La Suprema Corte fa chiarezza in merito al termine di decadenza di 60 giorni a seguito del tentativo di conciliazione

In ipotesi di impugnazione di licenziamento, ove l’impugnazione stragiudiziale venga seguita dalla richiesta di tentativo di conciliazione, il successivo termine decadenziale di 60 giorni per il deposito del ricorso nella cancelleria del Tribunale, trova applicazione al solo caso di mancata effettuazione della procedura conciliativa per rifiuto della stessa o mancato accordo al suo espletamento. In tal caso non potrà viceversa essere invocato il diverso ulteriore termine sospensivo di 20 giorni previsto dall’art. 410, comma 2, c.p.c., poiché riferito alla diversa fattispecie di tentativo di conciliazione effettivamente espletato, pur con esito negativo

Così deciso dalla Corte di Cassazione sezione lavoro con la sentenza n. 27948/18 depositata il 31 ottobre. Il caso. Un lavoratore, dopo aver impugnato stragiudizialmente il licenziamento intimatogli, inviava comunicazione di richiesta di tentativo di conciliazione nel rispetto del termine decadenziale di 180 giorni, previsto dall’art. 6 l. n. 604/1966. Il datore di lavoro a sua volta riscontrava la richiesta, comunicando che non intendeva sottoporre la questione alla procedura conciliativa di cui all’art. 410 c.p.c.”. Il lavoratore a questo punto adiva il Tribunale procedimento legge n. 92 del 2012 , che tuttavia rigettava il ricorso, per intervenuta decadenza, stante il mancato rispetto del termine di 60 giorni previsto dal medesimo art. 6. Proposto reclamo, la Corte di merito confermava la decisione di primo grado, ribadendo l’intervenuta decadenza. Avverso tale pronuncia ha proposto ricorso per cassazione il lavoratore. Il procedimento di impugnazione di licenziamento ex art. 6 l. n. 604/1966. I giudici di merito hanno ritenuto intempestivo il ricorso proposto dal lavoratore, per intervenuta decadenza dal termine di 60 giorni decorrenti dal rifiuto del procedimento di conciliazione richiesto dal lavoratore. Per meglio comprendere la vicenda esaminata, analizziamo la scansione temporale dei vari atti. Il licenziamento intimato in data 13 dicembre 2013 venne tempestivamente impugnato con missiva del 29 gennaio 2014. Nel rispetto del successivo termine di 180 giorni, il lavoratore inviava comunicazione di richiesta di tentativo di conciliazione il 18 luglio 2014 e a sua volta il datore di lavoro comunicava con missiva del 30 luglio 2014 il suo rifiuto ad aderire al tentativo di conciliazione. Il lavoratore infine depositava in data 30 settembre 2014 il ricorso giudiziale oltre dunque i 60 giorni, scadenti il 28 settembre 2014 domenica e così il 29 settembre. Il termine di decadenza di 60 giorni per il deposito del ricorso. Sostiene il ricorrente che la corte d’appello, così come il giudice di primo grado, abbia errato nel ritenere decaduto il termine di 60 giorni previsto dalla norma sopra citata. Ciò in quanto deve essere considerato l’ulteriore termine di 20 giorni di sospensione, decorrenti dal rifiuto alla procedura conciliativa. Da ciò dunque la tempestività del ricorso. Ma la Corte di legittimità non ritiene fondato l’assunto. In merito occorre tenere distinte le due possibili ipotesi l’una che riguarda il tentativo di conciliazione promosso, cui aderiva la controparte, effettivamente espletato ma conclusosi con esito negativo di mancato accordo. In questo caso, afferma il Supremo Collegio, non opera il termine decadenziale di 60 giorni, ma permane quello originario di 180 giorni dalla impugnazione stragiudiziale, con applicazione della sospensione del termine per tutta la durata della procedura conciliativa e per i 20 giorni successivi alla sua conclusione, secondo il disposto dell’art. 410, comma 2, c.p.c A tal proposito la Corte richiama una precedente decisione in materia della medesima sezione lavoro, 1 