla vessatorietà del comportamento attuato dall’azienda, gli effetti prodotti dalla Delibera erano stati pregiudizievoli per la resistente, dovendo ritenersi irrilevante la circostanza per la quale quest’ultima aveva mantenuto il suo incarico di direzione di struttura complessa, in quanto il ruolo di responsabile del centro fibrosi cistica era funzionalmente autonomo rispetto a quello di struttura complessa, e non essendo significativo che il Preside della Facoltà avesse attestato come non lesivo per la ricorrente il venir meno del predetto ruolo veniva anche determinato il danno prodotto alla D.R. come pari al 16,66% della retribuzione globale di fatto della stessa, relativa al periodo dal 30.9.2009 al 16.6.2010 4. la Corte d’appello di Torino, con sentenza del 21.11.2013, accoglieva l’appello dell’Azienda Ospedaliera e dichiarava la legittimità della deliberazione n. 634 del 30.9.2009, respingendo le domande proposte dalla D.R. con la memoria di primo grado riteneva che non si fosse formato alcun giudicato sull’illegittimità della Delib. 30 settembre 2009, avendo la difesa dall’appellante, nel richiamare le censure formulate in ordine alle valutazioni espresse dal primo giudice, sostenuto la legittimità, anche sotto il profilo motivazionale, degli atti organizzativi adottati dall’azienda nel merito, evidenziava che le risultanze istruttorie avevano confermato l’opportunità di riorganizzare le attività pneumologiche e che nelle riunioni dei comitati di dipartimento del 30 e 31.3.2009 era stata elaborata, sentiti i Direttori della strutture complesse interessate, la proposta di riduzione dei posti letti in maniera paritaria alla struttura complessa diretta dall’appellata ed a quella diretta dallo S. , conseguente ad esigenze di redistribuzione dei posti letti, confermate dai testi escussi rilevava che la variazione delle attività interne alla struttura diretta dalla D.R. non aveva leso la sua professionalità, riferibile all’insieme di compiti relativi alla struttura dalla stessa diretta, e che, in ambito pubblicistico, la dequalificazione andava commisurata al dato formale degli elementi che delimitavano l’incarico dirigenziale, al di là delle funzioni di direzione ed organizzazione svolte, non avendo il dirigente diritto alcuno alla sua adibizione all’una piuttosto che all’altra delle patologie che componevano la categoria delle malattie dell’apparato respiratorio 5. veniva al riguardo precisato che è la struttura complessa a caratterizzare l’incarico dirigenziale, con conseguente equivalenza delle patologie ad essa pertinenti e delle relative prestazioni, non potendo ritenersi che le attività connesse alla fibrosi cistica valessero a connotare il detto incarico e sottolineandosi che nel settore pubblico, D.Lgs. n. 165 del 2001, ex art. 52, comma 1, dovesse aversi riguardo ad un concetto di equivalenza formale delle mansioni ancorato ad una valutazione demandata ai contratti collettivi e non sindacabile dal giudice, indipendentemente dalla professionalità acquisita, come era invece nel settore privato si aggiungeva che la Commissione incaricata dal Preside della Facoltà aveva escluso che la presenza del centro fibrosi cistica nella struttura complessa avesse rappresentato un elemento imprescindibile per lo svolgimento dell’attività di ricerca scientifica da parte dell’appellata e della sua attività didattica 6. in ogni caso, valutando il numero di lavori inerenti la fibrosi in rapporto al numero di lavori totali della professoressa D.R. , risultavano sei lavori in extenso e due rassegne su un totale di quarantasette lavori censiti sulla base della produzione scientifica dell’appellata dal 2001 al 2009 ed i letti della fibrosi cistica erano quattro su un totale assegnato alla struttura prima di ventiquattro e, dopo la riforma che aveva ridotto i posti letto di pneumologia a favore dei ricoveri ordinari, di quattordici unità, il che portava a negare all’attività connessa alla fibrosi portata qualificante della professionalità della D.R. , non rilevando in conclusione la maggiore specializzazione dell’appellata in alcuni settori oggetto della sua attività lavorativa 7. come specificato dai testi, la ragione della riassegnazione dei posti letto dedicati ai pazienti affetti da fibrosi cistica risiedeva nella ridistribuzione effettuata nell’ottica di una più ampia scelta organizzativa, finalizzata