Non si estende agli uomini la nullità del licenziamento a causa di matrimonio

La tutela contro i licenziamenti per causa di matrimonio, prevista dall'art. 35 d.lgs. 11 aprile 2006 n. 198, che ha sostituito l’art. 1 della legge 9 gennaio 1963 n. 7, introduce una presunzione di nullità posta a favore della lavoratrice corrispondente ai fini costituzionali di tutela del lavoro e della famiglia. Tale disciplina, presentando un'identità di ratio rispetto a quella dettata in materia di tutela della lavoratrice madre, è applicabile soltanto alle donne lavoratrici, non anche agli uomini, perché essenzialmente rivolta ad evitare che il datore di lavoro sia indotto a risolvere il rapporto in considerazione dei costi e delle disfunzioni conseguenti alle assenze per l'eventuale maternità.

Così stabilito dalla Corte di Cassazione sezione lavoro con ordinanza n. 31824/18, pubblicata il 10 dicembre. Il caso deciso. Un lavoratore impugnava il licenziamento intimatogli, invocando la normativa di cui all’art. 35 d.lgs. n. 198/2006, che prevede la nullità del licenziamento intimato nel periodo temporale tra le pubblicazioni di matrimonio fino all’anno dalla sua celebrazione. L’impugnazione veniva rigettata sia in primo che in secondo grado. Ricorreva così in Cassazione il lavoratore. La nullità del licenziamento a causa di matrimonio. Il lavoratore ricorrente prospetta una tesi secondo cui la legislazione posta a tutela delle lavoratrici, in base alla quale è considerato nullo il licenziamento intimato in prossimità del matrimonio, debba estendersi anche ai lavoratori maschi, in quanto tale interpretazione consentirebbe di applicare pienamente la disciplina comunitaria volta a rimuovere qualsiasi situazione di disparità tra i sessi. La Suprema Corte non ritiene fondata la tesi prospettata. Le norme richiamate dal ricorrente sono poste a tutela della donna, in osservanza al principio di cui all’articolo 37 della Costituzione. In materia si era pronunciata la Corte Costituzionale sentenza n. 200/1983 , affermando che i fini perseguiti dal legislatore con l’art. 1 della legge n. 7 del 9 gennaio 1963, poi sostituito dall’art. 35 d.lgs. n. 198/2006, erano quelli di tutelare le lavoratrici che contraggono matrimonio, limitando di conseguenza il potere del datore di lavoro di recedere dal rapporto. Tale tutela accordata alle lavoratrici che contraggono matrimonio trova legittimo fondamento in una pluralità di principi costituzionali che concorrono a giustificare misure legislative atte a perseguire lo scopo di sollevare la donna dal dilemma di dover sacrificare il posto di lavoro per salvaguardare la propria libertà di dar vita ad una nuova famiglia o, viceversa, di dover rinunziare a questo fondamentale diritto per evitare la disoccupazione. Precisamente la Consulta richiama gli artt. 2, 3, 31 e 37 della Costituzione. Anche la legislazione comunitaria conforta l’interpretazione sopra richiamata. Si richiama l’articolo 19 del T.F.U.E. che prevede l’emanazione di provvedimenti legislativi per combattere la discriminazione e l’articolo 157 del T.F.U.E. che dispone che non osta a che uno Stato membro mantenga o adotti misure che prevedano vantaggi specifici diretti a facilitare l’esercizio di attività professionale da parte del sesso sottorappresentato o evitare svantaggi nelle carriere professionali. La tutela invocata applicabile solo alle lavoratrici. Da tutto ciò deriva che nessuna discriminazione possa rinvenirsi nel fatto che i lavoratori di sesso maschile siano esclusi dalla tutela sopra esaminata di nullità di licenziamento in costanza di matrimonio. Non sono infatti ravvisabili nei confronti dei maschi quelle esigenze di tutela e protezione naturalmente correlate al sesso femminile prima fra tutte la tutela della maternità e puerperio. Disposizioni dunque miranti a garantire le pari opportunità della donna in ambito lavorativo, integranti tutela di genere, perché finalizzate ad evitare discriminazioni connesse a situazioni di fatto. La Corte territoriale, così come il giudice di primo grado, con sentenza immune da vizi logici ha correttamente interpretato ed applicato la normativa richiamata dal lavoratore ricorrente, escludendo l’estensione della tutela invocata al soggetto lavoratore di sesso maschile. Il ricorso proposto è stato dunque ritenuto infondato e rigettato.