giugno 2018 n. 14108, ove viene affermato tale principio. L’altra ipotesi, che si verifica qualora alla richiesta di conciliazione la controparte non aderisca, opponendo il suo rifiuto o rimanendo in silenzio e impedendo così alla Commissione di attivare la procedura, per mancato accordo al suo espletamento. Questa seconda ipotesi è quella che riguarda la controversia decisa. Fattispecie a cui dovrà trovare applicazione non la sospensione dell’originario termine di 180 giorni, ma il diverso ulteriore termine di 60 giorni. Senza possibilità di applicazione a quest’ultimo, di ulteriori ipotesi di sospensione o proroga. E dunque, affermano gli Ermellini, il motivo di censura proposto dal ricorrente non è fondato, poiché vorrebbe l’applicazione di un termine sospensivo non applicabile alla fattispecie concreta. Conseguentemente il ricorso giudiziale viene ad essere effettivamente intempestivo, per il mancato rispetto del predetto termine decadenziale di 60 giorni. Corretta dunque la sentenza impugnata, con conseguente infondatezza del ricorso proposto che è stato così rigettato.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 29 maggio – 31 ottobre 2018, n. 27948 Presidente Di Cerbo – Relatore Amendola Fatti di causa 1. La Corte di Appello di Milano, con sentenza del 26 febbraio 2016, ha confermato la pronuncia di primo grado che, all’esito del procedimento ex lege n. 92 del 2012, aveva accertato la decadenza di cui all’art. 6 l. n. 604 del 1966, come modificato dalla l. n. 183 del 2010, di T.R. dall’impugnativa del licenziamento a lui intimato in data 13.12.2013 dalla Alcon Italia Spa, per non aver depositato il ricorso giudiziale entro il termine di 60 giorni dal rifiuto dell’azienda della richiesta di tentativo di conciliazione. La Corte territoriale ha respinto il reclamo con cui la difesa del T. sosteneva che, per effetto della combinata applicazione di quanto previsto dal citato art. 6 e dall’art. 410, co. 2, c.p.c., il termine entro cui depositare il ricorso giudiziale a fronte del rifiuto del datore di conciliare è di 80 giorni 20+60 ha inoltre compensato le spese del grado stante la novità delle questioni e la complessità delle stesse . 2. Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso il lavoratore con 3 motivi. Ha resistito la società con controricorso, contenente ricorso incidentale affidato a due motivi. Entrambe le parti hanno depositato memorie ex art. 378 c.p.c Ragioni della decisione 1. Con il primo motivo del ricorso principale del T. si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 410, co. 2, c.p.c., come sostituito dall’art. 31, co. 1, l. n. 183 del 2010, in relazione all’art. 6, co. 2, l. n. 604 del 1966, come sostituito dall’art. 32, co. 2, l. n. 183 del 2010 . Si deduce che, contrariamente a quanto affermato dai giudici del merito, il termine di decadenza di sessanta giorni dal rifiuto o dal mancato accordo di cui all’art. 6, co. 2, ultima parte, l. n. 604 del 1966, sarebbe sospeso per venti giorni a mente dell’art. 410, co. 2, c.p.c., sì che il ricorso giudiziale depositato in cancelleria entro l’ottantesimo giorno dal rifiuto avrebbe impedito il consumarsi della decadenza. Il Collegio giudica il motivo non meritevole di accoglimento. 1.1. Pacifici i dati della sequenza temporale rilevanti ai fini del decidere. Il licenziamento è del 13 dicembre 2013. È stato stragiudizialmente impugnato il 29 gennaio 2014. Entro il termine di 180 giorni l’avvocato del lavoratore ha inoltrato il tentativo di conciliazione pervenuto alla società in data 18 luglio 2014. Con nota di risposta anticipata via fax e comunque pervenuta a detto avvocato in data 30 luglio 2014 la società ha comunicato non riteniamo di dover sottoporre la questione alla procedura conciliativa di cui all’art. 410 c.p.c. . Nota interpretata dai giudici di merito come rifiuto di conciliazione ai fini della decorrenza del termine di decadenza per la proposizione del ricorso giudiziale. Il ricorso giudiziale è stato depositato in data 30 settembre 2014. 