L’annullamento delle dimissioni dà diritto alle retribuzioni solo dalla data della sentenza

Nell'ipotesi di annullamento delle dimissioni presentate da un lavoratore subordinato nella specie, perché in stato di incapacità naturale le retribuzioni spettano dalla data della sentenza che dichiara l'illegittimità delle dimissioni, in quanto il principio secondo cui l'annullamento di un negozio giuridico ha efficacia retroattiva non comporta anche il diritto del lavoratore alle retribuzioni maturate dalla data delle dimissioni a quella della riammissione al lavoro, che, salvo espressa previsione di legge, non sono dovute in mancanza della prestazione lavorativa.

Così stabilito dalla Corte di Cassazione sezione lavoro con la sentenza n. 21701, pubblicata il 6 settembre 2018. Il caso deciso. Un lavoratore INPS adiva il Tribunale al fine di veder annullate le dimissioni rassegnate, in quanto poste in essere in condizioni di turbamento psichico tale da impedire la libera e cosciente autodeterminazione. Il giudice di primo grado rigettava la domanda. Proposto appello, la Corte di merito, riformando la sentenza appellata, accoglieva la domanda, annullava le dimissioni, condannava l’Inps a riammettere in servizio il dipendente ed a corrispondergli le retribuzioni non percepite dalla data del ricorso di primo grado. Avverso tale pronuncia ha proposto ricorso per cassazione l’INPS. Il regime delle retribuzioni in caso di annullamento delle dimissioni. La Corte territoriale, accogliendo l’appello proposto dal lavoratore, ha dichiarato la nullità delle dimissioni da queste rassegnate, condannando l’ente previdenziale a corrispondere le retribuzioni a decorrere dalla data di deposito del ricorso di primo grado. Con il ricorso proposto, l’INPS non solleva contestazioni circa l’accertato stato di incapacità del lavoratore, tale da inficiare il libero consenso e determinazioni nelle dimissioni bensì contesta la decorrenza delle retribuzioni dovute in conseguenza del ripristino del rapporto di lavoro. Secondo l’ente ricorrente, le retribuzioni dovevano essere riconosciute unicamente dalla sentenza di annullamento delle dimissioni posto che, una volta accertata l’assenza di malafede da parte del datore di lavoro e, di contro, l’assenza di responsabilità del lavoratore nella sua determinazione di dimettersi, non poteva essere attribuita all’ente datore di lavoro alcuna responsabilità dell’atto annullato e di conseguenza non poteva essere accollato l’onere a questi di pagamento delle retribuzioni fin dal radicamento del processo. Il Supremo Collegio ritiene fondato il motivo proposto. Vi è principio consolidato sul punto secondo cui nell'ipotesi di annullamento delle dimissioni presentate da un lavoratore subordinato, le retribuzioni spettano dalla data della sentenza che dichiara l'illegittimità delle dimissioni, in quanto il principio secondo cui l'annullamento di un negozio giuridico ha efficacia retroattiva non comporta anche il diritto del lavoratore alle retribuzioni maturate dalla data delle dimissioni a quella della riammissione al lavoro, che, salvo espressa previsione di legge, non sono dovute in mancanza della prestazione lavorativa. Osserva la Corte di legittimità che fin dalla sentenza n. 18844 del 30/8/2010 è stato affermato il principio per effetto del quale la conseguenza della continuità del rapporto di lavoro, non interrotta da un recesso affetto da vizi che ne determinano l'annullamento, consiste nel fatto che il lavoratore ha diritto al risarcimento del danno, determinabile secondo le regole in materia di inadempimento delle obbligazioni, anche facendo eventualmente riferimento alle retribuzioni perdute, ma sempre considerando che la natura sinallagmatica del rapporto richiede ai fini dell'adempimento dell'obbligazione retribuiva che sia messa a disposizione la prestazione lavorativa. Viene ribadito dunque il principio secondo il quale l'annullamento di un negozio giuridico con efficacia retroattiva non comporta il diritto del lavoratore alle retribuzioni maturate dalla data delle dimissioni a quella della riammissione al lavoro, atteso che la retribuzione presuppone la prestazione dell'attività lavorativa, onde il pagamento della prima in mancanza della seconda rappresenta un'eccezione che, come nelle ipotesi di malattia o licenziamento non sorretto da giusta causa o