all’incremento dei posti letto dei ricoveri ordinari, oltre che alla ridistribuzione delle risorse in relazione a due strutture complesse, e , a direzione universitaria, aventi pari importanza nulla aveva, poi, provato l’appellata in ordine alla lesione delle sue capacità professionali ai fini della risarcibilità del dedotto pregiudizio subito 8. di tale decisione ha domandato la cassazione la D.R. , affidando l’impugnazione a quattro motivi - illustrati con memoria cui ha resistito, con controricorso, l’Azienda ospedaliera. Considerato che 1. con il primo motivo, sono denunziate violazione e falsa applicazione dell’art. 434 c.p.c., ex art. 360 c.p.c., n. 3, sostenendosi che l’Azienda, nel ricorso in appello, aveva richiamato circostanze a sostegno della impugnazione che non ricomprendevano, rispetto ad una motivazione della sentenza di primo grado relativa alla carenza motivazionale della Delib. n. 634 del 2009, alcuna argomentazione diretta a confutare su tale piano la decisione, da ciò dovendo desumersi che si era formato il giudicato sul punto si osserva che l’Azienda Ospedaliera non aveva in alcun modo indicato quale parte o pagina della Delibera contenesse la motivazione dell’assegnazione dei posti letto della fibrosi cistica al prof. S. , nonostante che questi non avesse alcuna esperienza in materia si deposita - doc. sub b - la copia del ricorso in appello da cui rilevare la mancanza di censure in ordine al capo specifico della sentenza di primo grado 2. con il secondo motivo, si ascrivono alla sentenza impugnata violazione e falsa applicazione del D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 52 e dell’art. 2103 c.c., sostenendosi che non sarebbe stato valutato l’aspetto sostanziale dell’incarico assegnato alla dirigente, che la riorganizzazione aveva inciso pesantemente sulla posizione della D.R. , che le ragioni emerse dall’istruttoria erano quelle dell’assegnazione dei letti al prof. S. per essere divenuta struttura complessa quella semplice da lui diretta, che si tendeva a sfumare l’importanza dell’indirizzo specialistico di ciascuna struttura complessa, in tal modo compromettendosi irrimediabilmente l’attività di ricerca ed assistenza si richiama giurisprudenza di legittimità che distingue la questione dell’equivalenza delle mansioni D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 52 dal ben diverso caso della sottrazione integrale delle funzioni da svolgere, vietata anche nel pubblico impiego si afferma che per la dirigenza tecnica devono essere applicati l’art. 2103 c.c. e, più in generale, si richiama il principio della tutela della professionalità del dirigente per sostenere l’erroneità della decisione impugnata laddove ha applicato il D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 52 ed ha ritenuto di non applicare l’art. 2103 c.c. 3. con il terzo motivo, ci si duole della violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. e degli artt. 115 e 116 c.p.c., assumendosi che la Corte ha escluso la lesione alla professionalità ed ha recepito erroneamente l’argomentazione contenuta nella relazione tecnica della Commissione universitaria che sosteneva l’importanza attenuata della specializzazione e la sua irrilevanza nell’ambito della dirigenza medica, laddove la stessa azienda non aveva mai posto in discussione la specializzazione della D.R. e la sua competenza scientifica sulla patologia della fibrosi cistica, non essendo peraltro vincolante il giudizio espresso dalla commissione tecnica, sicché erano state erroneamente valutate le risultanze istruttorie ricavabili dalle prove articolate e dalle circostanze dedotte dalle parti e non contestate e la pronuncia si era posta in indiretta violazione anche del disposto dell’art. 2697 c.c., nell’avallare le deduzioni dell’azienda in assenza di qualsiasi prova a sostegno delle medesime 4. il quarto motivo censura la decisione indicando come violati e falsamente applicati gli artt. 2097, 2087 e 2043 c.c. e l’art. 115 c.p.c., in relazione alla valutazione della mancata prova del pregiudizio alla professionalità subito dalla D.R. , laddove, in caso di accertato demansionamento professionale, il giudice poteva e doveva desumere l’esistenza del relativo danno, determinandone in via equitativa l’ammontare, con processo logico giuridico attinente alla formazione della prova, anche presuntiva, in