1.2. Opportuno rammentare in diritto il testo pro tempore vigente dell’art. 6 della l. n. 604 del 1966, come sostituito dall’art. 32, co. 1, l. n. 183 del 2010, che commina la decadenza di cui si discute 1. Il licenziamento deve essere impugnato a pena di decadenza entro sessanta giorni dalla ricezione della sua comunicazione in forma scritta, ovvero dalla comunicazione, anch’essa in forma scritta, dei motivi, ove non contestuale, con qualsiasi atto scritto, anche extragiudiziale, idoneo a rendere nota la volontà del lavoratore anche attraverso l’intervento dell’organizzazione sindacale diretto ad impugnare il licenziamento stesso. 2. L’impugnazione è inefficace se non è seguita, entro il successivo termine di centottanta giorni, dal deposito del ricorso nella cancelleria del tribunale in funzione di giudice del lavoro o dalla comunicazione alla controparte della richiesta di tentativo di conciliazione o arbitrato, ferma restando la possibilità di produrre nuovi documenti formatisi dopo il deposito del ricorso. Qualora la conciliazione o l’arbitrato richiesti siano rifiutati o non sia raggiunto l’accordo necessario al relativo espletamento, il ricorso al giudice deve essere depositato a pena di decadenza entro sessanta giorni dal rifiuto o dal mancato accordo . 1.3. Come è stato rilevato Cass. n. 22824 del 2015 , la norma, nel modificare l’art. 6 della l. n. 604 del 1966, ha sostanzialmente creato una nuova fattispecie decadenziale, costruita su una serie successiva di oneri di impugnazione strutturalmente concatenati tra loro e da adempiere entro tempi ristretti. L’ipotesi ordinaria - stante la facoltatività del tentativo di conciliazione - è quella del lavoratore che, dopo aver comunicato al datore di lavoro l’atto di impugnativa del licenziamento, proponga direttamente il ricorso al giudice in tal caso, deve rispettare il suddetto termine di 180 giorni. Ma il lavoratore può liberamente scegliere di percorrere un’altra strada per impedire l’inefficacia dell’impugnazione stragiudiziale, alternativa alla prima. Può far seguire detta impugnazione, sempre entro il termine di 180 giorni, dalla comunicazione alla controparte della richiesta di tentativo di conciliazione o arbitrato v. Cass. n. 17253 del 2016, secondo cui la comunicazione della richiesta alla controparte può realizzare il suo effetto anche se inviata a mezzo fax . In tal caso, però, il lavoratore soggiace ad un ulteriore incombente in caso di esito negativo del componimento stragiudiziale deve depositare il ricorso al giudice a pena di decadenza entra sessanta giorni dal rifiuto o dal mancato raggiungimento dell’accordo necessario all’espletamento della conciliazione o dell’arbitrato. 1.4. Secondo la tesi di parte ricorrente, contrastata dai giudici di merito, questo terzo termine di sessanta giorni dal rifiuto della conciliazione sarebbe assoggettato all’applicazione del secondo comma dell’art. 410 c.p.c. secondo cui La comunicazione della richiesta di espletamento del tentativo di conciliazione interrompe la prescrizione e sospende, per la durata del tentativo di conciliazione e per i venti giorni successivi alla sua conclusione, il decorso di ogni termine di decadenza . Di talché la somma dei sessanta giorni previsti dall’ultima parte del comma 2 dell’art. 6 l. n. 604 del 1966 con i venti giorni previsti dai comma 2 dell’art. 410 del codice di rito consentirebbe di ritenere tempestivo il deposito del ricorso giudiziale del lavoratore avvenuto in data 30 settembre 2014. 