giustificato motivo, deve essere espressamente prevista dalla legge. Da tutto ciò, affermano gli ermellini deriva, che nell'ipotesi di annullamento delle dimissioni, le retribuzioni spettano dalla data della sentenza che dichiara l’ illegittimità del recesso. La Corte di merito, nella sentenza impugnata, non ha fatto corretta applicazione dei principi di diritto richiamati dalla Corte di Cassazione, riconoscendo, erroneamente, le retribuzioni fin dalla data del deposito del ricorso introduttivo, anziché dalla data della sentenza di annullamento delle dimissioni. La sentenza impugnata è stata dunque cassata dalla Corte, che, decidendo nel merito la controversia, ha confermato la nullità delle dimissioni e condannato l’INPS al risarcimento del danno patito dal lavoratore, nella misura pari alle retribuzioni a far data dalla sentenza di annullamento delle dimissioni.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 7 marzo – 6 settembre 2018, numero 21701 Presidente Di Cerbo – Relatore De Felice Svolgimento del processo La Corte d’Appello di Palermo, in riforma della pronuncia del Tribunale di Termini Imerese, ha annullato l’atto di dimissioni dal servizio di E.P. funzionario dell’Inps, ritenendo che lo stesso avesse agito in condizioni di turbamento psichico tali da impedirgli di autodeterminarsi liberamente e di apprezzare l’importanza dell’atto in relazione alle sue condizioni economiche e ai suoi rapporti familiari e sociali. Ha condannato, pertanto, l’Ente a ripristinare il rapporto di lavoro, reimmettendo in servizio il dipendente in mansioni compatibili col suo stato di salute psico-fisica e a risarcirgli il danno mediante corresponsione della retribuzione a far data dalla notifica del ricorso introduttivo di primo grado. Avverso tale sentenza interpone ricorso per cassazione l’Inps con una censura, cui resiste con tempestivo controricorso E.P. . Motivi della decisione 1. Nell’unica censura, formulata ai sensi dell’art. 360, co.1 numero 3 e numero 5, l’Inps contesta Violazione e falsa applicazione dell’art. 2094 cod. civ. Prestatore di lavoro subordinato violazione e falsa applicazione dell’art. 428, co.1, cod. civ. violazione e falsa applicazione dell’art. 2043 cod. civ. Motivazione contraddittoria e insufficiente su punto decisivo della controversia . Il ricorrente non contesta la motivazione della sentenza riguardo alla sussunzione della fattispecie nell’ipotesi di cui al comma 1 dell’art. 428 cod. civ., ma ritiene che la soluzione prescelta dalla Corte d’Appello, di far retroagire gli effetti della sentenza di annullamento ai fini della corresponsione della retribuzione al momento della domanda giudiziale dalla notifica del ricorso introduttivo , non si riveli convincente con riguardo alle norme e ai principi che regolano la disciplina del rapporto di lavoro subordinato. Così statuendo, la Corte d’Appello avrebbe erroneamente riconosciuto la sussistenza di una mora credendi per il periodo tra la domanda giudiziale di primo grado e la reimmissione in servizio del dipendente, nonostante, a seguito delle intervenute dimissioni, il rapporto di lavoro fosse estinto. Neppure la tesi della Corte territoriale sarebbe condivisibile, là dove ha invocato il principio per il quale la durata del processo non deve mai andare a danno della parte risultata vittoriosa, in quanto non ogni effetto pregiudizievole può essere posto a carico della parte soccombente, indipendentemente dal verificarsi dei presupposti perché ciò possa essere reso possibile, come - in questo caso - la necessaria costituzione in mora del datore di lavoro. Secondo la difesa dell’Ente, dunque, una volta accertata l’insussistenza della malafede da parte dell’Istituto, ma anche di qualsivoglia responsabilità nella determinazione del dimettersi dell’E. , appare chiaro che l’Inps non potesse essere considerato responsabile dell’atto e, dunque, accollarsi l’onere del pagamento delle retribuzioni dall’inizio del processo, quasi che la causa dell’atto unilaterale dismissivo del dipendente dipendesse da un suo comportamento. 2. La censura è fondata. 