Divieto di licenziamento nei dodici mesi post nozze: vale esclusivamente per le donne

Respinte le obiezioni di un oramai ex dipendente di un ente pubblico. Confermato il suo licenziamento. Inutile il richiamo al fatto che la sua cacciata sia avvenuta quando non era ancora trascorso un anno dal suo matrimonio.

Nessuna discriminazione verso il genere maschile se il divieto di licenziamento a un anno dal matrimonio viene applicato solo per le donne. Su questo principio battono i Giudici, respingendo definitivamente le obiezioni mosse da un ex dipendente di un ente pubblico pugliese Cassazione, sentenza n. 15515/19, sez. Lavoro, depositata il 7 giugno . Realtà. Ultimo passaggio giudiziario è quello in Cassazione. Lì il lavoratore, che vede profilarsi la definitività del licenziamento, si gioca le ultime carte per mettere in discussione il drastico provvedimento adottato da un ente pubblico pugliese. E centrale in questa ottica è il richiamo alla normativa che impedisce il licenziamento nei dodici mesi successivi al giorno del matrimonio. Questo l’appiglio utilizzato dal lavoratore. Egli, in particolare, ricorda che il licenziamento è arrivato entro l’anno dall’aver contratto matrimonio e osserva che la presunzione di nullità del licenziamento irrogato in tale periodo, prevista a favore delle lavoratrici, deve essere estesa anche al lavoratore uomo . Chiaro l’obiettivo del lavoratore a rischio applicare a donne e uomini il divieto di licenziamento post matrimonio gli consentirebbe di salvare il posto. Questa visione, già respinta in Tribunale e in appello, è considerata priva di fondamento anche dai giudici della Cassazione. Questi ultimi ricordano, innanzitutto, che l’articolo 35 del decreto legislativo numero 198 del 2006 prevede che sono nulli i licenziamenti attuati a causa di matrimonio . Ma questo principio, aggiungono ancora i giudici, va letto come approdo della tutela costituzionale assicurata ai diritti della donna lavoratrice . Di conseguenza, l’applicazione di tale principio solo per le lavoratrici non ha natura discriminatoria, in quanto la diversità di trattamento tra uomo e donna non trova la sua giustificazione nel genere del soggetto che presta l’attività lavorativa, ma è coerente con la realtà sociale, che ha reso necessarie misure legislative volte a garantire alla donna la possibilità di coniugare il diritto al lavoro con la propria vita coniugale e familiare . Confermato, di conseguenza, il licenziamento per l’oramai ex dipendente di un ente pubblico pugliese.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 10 aprile – 7 giugno 2019, n. 15515 Presidente Napoletano – Relatore Tricomi Svolgimento del processo 1. La Corte di Appello di Bari, con la sentenza n. 319 del 2018, ha rigettato l'impugnazione proposta da Al. An. Ar. An., nei confronti del Comune di Foggia, avverso la sentenza emessa tra le parti dal Tribunale di Foggia. Il lavoratore aveva impugnato il licenziamento con preavviso irrogatogli il 31 marzo 2015 a seguito della contestazione di mancata giustificazione dell'assenza dal lavoro per l'arco temporale dal 18 settembre al 18 ottobre del 2014, e di produzione di documentazione non veritiera. 3. Per la cassazione della sentenza resa in grado di appello ricorre il lavoratore prospettando quattro motivi di impugnazione, assistiti da memoria. 4. Resiste con controricorso il Comune di Foggia. Ragioni della decisione 1. Con il primo motivo di ricorso è dedotto, ai sensi dell'art. 360, n. 3, cod. proc. civ., il vizio di violazione degli art. 1, comma 48 e ssg., della legge n. 92 del 2012, e dell'art. 414 cod. proc. civ. Il ricorrente censura la decisione del giudice di appello che ha confermato la statuizione del Tribunale di improponibilità in quanto proposto per la prima volta con il ricorso in opposizione del motivo di impugnazione del licenziamento per violazione dell'art. 55-bis, del D.Lgs. n. 165 del 2001, in ragione del difetto di collegialità dell'UPD in sede di avvio del procedimento disciplinare. Richiama e riporta nel motivo, a fondamento della legittimità processuale del proprio operato, la giurisprudenza che ha affermato l'autonomia delle due fasi. Assume che la doglianza formulata con riguardo all'UPD doveva essere riferita alla domanda, formulata con il ricorso introduttivo della fase sommaria, di declaratoria di illegittimità del licenziamento, per la violazione delle regole procedurali di cui all'art. 55-bis del D.Lgs. n. 165 del 2001. La Corte d'Appello aveva si richiamato la giurisprudenza che ha affermato la natura non impugnatoria del ricorso in opposizione, ma erroneamente aveva poi disatteso la doglianza, ritenendo che la stessa si fondasse su fatti costitutivi diversi da quelli oggetto del ricorso sommario. 