1.5. L’assunto non è condiviso da questa Corte per le ragioni che seguono. La richiesta del tentativo di un componimento stragiudiziale può condurre ad un esito negativo secondo percorsi molteplici. Innanzi tutto può accadere che la procedura richiesta sia accettata dalla controparte e poi espletata ma poi si concluda con un mancato accordo. È l’ipotesi affrontata da Cass. n. 14108 del 2018 secondo cui, in tal caso, non opera il termine di sessanta giorni previsto testualmente dall’ultima parte del comma 2 dell’art. 6 l. n. 604/66 solo qualora la conciliazione o l’arbitrato richiesti siano rifiutati o non sia raggiunto l’accordo necessario al relativo espletamento per la richiamata sentenza resta invece efficace l’originario termine di 180 giorni dall’impugnativa stragiudiziale del licenziamento , precisandosi tuttavia che esso, ai sensi dell’art. 410, co. 2, c.p.c., è sospeso per la durata del tentativo di conciliazione e per i venti giorni successivi . Nella diversa ipotesi all’attenzione di questo Collegio ricorre invece specificamente la fattispecie regolata dall’ultima parte del comma 2 dell’art. 6 l. n. 604/66 perché l’esito negativo del componimento stragiudiziale è determinato dall’immediato esplicito rifiuto della controparte di intraprendere la procedura conciliativa richiesta, equiparato, per espressa previsione legale, al caso del mancato accordo necessario al relativo espletamento. Da tali eventi significativi della non accettazione della procedura - che pertanto abortisce in partenza e non viene svolta - decorre un nuovo ed autonomo termine di decadenza, non più sottoposto al regime pregresso, che l’ultima parte del comma 2 dell’art. 6 più volte citato fissa, inequivocabilmente, in un lasso temporale di sessanta giorni. Tale ulteriore termine assume, per la specifica regola che lo contiene, un evidente connotato di specialità che lo rende insensibile alla disciplina generale della sospensione dei termini di decadenza prevista dal comma 2 dell’art. 410 c.p.c., anche per l’incompatibilità strutturale con tale ultima disposizione. Invero la norma del codice di rito - introdotta con la novella del d. lgs. n. 80 del 1998 che ha reso obbligatorio il tentativo di conciliazione e rimasta immutata nella formulazione del suo secondo comma anche con la sostituzione operata dall’art. 31, co. 1, l. n. 183 del 2010 - presuppone necessariamente due segmenti temporali che si inseriscono in un termine di decadenza che viene sospeso per poi riprendere a decorrere. Un primo periodo di sospensione che va dalla comunicazione della richiesta di espletamento del tentativo di conciliazione sino alla conclusione della procedura. Un secondo periodo che va da tale conclusione sino al ventesimo giorno successivo. L’esegesi proposta da parte ricorrente non consente l’applicazione dei due segmenti temporali alla sospensione del medesimo termine di decadenza. Infatti, delle due l’una. O si ritiene che il termine di decadenza da sospendere sia quello di 180 giorni dalla impugnativa stragiudiziale previsto dalla prima parte dell’art. 6, co. 2, l. n. 604/66, ma allora dopo venti giorni dalla conclusione della procedura dovrebbe riprendere a decorrere l’originario termine per il lasso temporale residuo, mentre invece è espressamente previsto dall’ultima parte dell’art. 6, co. 2, un nuovo e specifico termine di venti giorni dal rifiuto o dal mancato raggiungimento dell’accordo necessario all’espletamento. Oppure si ritiene che sia quest’ultimo termine di decadenza a dover subire la sospensione generalmente imposta dal comma 2 dell’art. 410 c.p.c., ma in tal caso il primo segmento temporale cui applicare la disposizione non sussisterebbe mai, perché al momento del dies a quo della pretesa sospensione la procedura è già conclusa per definizione, non essendo stata mai accettata inoltre il secondo segmento temporale di venti giorni da detta conclusione farebbe differire il decorso degli ulteriori sessanta giorni a partire da tale scadenza, in contrasto con il dato testuale della legge che