base agli elementi di fatto relativi alla qualità e quantità dell’esperienza lavorativa pregressa, al tipo di professionalità colpita, alla durata del demansionamento, all’esito finale della dequalificazione ed alle altre circostanze del caso concreto, sul piano quantitativo, adottando come parametro il corrispettivo della prestazione dedotta in contratto, ovvero la retribuzione 5. quanto alle censure formulate nel primo motivo, è sufficiente osservare che, anche quando vengano denunciati, con il ricorso per cassazione, errores in procedendo, in relazione ai quali la Corte di cassazione è giudice del fatto, resta preliminare la questione di ammissibilità del motivo, dovendo lo stesso rispettare i criteri di cui all’art. 366 c.p.c., n. 6 e art. 369 c.p.c., n. 4 nel caso di specie, la ricorrente ha omesso di riportare le parti essenziali recte, i motivi dell’atto di appello in relazione alle quali denuncia la inesatta formulazione, pur sottolineando che lo stesso non conteneva alcuna censura al riguardo e depositando la copia del ricorso in appello doc. sub 2 in mancanza di tale specificazione è, dunque, precluso al Collegio l’esame dei mossi rilievi cfr., ex plurimis, Cass. n. 7406 del 2017, Cass. n. 24481 del 2014, Cass. n. 8008 del 2014, Cass. n. 896 del 2014, Cass. Sez. Un. 8077 del 2012, cit. , in quanto, in dispregio dei richiamati canoni di specificità dei motivi, vengono trascritti i passaggi della sentenza di primo grado gravata, ma senza un puntuale riferimento al contenuto del ricorso in appello che si assume erroneamente accolto, atto che, peraltro, nei precisi termini in cui è riportato nel controricorso, contiene la censura del capo della decisione in oggetto 6. da ultimo, è stato da questa Corte affermato che gli artt. 342 e 434 c.p.c., nel testo formulato dal D.L. n. 83 del 2012, conv. con modif. dalla L. n. 134 del 2012, vanno interpretati nel senso che l’impugnazione deve contenere, a pena di inammissibilità, una chiara individuazione delle questioni e dei punti contestati della sentenza impugnata e, con essi, delle relative doglianze, affiancando alla parte volitiva una parte argomentativa che confuti e contrasti le ragioni addotte dal primo giudice, senza che occorra l’utilizzo di particolari forme sacramentali o la redazione di un progetto alternativo di decisione da contrapporre a quella di primo grado, tenuto conto della permanente natura di revisio prioris instantiae del giudizio di appello, il quale mantiene la sua diversità rispetto alle impugnazioni a critica vincolata cfr. Cass. s.u. 16.11.2017 n. 27199 7. quanto al secondo motivo, che si basa su una serie di considerazioni che attingono il merito e prospetta una diversa ricostruzione della vicenda alla stregua di una difforme interpretazione delle deposizioni rese dai testi escussi, deve aversi riguardo ai principi espressi da questa Corte, alla cui stregua L’inapplicabilità ai dirigenti dell’art. 2103 c.c., sancita dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 19, era già stata affermata dal D.Lgs. n. 29 del 1993, art. 19, come modificato dal D.Lgs. n. 80 del 1998, art. 13 e discende dalle peculiarità proprie della qualifica dirigenziale che, nel nuovo assetto, non esprime più una posizione lavorativa inserita nell’ambito di una carriera e caratterizzata dallo svolgimento di determinate mansioni, bensì esclusivamente l’idoneità professionale del soggetto a ricoprire un incarico dirigenziale, necessariamente a termine, conferito con atto datoriale gestionale, distinto dal contratto di lavoro a tempo indeterminato è, poi, evidenziato come per le medesime ragioni, non è applicabile al rapporto dirigenziale il D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 52, riferibile al solo personale che non rivesta la qualifica di dirigente, al quale è, invece, riservata la disciplina dettata dalle disposizioni del capo II e che quanto alla dirigenza sanitaria, inserita in un unico ruolo distinto per profili professionali e in un unico livello D.Lgs. n. 502 del 1992, art. 15 , la giuridica impossibilità di applicare la disciplina dettata dall’art. 2103 c.c. è ribadita dal D.Lgs. n. 502 del 1992, art. 15 ter, inserito dal D.Lgs. n. 229 del 1999, nonché dall’art. 28, comma 7, del CCNL 8.6.2000 per il quadriennio 1997/2001, secondo cui nel conferimento degli incarichi e per il passaggio ad incarichi di funzioni