Rilevabile d’ufficio l’eccezione di aliunde perceptum nel giudizio di appello

Il concetto di aliunde perceptum non costituendo oggetto di eccezione in senso stretto è rilevabile d’ufficio dal giudice se le relative circostanze di fatto risultano ritualmente acquisite al processo, anche se per iniziativa del lavoratore . Inoltre, il diritto alla retribuzione è ridotto se emerge che il lavoratore abbia percepito altri compensi per prestazioni svolte nel periodo considerato.

Così ribadito dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 30544/18, depositata il 26 novembre. La vicenda. Una dipendente di Poste italiane S.p.a. si rivolgeva al Tribunale territoriale per accertare il corrispettivo diritto di essere rimessa in servizio. Domanda che veniva accolta in primo grado ma parzialmente riformata dalla Corte d’Appello, la quale riteneva che non sussistesse una rinuncia tacita al rapporto di lavoro anteriormente all’offerta della prestazione nei confronti del datore di lavoro, stanti le diffide inviate dalla dipendete con le quali chiedeva di essere reintegrata al lavoro. La Corte del riesame ha poi accolto il motivo svolto da Poste italiane riferito al riconoscimento dell’ aliunde perceptum desumibile dai redditi del lavoratore emergenti dal CUD prodotto in giudizio. Il dipendente ricorre in Cassazione sostenendo che l’eccezione di aliunde perceptum , essendo rilevabile, nel caso in esame, d’ufficio anche dal giudice del primo grado, doveva precludersi nel giudizio d’appello e avendo inoltre la società opposto il rifiuto di servirsi delle energie lavorative sarebbe sorto un diritto della lavoratrice alla retribuzione. La rilevabilità dell’ aliunde perceptum. Gli Ermellini in riferimento al aliunde perceptum , sottolinano che non costituisce oggetto di eccezione in senso stretto ed è, pertanto, rilevabile d’ufficio dal giudice se le relative circostanze di fatto risultano ritualmente acquisite al processo, anche se per iniziativa del lavoratore . La stessa Corte circa il riconoscimento del diritto alla retribuzione ribadisce l’esclusione dell’automatica equivalenza del risarcimento ai compensi retributivi perduti, poiché tale automatismo è da escludere ove si accerti che il danno del lavoratore è ridotto in misura corrispondente ad altri compensi percepiti per prestazioni svolte – nel periodo contestato – presso altri datori . Nel caso in esame non poteva trattarsi di tardività dell’eccezione di aliunde perceptum poiché già dal primo grado emergeva che il danno del lavoratore doveva essere ridotto in misura corrispondente ad altri compensi percepiti, né poteva configurarsi un inadempimento del datore di lavoro poiché non era rilevabile un rifiuto – illegittimo dello stesso a ricevere la prestazione lavorativa dunque la Suprema Corte rigetta il ricorso.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 6 aprile – 26 novembre 2018, numero 30544 Presidente Bronzini – Relatore Curcio Svolgimento del processo Con sentenza del 2.10.2012 la corte d’Appello di Ancona ha parzialmente riformato la sentenza del tribunale di Ancona, confermando la condanna di Poste Italiane spa al pagamento in favore di T.R. di retribuzioni maturate a far tempo dal 27.5.2010, ma deducendo quanto percepito aliunde da tale data. In particolare la corte ha confermato la sentenza di primo grado nella parte in cui aveva accertato il diritto della T. di essere riammessa in servizio con inquadramento nell’area operativa del CCNL del settore dopo che, con sentenza numero 16597/2009 della Cassazione, passata in giudicato, la lavoratrice aveva conseguito il definitivo accertamento del suo diritto di essere riammessa in servizio a far tempo dal 1.3.88 e con pagamento delle retribuzioni maturate dalla data di messa in mora, ciò a seguito dell’annullamento del decreto in data 23.3.1988 che aveva pronunciato la decadenza dal servizio. La corte di merito ha ritenuto che non sussistesse una rinuncia tacita al rapporto di lavoro anteriormente all’offerta della prestazione nei confronti di Poste spa, stanti le diffide inviate dalla T. alla società a riprenderla al lavoro, ma ha poi ha accolto il motivo svolto da Poste relativo al riconoscimento dell’aliunde perceptum, desumibile dai redditi da lavoro percepiti medio tempore e ricavabili dai CUD prodotti in giudizio. Avverso la sentenza ha proposto ricorso per cassazione T.R. affidato a due motivi, a cui ha resistito Poste Italiane con controricorso. È stata depositata nota difensiva ex articolo 378 dalla ricorrente. Motivi della decisione Con il primo motivo di gravame la ricorrente deduce la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., oltre che gli artt. 421 e 437 c.p.c. per avere la corte territoriale accolto le istanze istruttorie di Poste italiane spa, svolte solo in grado di appello ed aventi ad oggetto l’eccezione di