fissa il dies a quo di detto termine dal rifiuto o dal mancato accordo e non certo dal ventesimo giorno successivo alla conclusione della procedura di conciliazione come previsto dalla disposizione del codice di rito. La diversa interpretazione qui non condivisa obbligherebbe infine a ritenere che il termine in discorso sarebbe sempre e comunque di ottanta giorni 60 + 20 , diversamente dal chiaro tenore letterale della norma che, per la sua evidenza semantica, non ingenera alcun opposto legittimo affidamento in chi dovesse altrimenti auspicare un prolungamento dovuto ad un discutibile e forzato coordinamento con l’art. 410, co. 2, c.p.c., ideato per un ben diverso contesto operativo. 2. Con il secondo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 410, commi 2 e 7, c.p.c., come sostituiti dall’art. 31, co. 1, I. n. 183 del 2010, in relazione all’art. 6, co. 2, l. n. 604 del 1966, come sostituito dall’art. 32, co. 2, l. n. 183 del 2010, per avere ritenuto integrata la fattispecie del rifiuto da comunicazione non indirizzata alla commissione di conciliazione competente . Si sostiene la non idoneità della comunicazione del 23 luglio 2014 ad integrare il rifiuto di conciliazione previsto dalla disciplina richiamata sotto due profili non potrebbe considerarsi perfezionata la fattispecie indicata per effetto di un’ambigua comunicazione di rifiuto della procedura conciliativa inviata al solo avvocato del lavoratore e non inviata nemmeno per conoscenza alla Direzione Territoriale del Lavoro in ogni caso non si potrebbe considerare rifiuto in base ad interpretazione secondo buona fede , ma tamquam non esset, una mera comunicazione all’avvocato del lavoratore recante una proposta conciliativa e, nello stesso tempo, il rifiuto, secondo mala fede, della sola procedura conciliativa davanti alla DTL, al solo fine di far decorrere anticipatamente il termine di decadenza, salvo prevedere la riattivazione della procedura conciliativa davanti alla stessa DTL, in caso di accettazione della proposta . Il motivo è infondato perché è ben sufficiente rilevare che non è previsto da alcuna disposizione che il rifiuto di aderire alla conciliazione debba essere comunicato alla Direzione Territoriale del Lavoro la quale, fino a quando non vi è l’adesione alla procedura della controparte, non attiva la successiva fase della procedura medesima d’altro canto il destinatario del rifiuto è chi ha inoltrato la richiesta di tentativo di conciliazione, il quale viene posto a conoscenza in tal modo del momento in cui decorre il terzo termine decadenziale di 60 giorni, mentre una doppia comunicazione, ove fosse ritenuta indispensabile pur in assenza di una previsione legislativa, porrebbe l’ulteriore problema di stabilire quando si debba ritenere integrata la fattispecie che stabilisce il dies a quo. 3. Quanto all’agitata mala fede che avrebbe animato la comunicazione societaria del 23 luglio 2014, la doglianza è inammissibile così come il terzo motivo del ricorso principale con cui si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 1362, 1363, 1366 e 1370 c.c., in relazione all’interpretazione offerta dalla Corte milanese a detta nota come di rifiuto della conciliazione. Premesso che i giudici del merito hanno fondato il loro convincimento sul passo della comunicazione in cui la società espressamente afferma non riteniamo di dover sottoporre la questione alla procedura conciliativa di cui all’art. 410 c.p.c. , si pretende da questa Corte di interpretare diversamente il contenuto della nota che è certamente questione che attiene al fatto cfr. Cass. n. 17067 del 2007 Cass. n. 11756 del 2006 Cass. n. 9070 del 2013 Cass. n. 8586 del 2015 , preclusa al sindacato in questa sede di legittimità e riservata al dominio dei giudici del merito che hanno plausibilmente attribuito a detta comunicazione la valenza di