3. La sentenza gravata ha ricostruito la fattispecie nell’ambito del co. 1 dell’art. 428 cod. civ., secondo il quale Gli atti compiuti da persona che, sebbene non interdetta, si provi essere stata per qualsiasi causa, anche transitoria, incapace d’intendere e di volere al momento in cui gli atti sono stati compiuti, possono essere annullati su istanza della persona medesima o dei suoi eredi o aventi causa, se ne risulta un grave pregiudizio all’autore . Ammesso lo stato d’incapacità temporaneo siccome accertato dalla CTU disposta in primo grado, con riferimento al momento dell’atto dismissivo assunto come pregiudizievole Cass. numero 02500/2017 , e ritenuto provato il grave pregiudizio nella perdita della fonte di reddito e nell’alterazione dei rapporti familiari e sociali, in applicazione dell’orientamento espresso da questa Corte nella decisione numero 8886/2010, ha ritenuto che l’E. avesse diritto alle retribuzioni maturate dalla data della domanda giudiziale. 4. L’orientamento che è andato consolidandosi sulla materia, fin dalla sentenza numero 18844/2010, di poco successiva a quella invocata dalla Corte d’Appello, ha focalizzato il diritto risarcitorio derivante dall’annullamento di un atto illegittimo estintivo del rapporto di lavoro, secondo le regole sull’inadempimento delle obbligazioni, sulla natura sinallagmatica del rapporto. In tal senso, dunque, si è definitivamente affermato il convincimento, da cui non si ritiene di doversi in questa sede discostare, secondo il quale, nell’ipotesi di annullamento di dimissioni presentate da un lavoratore subordinato - nella specie perché in stato di accertata incapacità naturale - le retribuzioni a esso spettanti vanno calcolate dalla data della sentenza che dichiara l’illegittimità dell’atto unilaterale dismissivo, atteso che l’annullamento di un negozio giuridico con efficacia retroattiva non comporta di per sé il diritto alla corresponsione delle retribuzioni maturate dalla data delle dimissioni a quella della riammissione. Stante la natura sinallagmatica del contratto di lavoro, infatti, il diritto alla retribuzione discende necessariamente dalla prestazione dell’attività, e la possibilità del pagamento della prima, in mancanza della seconda rappresenta un’eccezione che deve essere espressamente prevista dalla legge, così come ad esempio avviene nelle ipotesi di malattia o licenziamento non sorretto da una giusta causa o da un giustificato motivo Cass. numero 14438/2000 numero 13045/2005, numero 2261/2012 numero 22063/2014 . 5. La decisione gravata, pertanto, accertando erroneamente che l’E. ha diritto alle retribuzioni maturate dalla data di notifica del ricorso introduttivo del giudizio di primo grado e non già dalla data della sentenza che ha dichiarato l’illegittimità dell’atto di dimissioni, si discosta dal richiamato orientamento, di cui va fatta applicazione nel caso in esame. 6. Per le esposte motivazioni il ricorso deve essere accolto, la sentenza impugnata deve essere cassata e, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa deve essere decisa nel merito, con conferma della statuizione sulle dimissioni e condanna dell’Inps a risarcire il danno patito dal ricorrente, liquidato in misura pari alle retribuzioni maturate a decorrere dal giorno 11/10/2010, coincidente con la data della sentenza che ha dichiarato l’illegittimità delle dimissioni. 7. Le spese dei giudizi di merito, così come liquidate dalla Corte d’Appello per l’intero, sono compensate nella misura di un terzo, per gli alterni esiti della vicenda, mentre per i restanti due terzi sono poste a carico dell’Inps. Le spese del giudizio di legittimità sono del pari compensate per un terzo, in ragione dell’esito alterno della vicenda, e per i rimanenti due terzi, nella misura indicata in dispositivo, sono a carico dell’Inps. Si dà atto che non sussistono i presupposti per il versamento del contributo unificato. P.Q.M. La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, confermata la statuizione sulle dimissioni, condanna l’Inps a risarcire il danno patito dal ricorrente, liquidato in misura pari alle retribuzioni maturate a decorrere dall’11/10/2010. Compensa per un terzo le spese del giudizio di primo e secondo grado così come liquidate per l’intero dalla Corte d’Appello e condanna l’Inps al pagamento dei residui due terzi. Compensa per un terzo le spese del giudizio di legittimità e condanna l’Inps al pagamento dei residui due terzi, liquidati per intero in Euro 2.600 per compensi professionali, Euro 200 per esborsi, oltre alle spese forfetarie nella misura del 15 per cento e agli accessori di legge.