aliunde perceptum, sul presupposto che non si tratterebbe di eccezione in senso stretto, quindi anche rilevabile d’ufficio, mentre sarebbe onere del datore di lavoro di provare tale aliunde perceptum. Avrebbe quindi errato la corte nel non rilevare che Poste aveva omesso completamente di formulare in primo grado qualsiasi prova volta a dimostrare la percezione di altri redditi, così precludendosi di richiedere in appello prove in tal senso, stante il divieto di cui all’articolo 437 c.p.c. di ammissione di nuovi mezzi di prova. Con il secondo motivo di appello si deduce la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1206, 1208, 1217 e 2094 c.c. in materia di mora accipiendi in nessun caso l’aliunde perceptum avrebbe dovuto essere valutato dalla corte di merito avendo chiesto la dipendente il pagamento di retribuzioni a lei spettanti ed avendo la società opposto il rifiuto di servirsi delle sue energie lavorative, nonostante l’avvenuta formale offerta con raccomandata del 25.5.2010. Di fronte al rifiuto del datore di lavoro di ricevere la prestazione sarebbe sorto un diritto della lavoratrice alla retribuzione, a prescindere dal fatto che dal mancato pagamento sia derivato un danno. Si sarebbe infatti in presenza di un obbligo retributivo del datore di lavoro messo in mora dal lavoratore che offre la propria prestazione, non di un obbligo risarcitorio. Il ricorso non merita accoglimento, perché infondato. Il cosiddetto aliunde perceptum non costituisce oggetto di eccezione in senso stretto ed è, pertanto, rilevabile d’ufficio dal giudice se le relative circostanze di fatto risultano ritualmente acquisite al processo, anche se per iniziativa del lavoratore. Nel caso in esame non può parlarsi di tardività dell’eccezione perché sollevata solo in grado di appello, la sentenza impugnata avendo dato atto che la società aveva comunque eccepito in primo grado - pag 12 della memoria - che l’eventuale condanna doveva tener conto che il danno del lavoratore doveva essere ridotto in misura corrispondente ad altri compensi percepiti . Deve quindi escludersi che vi sia stata una tardività dell’allegazione, ad istanza dello stesso datore di lavoro, delle circostanze attestanti l’aliunde perceptum nel primo atto difensivo. Infondata è poi anche la seconda censura. La fattispecie oggetto di causa - in cui a fronte dell’accertata sussistenza del rapporto di lavoro non viene prestata l’attività lavorativa per colpa del datore di lavoro - non differisce da quella più volte esaminata da questa Corte relativa all’ipotesi di trasformazione, per effetto dell’accertata illegittimità dell’apposizione del termine, in un unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato di uno o più contratti a termine intercosi tra le parti. In entrambe le ipotesi non può conseguire il diritto del lavoratore alla retribuzione nel periodo non lavorato sia pure in ragione dell’inadempimento datoriale, mancando una deroga al principio generale secondo cui la maturazione del diritto alla retribuzione presuppone l’effettività della prestazione lavorativa, così che il lavoratore che cessi la prestazione per inadempimento del datore di lavoro - come di fatto verificatosi anche nel caso di specie - ha diritto al risarcimento del danno subito a causa dell’impossibilità della prestazione derivante dall’ingiustificato rifiuto del datore di lavoro di riceverla, sempre che il datore stesso sia stato posto in una condizione di mora accipiendi , senza, peraltro, che si configuri l’automatica equivalenza del risarcimento ai compensi retributivi perduti, poiché tale automatismo è da escludersi ove si accerti che il danno del lavoratore derivante dalla perdita della retribuzione si è ridotto in misura corrispondente ad altri compensi percepiti c.d. aliunde perceptum per prestazioni lavorative svolte - nel periodo considerato - presso altri datori di lavoro. cfr Cass. numero 4677/2006, Cass. numero 9464/2009 . Correttamente quindi la corte d’Appello ha disposto l’acquisizione dei modelli CUD della P. , relativi al periodo successivo alla messa in mora della datrice di lavoro avvenuta con comunicazione del 27.5.2010, riducendo la condanna in relazione alle somme dei diversi redditi percepiti da tale data. Il ricorso va pertanto respinto, con condanna della ricorrente, soccombente, alla rifusione delle spese del presente giudizio, liquidate come da dispositivo, seguendo altresì l’obbligo del pagamento del contributo unificato, ai sensi dell’articolo 13 DPR numero 115/2002. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese di lite del presente giudizio che liquida in Euro 200,00 per esborsi, Euro 3500,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge. Ai sensi del D.P.R. numero 115 del 2002, articolo 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1- bis dello stesso articolo 13.