rifiuto , tanto più che la sentenza è impugnata nel vigore del novellato n. 5 dell’art. 360 c.p.c. ed è pure assistita dal regime della cd. doppia conforme di cui all’ultimo comma dell’art. 348 ter c.p.c Circa la denunciata violazione dei canoni legali di ermeneutica contrattuale essa esige una specifica indicazione - ossia la precisazione del modo attraverso il quale si è realizzata - non potendo le censure risolversi, come nella specie, nella mera contrapposizione di una interpretazione diversa da quella criticata tra le innumerevoli Cass. n. 18375 del 2006 Cass. n. 12468 del 2004 Cass. n. 22979 del 2004, Cass. n. 7740 del 2003 Cass. n. 12366 del 2002 Cass. n. 11053 del 2000 perché per sottrarsi al sindacato di legittimità quella data dal giudice non deve essere l’unica interpretazione possibile, o la migliore in astratto, ma una delle possibili, e plausibili, interpretazioni sicché alla parte che aveva proposto l’interpretazione poi disattesa dal giudice di merito non è consentito dolersi in sede di legittimità del fatto che sia stata privilegiata l’altra Cass. n. 10131 del 2006 . 4. Con il primo motivo del ricorso incidentale della Alcon Italia Spa si eccepisce violazione dell’art. 91 c.p.c. e falsa applicazione dell’art. 92 c.p.c. nella parte in cui la Corte di appello ha disposto la compensazione delle spese del grado . Si sostiene che la novità e la complessità delle questioni trattate, poste a fondamento della decisione di compensazione, non è prevista tra le ragioni tassativamente previste dall’art. 92 come presupposto per la possibile compensazione . Il mezzo di gravame è infondato. Il presente giudizio, introdotto con ricorso depositato in data 30 settembre 2014, quanto al regime delle spese di lite, è soggetto alla formulazione del secondo comma dell’art. 92 c.p.c. introdotta dall’art. 45, co. 11, della legge 18 giugno 2009, n. 69, secondo cui Se vi è soccombenza reciproca o concorrono altre gravi ed eccezionali ragioni, esplicitamente indicate nella motivazione, il giudice può compensare, parzialmente o per intero, le spese tra le parti . Solo successivamente, con il disposto dell’art. 13, comma 1, del d.l. n. 132 del 2014, convertito, con modificazioni, nella l. n. 162 del 2014 norma che, per espressa previsione dell’art. 13, comma 2, del decreto-legge citato, si applica ai procedimenti introdotti a decorrere dal trentesimo giorno successivo all’entrata in vigore della relativa legge di conversione, avvenuta l’11 novembre 2014 , si è riformulato il secondo comma dell’art. 92 prevedendo che il giudice, se vi è soccombenza reciproca ovvero nel caso di assoluta novità della questione trattata o mutamento della giurisprudenza rispetto a questioni dirimenti, può compensare le spese tra le parti, parzialmente o per intero . Per il presente giudizio, quindi, non era prevista alcuna elencazione tassativa delle ipotesi che consentissero la compensazione delle spese e, peraltro, anche riguardo alla successiva disposizione vale rilevare che ne è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale nella parte in cui non prevede che il giudice possa compensare le spese tra le parti, parzialmente o per intero, anche qualora sussistano altre analoghe gravi ed eccezionali ragioni Corte cost., 19 aprile 2018, n. 77 . Il giudice delle leggi ha ritenuto, infatti, che la rigidità di queste due sole ipotesi tassative, violando il principio di ragionevolezza e di eguaglianza, ha lasciato fuori altre analoghe fattispecie riconducibili alla stessa ratio giustificativa . In ogni caso - l’assoluta novità della questione - che è la ragione in base alla quale, oltre alla complessità della questione medesima, la Corte territoriale ha ritenuto di dover compensare integralmente le spese del grado, è riconducibile ad una situazione di oggettiva e marcata incertezza, non orientata dalla giurisprudenza, idonea