dirigenziali diverse, le aziende tengono conto , che data l’equivalenza delle mansioni dirigenziali non si applica l’art. 2103 c.c., comma 1 cfr. Cass. 4.1.2019 n. 91, Cass. 7863/2019 par. 8 e ss. , Cass. 6.2.2019 n. 3483, Cass. 28243, Cass. 29.11.2018 n. 30913, Cass. 5.11.2018 n. 28151 8. pertanto, è corretta la decisione della Corte d’appello di Torino, che si è conformata a tali principi nel negare l’applicabilità delle norme suindicate, dovendo considerarsi apodittica e priva di rilevanza ai fini considerati l’affermazione della ricorrente secondo cui l’applicabilità della norma di cui all’art. 2103 c.c., alla dirigenza tecnica avallerebbe l’assunto sostenuto 9. con riferimento alle doglianze contenute nel terzo motivo, la Corte d’appello non ha disatteso il principio discendente dal comportamento di non contestazione dei fatti allegati, ma ha interpretato i fatti dedotti in relazione a quanto opposto dalla Azienda in ordine all’esistenza di ragioni organizzative che legittimavano la riassegnazione dei posti letto alle diverse strutture complesse 10. la non contestazione dei fatti non costituisce prova legale, bensì un mero elemento di prova, sicché il giudice di appello, ove nuovamente investito dell’accertamento dei medesimi fatti con specifico motivo di impugnazione, è chiamato a compiere una valutazione discrezionale di tutto il materiale probatorio ritualmente acquisito, senza essere vincolato alla condotta processuale tenuta dal convenuto nel primo grado del giudizio cfr. Cass. 4.4.2017 n. 8708 peraltro, se il giudice ha ritenuto contestato uno specifico fatto e, in assenza di ogni tempestiva deduzione al riguardo, abbia proceduto all’ammissione ed al conseguente espletamento di un mezzo istruttorio in ordine all’accertamento del fatto stesso, la successiva allegazione di parte diretta a far valere l’altrui pregressa non contestazione diventa inammissibile Cass. 16.3.2012 n. 4249 sotto altro profilo, le affermazioni di cui al motivo contravvengono all’insegnamento di questa Corte secondo cui la non contestazione del fatto ad opera della parte che ne abbia l’onere è irreversibile, ma non impedisce al giudice di acquisire comunque la prova del fatto non contestato, sicché in tale ultima ipotesi resta superata la questione sulla pregressa non contestazione di quei fatti che, se ravvisata, avrebbe comportato l’esclusione di essi dal thema probandum cfr. Cass. 13.3.2012 n. 3951 nella sostanza si sposta la valutazione su piani differenti da quelli che hanno costituito oggetto della controversia nei precedenti gradi di giudizio e si contesta in modo non consentito nella presente sede la valutazione del materiale probatorio effettuata dal giudice del gravame non risulta, poi, alcuna inversione dell’onere probatorio incombente a ciascuna delle parti 11. l’esame del quarto motivo è collegato all’accoglimento dei precedenti e, comunque, la tesi del danno in re ipsa è sconfessata da recente giurisprudenza di questa Corte, che disattende il principio della potenzialità lesiva del demansionamento v. Cass. 5.12.2017 n. 29047 ed afferma che il danno derivante da demansionamento e dequalificazione professionale non ricorre automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale, ma può essere provato dal lavoratore, ai sensi dell’art. 2729 c.c., attraverso l’allegazione di elementi presuntivi gravi, precisi e concordanti, potendo a tal fine essere valutati la qualità e quantità dell’attività lavorativa svolta, il tipo e la natura della professionalità coinvolta, la durata del demansionamento, la diversa e nuova collocazione lavorativa assunta dopo la prospettata dequalificazione cfr., da ultimo, Cass. 3.1.2019 n. 21, Cass. 15.10.2018 n. 25743 12. in conclusione, il ricorso va respinto 13. le spese del presente giudizio seguono la soccombenza della ricorrente e sono liquidate nella misura indicata in dispositivo 14. sussistono le condizioni di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater. P.Q.M. la Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, liquidate in Euro 200,00 per esborsi, Euro 4500,00 per compensi professionali, oltre accessori come per legge, nonché al rimborso delle spese forfetarie in misura del 15%. Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002 art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dell’art. 13, comma 1 bis, del citato D.P.R