2. Con il secondo motivo di ricorso è dedotta, ai sensi dell'art. 360, n. 3, cod. proc. civ., la violazione dell'art. 55-bis, del D.Lgs. n. 165 del 2001. Il lavoratore contesta la motivazione con cui la Corte d'Appello disattendeva nel merito l'eccezione relativa alla mancanza di collegialità dell'UPD. Il ricorrente chiarisce di non aver dedotto che l'UPD doveva avere composizione collegiale ma che, in tal senso, si era determinata l'Amministrazione nel costituire l'Ufficio, e che dunque illegittimamente la contestazione era stata fatta da uno solo dei componenti dello stesso. La nota di contestazione era intestata UPD, ma era sottoscritta dal dott. Ta. nella qualità di Presidente, e dunque non si poteva evincere dalla stessa che provenisse dall'Ufficio nella sua collegialità. Spettava al datore di lavoro provare il rispetto della normativa interna, atteso che l'UPD, istituito dal Comune di Foggia con dGC n. 27/2014, era un Collegio formato, oltre che dal Presidente, da due componenti ed il segretario. 4. Il primo ed il secondo motivo di ricorso devono essere trattati congiuntamente in ragione della loro connessione. Gli stessi non sono fondati. Occorre precisare che il giudice di appello ha affermato che le domande nuove proposte in sede di opposizione devono risultare fondate sugli stessi fatti costitutivi allegati in sede di ricorso sommario, mentre nella specie il motivo di illegittimità del recesso non era stato allegato nel ricorso introduttivo. Rilevava, inoltre, che l'art. 55-bis, comma 4, d e l D.Lgs. n. 165 del 2001, nulla prevede circa la composizione collegiale dell'UPD, limitandosi a demandare alla P.A. la mera individuazione dell'Ufficio competente per i procedimenti disciplinari, che doveva procedere alla contestazione dell'addebito. Nella specie la contestazione disciplinare era stata effettuata dall'UPD come da intestazione della nota e sottoscritta dal dott. Taggia nella qualità di Presidente dell'Ufficio medesimo, per cui non vi erano elementi per desumere che la predetta contestazione non fosse ascrivibile ad una manifestazione di volontà dell'Ufficio in questione inteso collegialmente. 4.1. Tanto precisato, va ricordato che questa Corte ha già affermato che Cass., n. 27655 del 2017, n. 22656 del 2016, n. 19919 del 2016, n. 17329 del 2016, n. 19142 del 2015 la fase dell'opposizione ai sensi della legge n. 92 del 2012, art. 1, comma 51, non costituisce un grado diverso rispetto al giudizio a cognizione sommaria essa non è, in altre parole, una revisio prioris instantiae, ma solo una prosecuzione del giudizio di primo grado in forma ordinaria e non più urgente Cass., S.U.,n. 19674 del 2014 . Quello introdotto dalla cd. legge Fornero, come sottolineato dalle Sezioni Unite citata Cass., S.U., n. 19674 del 2014 , è un nuovo speciale rito finalizzato all'accelerazione dei tempi del processo, che si caratterizza per l’articolazione del giudizio di primo grado in due fasi una fase a cognizione semplificata o sommaria e l'altra, definita di opposizione, a cognizione piena nello stesso grado. Mentre la prima fase è caratterizzata, ancorché il ricorso debba avere i requisiti di cui all'art. 125 cod. proc. civ., dalla mancanza di formalità, poiché rispetto al rito ordinario delle controversie di lavoro non è previsto il rigido meccanismo delle decadenze e delle preclusioni di cui agli artt. 414 e 416 cod. proc. civ., e l'istruttoria, semplificata è limitata agli atti di istruzione indispensabili , la seconda fase è invece introdotta con un atto di opposizione proposto con ricorso. In sostanza, dopo una fase iniziale concentrata e deformalizzata -mirata a riconoscere, sussistendone i presupposti, al lavoratore ricorrente una tutela rapida ed immediata, ove il fondamento della sua domanda risulti prima facie sussistere alla luce dei soli atti di istruzione indispensabili il procedimento si riespande, nella fase dell'opposizione, alla dimensione ordinaria della cognizione piena con accesso per le parti a tutti gli atti di istruzione ammissibili e rilevanti. Si è altresì precisato Cass., S.U., n. 4308 del 2017 che l'opposizione non verte sullo stesso oggetto dell'ordinanza opposta pronunciata su un ricorso semplificato e sulla base dei soli atti di istruzione ritenuti, allo stato, indispensabili , né tantomeno è circoscritta alla cognizione di errores in procedendo o in iudicando eventualmente commessi dal giudice della prima fase, ma può investire anche differenti profili sia soggettivi stante anche il possibile intervento di terzi , sia oggettivi in ragione dell'ammissibilità di domande nuove, anche in via riconvenzionale, purché fondate sugli stessi fatti costitutivi , sia procedimentali, essendo previsto che in detto giudizio possano essere dedotte circostanze di fatto ed allegati argomenti giuridici anche diversi da quelli già addotti, e che si dia corso a prove ulteriori. 