Permessi per assistere il padre che invece è operativo nella stessa azienda del figlio: licenziato

Entrambi gli uomini sono dipendenti di una municipalizzata e facilmente è emerso che il figlio ha usufruito di permessi per assistere il genitore, mentre però quest’ultimo risultava al lavoro. Evidente la gravità della violazione compiuta ai danni dell’azienda.

Linea dura contro l’abuso rappresentato dall’illegittimo utilizzo dei permessi previsti dalla legge 104 del 1992 per i lavoratori che debbono assistere una persona che presenta un grave handicap. Esemplare, a questo proposito, la decisione con cui è stato confermato il licenziamento di un dipendente di una ‘municipalizzata’ di Roma, beccato ad usufruire delle previste ore di permesso per assistere il padre che, invece, si trovava regolarmente in servizio, per giunta nella stessa azienda del figlio Cassazione, ordinanza n. 8310/19, sez. Lavoro, depositata oggi . Padre e figlio. A dare sostegno all’azienda hanno provveduto già Tribunale e Corte d’Appello, respingendo i ricorsi presentati dal lavoratore e ritenendone legittimo invece il licenziamento. Chiaro l’addebito mossi nei confronti dell’uomo indebita fruizione dei permessi concessigli alla luce della legge 104. Inequivocabile l’abuso da lui compiuto è emerso, difatti, che per ben sei volte egli ha utilizzato le ore a disposizione per finalità estranee all’assistenza del padre in condizione di handicap , poiché il genitore, dipendente della stessa azienda del figlio, nella fascia oraria oggetto dei ‘permessi’ si trovava in servizio . Peraltro, non è stata dedotta alcuna attività posta in essere dal lavoratore nell’interesse del padre durante la fruizione dei ‘permessi’ , hanno aggiunto i giudici di merito. Abuso. Le valutazioni compiute in primo e in secondo grado vengono ora condivise e fatte proprie anche dalla Cassazione, che difatti rende definitivo il licenziamento del lavoratore. Fondamentale è il richiamo alla ratio della legge 104 che attribuisce al dipendente, che assiste persona con handicap in situazione di gravità, il diritto di fruire di tre giorni di permesso mensile retribuito, coperto da contribuzione figurativa . Proprio alla luce di questo paletto, è necessario, osservano i giudici, che l’assenza dal lavoro si ponga in relazione diretta con l’esigenza per il cui soddisfacimento il diritto stesso è riconosciuto, ossia l’assistenza al disabile , assistenza che può essere prestata con modalità e forme diverse, anche attraverso lo svolgimento di incombenze amministrative, pratiche o di qualsiasi genere, purché nell’interesse del familiare assistito . Di conseguenza, il comportamento del prestatore di lavoro subordinato che non si avvalga del ‘permesso’ in coerenza con l’assistenza al familiare disabile rappresenta un abuso del diritto, in quanto priva il datore di lavoro della prestazione, in violazione dell’affidamento riposto nel dipendente, ed integra nei confronti dell’ente di previdenza un’indebita percezione dell’indennità ed uno sviamento dell’intervento assistenziale . Esattamente ciò che è avvenuto nella vicenda all’esame della Cassazione, poiché il dipendente della ‘municipalizzata’ ha chiesto e ottenuto alcuni ‘permessi’ per assistere il padre, che, invece, risultava essere regolarmente operativo in azienda, la stessa del figlio. A fronte di un comportamento così grave e dall’evidente disvalore sociale , e alla luce del danno subito dall’azienda, è assolutamente legittimo il licenziamento del lavoratore, concludono i giudici della Cassazione.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, ordinanza 6 febbraio – 25 marzo 2019, n. 8310 Presidente Balestrieri – Relatore Ponterio Rilevato che 1. con sentenza n. 455 pubblicata l'1.2.2018, la Corte d'appello di Roma ha respinto il reclamo proposto da Mo. Da. confermando la pronuncia di primo grado di rigetto della domanda volta alla declaratoria di illegittimità del licenziamento intimato da AMA - Azienda Municipale Ambiente s.p.a., il 4.11.2015 per indebita fruizione dei permessi concessi al dipendente ai sensi dell'art. 33, L. n. 104 del 1992 2. la Corte territoriale ha ritenuto, in base all'accertamento in fatto svolto in primo grado e non contestato dall'appellante, che per ben sei volte il sig. Mo. avesse utilizzato le ore di permesso di cui al citato art. 33 per finalità estranee all'assistenza del padre in condizione di handicap atteso che quest'ultimo, dipendente AMA al pari del figlio, nella fascia oraria oggetto dei permessi si trovava in servizio e che non era stata dedotta alcuna attività posta in essere nell'interesse del padre durante la fruizione dei permessi 3. la Corte d'appello ha giudicato proporzionata la sanzione espulsiva in ragione della lesione della buona fede e del forte disvalore sociale della condotta posta in essere 4. avverso tale sentenza il sig. Mo. ha proposto ricorso per cassazione, affidato a quattro motivi, cui ha resistito con controricorso AMA s.r.l. 5. il pubblico ministero ha depositato conclusioni scritte ed entrambe