Corte di Cassazione, sez. VI Civile – L, ordinanza 11 settembre – 10 dicembre 2018, n. 31824 Presidente Doronzo – Relatore Esposito Rilevato in fatto che la Corte di Appello di Reggio Calabria, decidendo in sede di reclamo ex legge 92/2012, respingeva l’impugnazione avanzata da O.R. nei confronti della sentenza che aveva rigettato l’opposizione da lui proposta avverso il licenziamento comunicatogli il 14 marzo 2015 che la Corte territoriale disattendeva la tesi del lavoratore secondo la quale l’art. 35 D. Ivo 198 del 2006 - che prevede in relazione alle lavoratrici la presunzione di collegamento causale al matrimonio, e la conseguente nullità, del licenziamento intimato entro un anno dal matrimonio stesso - deve ritenersi applicabile, in base ad una interpretazione adeguatrice, anche ai lavoratori di sesso maschile. Osservava al riguardo che la norma in questione era giustificata dalla necessità di rimuovere situazioni di oggettiva disparità e, pertanto, era in perfetta armonia con la disciplina comunitaria, richiamando l’art. 1, comma 3 D.l.vo n. 5 del 2010, che, dopo aver posto il divieto di qualsiasi discriminazione fondata sul sesso per quanto riguarda l’accesso al lavoro, al terzo comma fa salve le misure che prevedano vantaggi specifici a favore del sesso sottorappresentato”. Rilevava, altresì, che la disposizione è posta a tutela della categoria debole e giustificata in ragione dello svantaggio derivante per la donna dagli oneri familiari sulla stessa gravanti a seguito del matrimonio che avverso la sentenza ha proposto ricorso per cassazione O. sulla base di due motivi che la controparte si è costituita con controricorso che la proposta del relatore, ai sensi dell’art. 380-bis cod. procomma civ., è stata comunicata alle parti, unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza in camera di consiglio non partecipata che entrambe le parti hanno depositato memorie. Considerato in diritto che il ricorrente deduce, ex art. 360 punto 3 cod. procomma civ., violazione dell’art. 35 l. 198/2006 comma 2 in riferimento all’art. 1 l. 903 del 1977 e all’art. 3 come sostituito dall’art. 3 comma 1 lett. A D.lvo n. 5 del 2010 e per l’applicazione dell’art. 18 l. 300 del 20 maggio 1970, come integrato e modificato ex art. 1 l. 92/2012 che, con un primo rilievo, osserva che le argomentazioni svolte dalla Corte d’appello non si conciliano con una adeguata interpretazione sistematica delle disposizioni che regolamentano la materia, posto che la proposta applicazione anche al lavoratore delle tutele approntate a favore della lavoratrice non apporta alcuna riduzione di queste ultime ma ne determina l’estensione all’altro sesso e che, ove si consentisse il licenziamento del coniuge lavoratore-uomo, verrebbe ad essere allo stesso modo pregiudicata la finalità cui la norma è preordinata, facendo mancare una fonte essenziale di reddito alla famiglia che con il secondo rilievo si evidenzia che la Corte territoriale, nel rigettare le doglianze attinenti al mancato rispetto della disciplina comunitaria, non aveva tenuto conto che residua l’integrale validità del disposto normativo di diritto interno e di legislazione dell’Unione che non tollera la persistenza di disposizioni che istituiscono diritti e potestà privilegiati fondati esclusivamente sul genere sessuale, sia in ipotesi che versino a favore dell’uomo che a tutela specifica della donna, talché si appalesa inconferente il richiamo della Corte alla deroga dell’art. 157 comma 4 TFUE, poiché l’estensione al lavoratore uomo della tutela risolutoria nella annualità matrimoniale non solo non va a minare le preoccupazioni di tutela della donna lavoratrice quale soggetto debole” ma ne costituisce un rafforzativo che va preliminarmente disattesa l’eccezione di inammissibilità ex art. 365 c.p.comma formulata nel controricorso per essere il ricorso per cassazione sottoscritto da un avvocato non abilitato al patrocinio dinanzi alle magistrature superiori. Il difensore del ricorrente avvocato Francesco Firriolo, con studio a - risulta, infatti, iscritto nell’albo dei cassazionisti sulla base della documentazione prodotta e i relativi dati corrispondono alle indicazioni contenute nel ricorso che, in ordine alle censure svolte, va rimarcato che, secondo il consolidato orientamento di questa Corte, la violazione dei divieto di cui all’art. 35 del D.Lgs. 11 aprile 2006, n. 198, che ha sostituito l’art. 1 della L. 9 gennaio 1963, n. 7, integra un’ipotesi di nullità per contrarietà a norme imperative poste a tutela della donna, in osservanza del principio di cui all’art. 37 Cost. Cass. n. 18325 del 19/09/2016 che in proposito la Corte Costituzionale C. Cost. n. 