4.2. Quanto alla struttura dell'UPD, si è avuto modo di affermare Cass., n. 9314 del 2018 che l'art. 55 bis, comma 4, del d.lgs. n. 165 del 2001, rimette all'autonomia degli ordinamenti di ciascuna amministrazione l'individuazione dell'ufficio per i procedimenti disciplinari, con l'unico limite del carattere pluripersonale, di modo che occorre valutare caso per caso se sia stato attribuito a detto organo la natura di collegio perfetto per la validità delle deliberazioni. In un collegio perfetto, che, tranne si tratti di un organo giurisdizionale, deve intendersi tale solo se la legge, espressamente o implicitamente, lo preveda, ferma l'inoperatività in composizione unipersonale, la presenza di tutti i componenti è necessaria solo per le attività deliberative e valutative e non anche per quelle istruttorie, preparatorie e strumentali suscettibili di verifica successiva da parte dell'intero consesso Cass., n. 3467 del 2019, n. 14200 del 2018, n. 8245 del 2016 . 4.3. Alla luce dei suddetti principi la doglianza del ricorrente, se sotto il profilo procedurale è fondata in quanto la introduzione del motivo di illegittimità del licenziamento in ragione della prospettata irritualità della contestazione poteva intervenire nella fase di opposizione in ragione delle circostanze già dedotte con il ricorso introduttivo, nel resto è inammissibile. Ed infatti, secondo la giurisprudenza sopra richiamata, ben poteva la contestazione non essere sottoscritta da tutti i componenti, atteso che in relazione all'attività degli organi collegiali la formazione della volontà resta distinta dalla manifestazione, sicché mentre la prima si deve formare all'interno dell'organo collegiale secondo le regole che ne presiedono il funzionamento, all'esterno l'organo agisce in persona del soggetto che lo rappresenta, sicché gli atti ben possono essere sottoscritti solo da quest'ultimo, non avendo giuridico fondamento la tesi del ricorrente, secondo cui dalla natura perfetta del collegio deriverebbe la necessità che tutte le persone fisiche che lo pongono assumano anche all'esterno la paternità dell'atto, sottoscrivendolo Cass., n. 3467 del 2019 . La Corte territoriale ha esaminato l'atto e l'ha ritenuto riferibile all'UPD, perché sottoscritto dal dott. Taggia, nella sua qualità di Presidente dell'Ufficio. L'interpretazione degli atti unilaterali, qual è la contestazione degli addebiti, è riservata al giudice del merito ed è censurabile in sede di legittimità solo per violazione dei canoni di ermeneutica di cui agli artt. 1362 e seguenti cod. civ.„ applicabili in forza del rinvio contenuto nell'art. 1324 cod. civ., sicché il ricorrente per cassazione non solo deve fare esplicito riferimento alle regole legali d'interpretazione, mediante specifica indicazione delle norme asseritamente violate e dei principi in esse contenuti, ma è tenuto, altresì, a precisare in quale modo e con quali considerazioni il giudice del merito si sia discostato dai richiamati canoni legali in tal senso, Cass. 3467 del 2019, n. 13667 del 2018 . È pertanto inammissibile la censura che si limiti, come nel caso di specie, a prospettare una diversa interpretazione dell'atto, sollecitando un riesame del merito della causa non consentito alla Corte di legittimità. 5. Con il terzo motivo di ricorso è prospettata la violazione dell'art. 360, n. 3, in ragione di un'ulteriore violazione dell'art. 55-bis, del D.Lgs. n. 165 del 2001. Il lavoratore impugna la statuizione che ha escluso la violazione del termine a difesa minimo di venti giorni fatta valere in prime cure. Ricorda che nella prima fase, il Tribunale aveva escluso che detta violazione fosse idonea a legittimare la declaratoria di nullità del licenziamento per difetto di prova circa la sussistenza di un effettivo e concreto pregiudizio al proprio diritto di difesa, ma che in ragione degli argomenti prospettati in sede di reclamo la decisione avrebbe dovuto essere rivista, atteso che non aveva potuto esercitare compiutamente il diritto di accesso. 