le parti hanno depositato memoria, ai sensi dell'art. 380 bis.1, c.p.c. Considerato che 6. col primo motivo di ricorso è censurata la sentenza per erronea attribuzione al sig. Mo. di fatti e comportamenti asseritamente abusivi, illeciti o illegittimi nonché per violazione e falsa applicazione dell'art. 33, L. n. 104 del 1992 in subordine, per difetto di prova e violazione e falsa applicazione dell'art. 2697 c.c. 7. col secondo motivo di ricorso è denunciata erronea valutazione della proporzionalità ed adeguatezza della sanzione espulsiva violazione e falsa applicazione dell'art. 2106 c.c. 8. col terzo motivo di ricorso si critica la sentenza per mancata ammissione delle prove articolate dal lavoratore ed omessa motivazione sul punto si deduce inoltre nullità della sentenza o del procedimento ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 4 c.p.c. 9. col quarto motivo si denuncia erronea riconduzione della fattispecie oggetto di causa all'art. 18, L. n. 300 del 1970 e successive modificazioni 10. il primo motivo di ricorso è infondato 11. la Corte d'appello si è uniformata alla giurisprudenza di questa Corte Cass. n. 17968 del 2016 n. 9217 del 2016 n. 8784 del 2015 che ha precisato come il permesso di cui all'art. 33, L. n. 104 del 1992 sia riconosciuto al lavoratore in ragione dell'assistenza al disabile e in relazione causale diretta con essa, senza che il dato testuale e la ratio della norma ne consentano l'utilizzo in funzione meramente compensativa delle energie impiegate dal dipendente per detta assistenza. Ne consegue che il comportamento del dipendente che si avvalga di tale beneficio per attendere ad esigenze diverse integra l'abuso del diritto e viola i principi di correttezza e buona fede, sia nei confronti del datore di lavoro che dell'Ente assicurativo, con rilevanza anche ai fini disciplinari 12. difatti, in base alla ratio dell'art. 33, comma 3, L. n. 104 del 1992, che attribuisce al lavoratore dipendente che assiste persona con handicap in situazione di gravità il diritto di fruire di tre giorni di permesso mensile retribuito, coperto da contribuzione figurativa, è necessario che l'assenza dal lavoro si ponga in relazione diretta con l'esigenza per il cui soddisfacimento il diritto stesso è riconosciuto, ossia l'assistenza al disabile questa può essere prestata con modalità e forme diverse, anche attraverso lo svolgimento di incombenze amministrative, pratiche o di qualsiasi genere, purché nell'interesse del familiare assistito cfr. Cass. Ord. n. 23891 del 2018 13. secondo l'orientamento di questa Corte per tutte Cass. n. 17968 del 2016 , il comportamento del prestatore di lavoro subordinato che non si avvalga del permesso previsto dal citato art. 33 in coerenza con la funzione dello stesso, l'assistenza del familiare disabile, integra un abuso del diritto in quanto priva il datore di lavoro della prestazione lavorativa in violazione dell'affidamento riposto nel dipendente ed integra, nei confronti dell'Ente di previdenza erogatore del trattamento economico, un'indebita percezione dell'indennità ed uno sviamento dell'intervento assistenziale 14. neppure è configurabile nel caso in esame la dedotta violazione dell'art. 2697 c.c. che, come più volte precisato da questa Corte Cass. n. 11892 del 2016 n. 25029 del 2015 n. 25216 del 2014 presuppone che si invertano gli oneri di prova 15. nel caso di specie, la Corte d'appello ha correttamente addossato al datore di lavoro l'onere di dimostrare l'assenza di nesso causale tra la fruizione dei permessi e l'assistenza al familiare disabile ha ritenuto assolto tale onere avendo la società dimostrato come, per ben sei volte, il familiare disabile dell'attuale ricorrente si trovasse, in coincidenza con la durata dei permessi, impegnato in attività lavorativa, senza che, peraltro, il lavoratore avesse dedotto quale attività avrebbe posto in essere in favore del padre durante il periodo di durata dei permessi in questione 16. non possono trovare ingresso in queste sede le censure, oggetto del primo e del terzo motivo di ricorso, che investono la ammissione e la valutazione delle prove 17. occorre considerare come trovi applicazione nella fattispecie in esame la previsione di cui all'art. 348 ter, comma 5, c.p.c, sulla cd. doppia conforme Cass. n. 4223 del 2016 n. 23021 del 2014 , trattandosi di giudizio di reclamo introdotto con ricorso depositato dopo il giorno 11 settembre 2012 e che, inoltre, le censure non sono neanche riconducibili allo schema di cui al nuovo art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c, come delineato dalle Sezioni Unite di questa Corte con la sentenza n. 8053 del 2014 18. parimenti infondato è il secondo motivo di ricorso 19. questa Corte Cass. n. 21214 del 2009 Cass. n. 8254 del 2004 ha ripetutamente affermato che la giusta causa di licenziamento, quale fatto che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto è una nozione che la legge - allo scopo di un adeguamento delle norme alla realtà da disciplinare, articolata e mutevole nel tempo - configura con una disposizione ascrivibile alla tipologia delle cd. clausole generali di limitato contenuto, delineante un modulo generico che richiede di essere specificato in sede interpretativa, mediante la valorizzazione sia di fattori esterni relativi alla coscienza generale, sia di principi che la stessa disposizione tacitamente richiama tali specificazioni del parametro normativo hanno natura giuridica, e la loro disapplicazione è quindi deducibile in sede di legittimità come violazione di legge, mentre l'accertamento della concreta ricorrenza, nel fatto dedotto in giudizio, degli elementi che integrano il parametro normativo e le sue specificazioni, e della loro concreta attitudine a costituire giusta causa di licenziamento, si pone sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al giudice di merito e incensurabile in Cassazione se privo di errori logici o giuridici 20. questa Corte ha analogamente precisato come l'operazione valutativa compiuta dal giudice di merito nell'applicare clausole generali come quella dell'art. 2119 c.c., che, in tema di licenziamento per giusta causa, detta una tipica norma elastica , non sfugge ad una verifica in sede di giudizio di legittimità, sotto il profilo della correttezza del metodo seguito nell'applicazione della clausola generale, poiché l'operatività in concreto di norme di tale tipo deve rispettare criteri e principi desumibili dall'ordinamento generale, a cominciare dai principi costituzionali, e dalla disciplina particolare anche collettiva in cui la concreta fattispecie si colloca cfr. Cass. n. 9266 del 2005 Cass. n. 5299 del 2000 21. è solo l'integrazione giurisprudenziale, a livello generale ed astratto, della nozione di giusta causa che si colloca sul piano normativo e consente una censura per violazione di legge mentre l'applicazione in concreto del più specifico canone integrativo, così ricostruito, rientra nella valutazione di fatto devoluta al giudice di merito e non è censurabile in sede di legittimità se non per vizio di motivazione, cfr. Cass. n. 18715 del 2016 n. 6901 del 2016 n. 21214 del 2009 n. 7838 del 2005 22. è stato altresì precisato come il giudizio di proporzionalità o adeguatezza della sanzione dell'illecito commesso - istituzionalmente rimesso al giudice di merito - si sostanzia nella valutazione di gravità dell'inadempimento imputato al lavoratore in relazione al concreto rapporto e a tutte le circostanze del caso, dovendo tenersi al riguardo in considerazione la circostanza che tale inadempimento deve essere valutato in senso accentuativo rispetto alla regola generale della non scarsa importanza di cui all'art. 1455 c.c., sicché l'irrogazione della massima sanzione disciplinare risulta giustificata soltanto in presenza di un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali L. n. 604 del 1966, art. 3 ovvero addirittura tale da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto art. 2119 c.c. , cfr. Cass. 18715 del 2016 Cass. n. 21965 del 2007 Cass., n. 25743 del 2007 23. la sentenza impugnata si è attenuta ai principi sopra richiamati ed ha motivatamente valutato la gravità dell'infrazione, in particolare sottolineando la lesione della buona fede, per avere il lavoratore ingiustamente privato il datore della prestazione per finalità diverse dal diritto di assistenza al familiare disabile, e il disvalore sociale di tale condotta rispetto all'importanza dei beni sottostanti al riconoscimento del diritto ai permessi di cui al citato art. 33, L. n. 104 del 1992 24. le critiche mosse dal ricorrente, dirette a proporre un diverso apprezzamento dei dati fattuali facendo leva sull'assenza di frode nella condotta posta in essere, rimangono confinate nell'ambito del merito e non vanno al di là della deduzione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata, il cui esame è nella specie precluso in ragione della disciplina cd. della doppia conforme, di cui all'art. 348 ter, comma quinto, c.p.c. e, comunque, per difetto dei requisiti richiesti dal nuovo testo dell'art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c. 25. l'infondatezza dei primi tre motivi di ricorso porta a ritenere assorbito il quarto motivo, sul tipo di sanzione applicabile ove sia dichiarata l'illegittimità del licenziamento 26. per le considerazioni svolte il ricorso deve essere respinto 27. la regolazione delle spese del giudizio di legittimità segue il criterio di soccombenza, con liquidazione come in dispositivo 28. si dà atto della sussistenza dei presupposti di cui all'art. 13, comma 1 quater, del D.P.R. 30 maggio 2002 n. 115, introdotto dall'art. 1, comma 17, della L. 24 dicembre 2012 n. 228. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 4.000,00 per compensi professionali, in Euro 200,00 per esborsi, oltre spese forfettarie al 15% e accessori di legge. Ai sensi dell'art. 13, comma 1 quater, del D.P.R. 30 maggio 2002 n. 115, introdotto dall'art. 1, comma 17, della L. 24 dicembre 2012 n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis del medesimo art. 13.