27 del 1969 e, sostanzialmente conforme, C. Cost. n. 200 del 1983 , nel valutare i fini perseguiti dal legislatore del 1963, allo scopo di accertare se essi giustificano il trattamento di favore fatto dalla legge alle lavoratrici che contraggono matrimonio e la conseguente limitazione del potere del datore di lavoro di recedere dal rapporto, si è così espressa la tutela accordata alle lavoratrici che contraggono matrimonio trova legittimo fondamento in una pluralità di principi costituzionali che concorrono a giustificare misure legislative che, in definitiva, perseguono lo scopo di sollevare la donna dai dilemma di dover sacrificare il posto di lavoro per salvaguardare la propria libertà di dar vita ad una nuova famiglia o, viceversa, di dover rinunziare a questo suo fondamentale diritto per evitare la disoccupazione”. Il riferimento, ha precisato la Corte, è all’art. 2, che garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, fra i quali non può non essere compresa la libertà di contrarre matrimonio all’art. 3, secondo comma, che impone di rimuovere ogni ostacolo, anche di fatto, che impedisca il pieno sviluppo della persona umana all’art. 31, che affida alla Repubblica il compito di agevolare la formazione della famiglia e, quindi, di intervenire là dove questa sia anche indirettamente ostacolata all’art. 37, che stabilendo che le condizioni di lavoro devono consentire alla donna l’adempimento della sua funzione familiare non può non presupporre, in primo luogo, che le sia assicurata la libertà di diventare sposa e madre”. La Corte Costituzionale ha sottolineato, altresì, che il legislatore può ben stabilire, nell’esercizio della sua valutazione politica, un regime preferenziale di garanzia di conservazione del lavoro in favore di determinate categorie tutte le volte in cui sussistano motivi che lo giustifichino e nel caso in esame la legge è sorretta da ragioni che trovano valido riscontro nella realtà sociale e nella Costituzione”. Il principio risulta, poi, ribadito dal tenore dell’art. l’art. 1, comma 3 D.I.vo n. 5 del 2010 che, d’altra parte, la tutela della lavoratrice prevista dall’art. 35 del D.Lgs. 11 aprile 2006, n. 198 è correlata a quella disposta dal primo comma dell’art. 2 l. 30 dicembre 1971, n. 1204, per il caso di licenziamento intimato in violazione del divieto temporale stabilito in ipotesi di gravidanza o puerperio, traendo quest’ultima dalla prima consistenza ed effettività che deve rilevarsi, altresì, che l’art. 35 del D.Lgs. 11 aprile 2006, n. 198, nell’interpretazione offerta dalla Corte territoriale, è in armonia con la legislazione comunitaria, dal momento che l’art. 19 TFUE prevede l’emanazione di provvedimenti legislativi per combattere la discriminazione e che l’art. 157 TFUE, all’ultimo comma, dispone allo scopo di assicurare l’effettiva e completa parità tra uomini e donne nella vita lavorativa, il principio della parità di trattamento non osta a che uno Stato membro mantenga o adotti misure che prevedano vantaggi specifici diretti a facilitare l’esercizio di un’attività professionale da parte del sesso sottorappresentato ovvero a evitare o compensare svantaggi nelle carriere professionali” che, di conseguenza, alla luce dei principi costituzionali e di diritto dell’Unione, nessuna discriminazione può ravvisarsi nell’esclusione dei lavoratori di sesso maschile fatta palese dal tenore testuale della norma in disamina dalla tutela prevista dalla richiamata disciplina, non essendo ravvisabili rispetto ad essi le medesime esigenze di protezione di genere prime tra tutte quelle correlate alla maternità ed al puerperio, cioè alle funzioni biologiche proprie della donna , talché i rilievi evidenziati in ricorso, anche avuto riguardo alla assai più limitata tutela approntata dall’ordinamento al genitore lavoratore dell’altro sesso, risultano dissonanti con la ratio alla base del complesso delle disposizioni miranti a garantire le pari opportunità della donna in ambito lavorativo, integranti tutela di genere perché finalizzate ad evitare discriminazioni connesse a situazioni di fatto che in base alle svolte argomentazioni il ricorso rigettato, con liquidazione delle spese secondo soccombenza e distrazione in favore del difensore anticipatario della controricorrente che ne ha fatto richiesta. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in complessivi Euro 3.000,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali nella misura del 15 0/0 e accessori di legge, con distrazione in favore del difensore anticipatario della controricorrente. Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del D.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.