5.1. Il motivo non è fondato. Nel regolare il sistema difensivo incentrato sull'audizione dell'incolpato, l'art. 55-bis, secondo comma, quarto periodo, del D.Lgs. n. 165 del 2001, prevede che in caso di differimento superiore a dieci giorni del termine a difesa per impedimento del dipendente il termine per la conclusione del procedimento è prorogato in misura corrispondente . Come affermato da questa Corte Cass., n. 17245 del 2016 , sia nel settore privato che nel settore pubblico, la sanzione della illegittimità del licenziamento in caso di violazione del termine posto per le difese del lavoratore viene sempre collegata alla deduzione di un pregiudizio subito nell'articolazione delle giustificazioni da fornire al datore di lavoro. Il pregiudizio determinato dal mancato rispetto del termine a difesa deve essere dedotto in concreto e non in via astratta. La Corte d'Appello ha affermato che tra la data di ricezione 17 febbraio 2015 della convocazione per la prima audizione del 24 febbraio 2015 e la seconda convocazione 10 marzo 2015 in cui si era dibattuta la vicenda in seguito al rinvio della prima convocazione, chiesto e ottenuto dall'An. risultava ampiamente rispettato il termine a difesa. Tale statuizione non è adeguatamente censurata dal ricorrente che, in particolare, svolge la censura relativa alla violazione del diritto di difesa facendo riferimento ad un accesso agli atti documentazione del fascicolo personale che tuttavia non è circostanziata quanto all'oggetto dell'accesso stesso, con la conseguenza che la mancanza di specificità e la genericità della deduzione non venendo precisata quale documentazione intendesse ottenere in funzione dell'esercizio del diritto di difesa non ne consente di apprezzarne la rilevanza, con conseguente inammissibilità della doglianza. 7. Con il quarto motivo di ricorso è dedotta ai sensi dell'art. 360, n. 3, cod. proc. civ., la violazione dell'art. 35 del d.lgs. n. 198 del 2006. Ricorda il lavoratore che il licenziamento è intervenuto entro l'anno dall'aver contratto matrimonio e che la presunzione di nullità del licenziamento irrogato in tale periodo, prevista a favore della lavoratrice, ma che doveva esser estesa anche al lavoratore uomo, doveva trovare applicazione nella fattispecie in esame, in quanto detta presunzione è superabile solo laddove il datore lavoro dia la prova della sussistenza delle specifiche ragioni di esclusione previste e, in particolare che sussista colpa grave del lavoratore riconducibile a giusta causa di licenziamento, mentre nella specie il lavoratore veniva licenziato per giustificato motivo soggettivo, atteso che veniva irrogato il licenziamento con preavviso. 8. Il motivo non è fondato. L'art. 35 del D.Lgs. 198 del 2006, prevede, tra l'altro, al comma 2, che sono nulli i licenziamenti attuati a causa di matrimonio. Al successivo comma 3 sancisce Salvo quanto previsto dal comma 5, si presume che il licenziamento della dipendente nel periodo intercorrente dal giorno della richiesta delle pubblicazioni di matrimonio, in quanto segua la celebrazione, a un anno dopo la celebrazione stessa, sia stato disposto per causa di matrimonio. Quindi al comma 5 stabilisce Al datore di lavoro è data facoltà di provare che il licenziamento della lavoratrice, avvenuto nel periodo di cui al comma 3, è stato effettuato non a causa di matrimonio, ma per una delle seguenti ipotesi a colpa grave da parte della lavoratrice, costituente giusta causa per la risoluzione del rapporto di lavoro Come già affermato da questa Corte Cass. 28926/18 la norma, non a caso inserita proprio nel codice di pari opportunità tra uomo e donna, deve essere letta, per una sua corretta comprensione, quale approdo della tutela costituzionale assicurata ai diritti della donna lavoratrice. La limitazione alle sole lavoratrici madri della nullità prevista dall'art. 35 del d.lgs. n. 198 del 2006 non ha natura discriminatoria, in quanto la diversità di trattamento non trova la sua giustificazione nel genere del soggetto che presta l'attività lavorativa, ma è coerente con la realtà sociale, che ha reso necessarie misure legislative volte a garantire alla donna la possibilità di coniugare il diritto al lavoro con la propria vita coniugale e familiare, ed è fondata su una pluralità di principi costituzionali posti a tutela dei diritti della donna lavoratrice. Non trovando applicazione la disposizione invocata, resta assorbito il profilo di censura relativo all'essere stato irrogato il licenziamento con preavviso. 9. Il ricorso deve essere rigettato. 10. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo. 11. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1-bis. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese di giudizio che liquida in Euro 5.000,00, per compensi professionali, Euro 200,00, per esborsi, oltre spese generali in misura del 15% e accessori di legge. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1-bis.