a concretare gravi ed eccezionali ragioni che giustificano la deroga alla regola della soccombenza. Non è contestabile, poi, che la questione affrontata dai giudici milanesi avesse il carattere di novità, non scalfita certo da talune pronunce di merito e posto che la Corte di legittimità se ne occupa per la prima volta proprio in questa sede. Parimenti infondata anche l’altra censura contenuta nel motivo ove si argomenta che la Corte di Appello avrebbe formulato una proposta conciliativa accettata dalla società e rifiutata dal T. , per cui se . l’art. 91 impone la condanna alle spese successive alla parte anche vittoriosa che ha rifiutato la proposta, a maggior ragione non può disporsi la compensazione se la parte che ha rifiutato la proposta è totalmente soccombente . Infatti il primo comma dell’art. 91 c.p.c. richiamato da parte istante lascia espressamente salvo quanto disposto dal secondo comma dell’art. 92 e, quindi, il potere di compensazione del giudice anche in caso di rifiuto della proposta conciliativa. 5. Il secondo motivo del ricorso incidentale denuncia violazione dell’art. 112 in relazione agli artt. 88 e 89 c.p.c. e all’art. 111 Cost. per non avere la Corte statuito in ordine alla cancellazione di espressioni sconvenienti contenute nell’atto di reclamo, già sanzionate con la cancellazione da parte del giudice dell’opposizione . Il motivo non può trovare accoglimento. A norma del secondo comma dell’art. 89 c.p.c., il giudice, in ogni stato dell’istruzione, può disporre con ordinanza che si cancellino le espressioni sconvenienti od offensive , mentre, con la sentenza che decide la causa può inoltre assegnare alla persona offesa una somma a titolo di risarcimento del danno anche non patrimoniale sofferto, quando le espressioni offensive non riguardano l’oggetto della causa . La circostanza secondo cui il provvedimento di cancellazione delle espressioni sconvenienti od offensive è chiamata ad assumere la forma dell’ordinanza in ogni stato dell’istruzione in contrapposizione alla forma di sentenza imposta per l’eventuale assegnazione, alla persona offesa, di una somma a titolo di risarcimento del danno anche non patrimoniale sofferto , vale a sottolineare che il provvedimento sulla richiesta di cancellazione non ha alcun contenuto decisorio, rivestendo lo stesso una mera funzione ordinatoria avente rilievo esclusivamente entro l’ambito e ai soli fini del rapporto endo processuale tra le parti pertanto, il contenuto di puro merito e l’indole meramente ordinatoria ascrivibile al ridetto provvedimento di cancellazione, esclude che della relativa contestazione possa farsi questione dinanzi al giudice di legittimità da ultimo Cass. n. 10517 del 2017 . Poiché, dunque, l’istanza per la cancellazione costituisce una mera sollecitazione per l’applicazione del potere discrezionale del giudice tra molte Cass. n. 6439 del 2009 Cass. n. 14112 del 2011 l’omesso esame di essa non può formare oggetto di impugnazione Cass. n. 9040 del 1994 Cass. n. 12479 del 2004 , non integrando detta istanza neanche una domanda giudiziale Cass. n. 15503 del 2002 Cass. n. 5677 del 2005 . 6. Pertanto sia il ricorso principale che incidentale vanno respinti, con compensazione delle spese del giudizio di legittimità per reciproca soccombenza. Occorre dare atto della sussistenza per entrambe le parti dei presupposti di cui all’art. 13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115 del 2002, come modificato dall’art. 1, co. 17, l. n. 228 del 2012. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso principale ed il ricorso incidentale compensa le spese del giudizio di legittimità. Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principale e del ricorrente incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale e incidentale a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.