Vessazioni e demansionamento: l’esclusione del mobbing non evita la condanna al risarcimento

Per i giudici gli episodi lamentati da una lavoratrice, ormai in pensione, non sono legati da un fil rouge persecutorio. Ciononostante, resta in piedi l’ipotesi di un risarcimento, poiché comunque va valutata l’ipotesi del demansionamento e vanno prese in esame le lesioni lamentate dalla donna per i comportamenti dei colleghi.

Quattro anni da incubo in ufficio, prima di arrivare all’agognata pensione. Almeno questo è quello che sostiene la lavoratrice. Per i giudici però le condotte dei colleghi e dell’azienda poste in evidenza non sono sufficienti per palare di mobbing. Questione chiusa, allora? Assolutamente no, perché rimane comunque in piedi l’ipotesi del risarcimento, dovendo valutare i danni arrecati alla donna dai singoli episodi e le eventuali omissioni addebitabili all’azienda Cassazione, ordinanza n. 3871/18, sez. Lavoro, depositata oggi . Intento vessatorio. Negativo per la lavoratrice – ex dipendente di un’Azienda sanitaria – l’andamento della battaglia giudiziaria. Prima in Tribunale e poi in Corte d’appello viene respinta la sua richiesta di risarcimento per i danni subiti , sostiene, a seguito della condotta vessatoria protrattasi dall’estate 2000 fino al pensionamento, avvenuto nel febbraio 2004 . La donna ha parlato di vero e proprio mobbing, citando le vessazioni da lei subite in ufficio – anche ad opera di colleghi –, ma i giudici hanno ribattuto che non era stato dimostrato l’intento persecutorio, da escludere poi in quanto le condotte lesive da lei lamentate erano state tenute da soggetti diversi e in momenti temporali anche molto distanti tra loro . Responsabilità. Sull’esclusione del mobbing concordano anche i magistrati della Cassazione, che condividono quindi la visione adottata dai giudici d’Appello. Ciò nonostante, per la donna, ormai in pensione, c’è ancora uno spiraglio per prendersi una rivincita – seppur solo economica – nei confronti della sua vecchia azienda. Difatti, viene chiarito dai Giudici del Palazzaccio che è necessario comunque accertare sei comportamenti denunciati dalla lavoratrice possano, singolarmente considerati, essere fonte di responsabilità per il datore di lavoro . Ciò rende necessario quindi un nuovo giudizio in Corte d’appello per prendere in esame il demansionamento denunciato dalla donna e i danni connessi alla assegnazione a mansioni inferiori . Allo stesso tempo, sarà obbligatorio anche considerare i comportamenti del datore di lavoro e dei colleghi e individuati come vessatori dalla donna anche su questo fronte bisognerà identificare eventuali responsabilità del datore di lavoro .

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, ordinanza 22 novembre 2017 – 16 febbraio 2018, n. 3971 Presidente Napoletano – Relatore Di Paolantonio Rilevato che 1. Con sentenza depositata il 2 agosto 2012 la Corte di Appello di Bologna ha respinto l'appello di An. Me. avverso la pronuncia del Tribunale della stessa città che aveva rigettato la domanda proposta nei confronti dell'Azienda USL di Bologna volta ad ottenere il risarcimento dei danni subiti in conseguenza della condotta vessatoria protrattasi dall'estate 2000 fino al pensionamento avvenuto nel febbraio 2004 2. la Corte territoriale ha osservato che l'appellante aveva posto a fondamento della domanda risarcitoria non il puro e semplice demansionamento bensì il cosiddetto mobbing, del quale non aveva fornito la prova perché non aveva dimostrato l'intento persecutorio, da escludere nella fattispecie in quanto le condotte asseritamente lesive erano state tenute da soggetti diversi ed in momenti temporali anche molto distanti tra loro 3. il giudice di appello ha quindi ritenuto irrilevante stabilire se l'assegnazione di mansioni diverse da quelle espletate in passato integrasse demansionamento, posto che quest'ultimo non era stato dedotto in causa anche solo in subordine come autonoma fattispecie giuridica con proposizione della relativa domanda risarcitoria 3. avverso tale sentenza An. Me. ha proposto ricorso affidato a due motivi, illustrati da memoria ex articolo 380 bis 1 cod. procomma civ., ai quali ha opposto difese l'Azienda USL di Bologna. Considerato che 1. con il primo motivo di ricorso la ricorrente denuncia, ex articolo 360 nn. 3,4 e 5 cod. procomma civ., omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa fatti controversi e decisivi per il giudizio violazione e falsa interpretazione ed applicazione degli artt. 2103, 2043, 2059 cod. civ. violazione e falsa applicazione dell'articolo 112 cod. procomma civ. e rileva, in sintesi, che la Corte territoriale ha errato nell'interpretazione della domanda, che si riferiva anche al demansionamento 1.1. aggiunge che la pronuncia gravata si è discostata dal principio di diritto affermato da questa Corte in forza del quale il Giudice, una volta escluso l'intento persecutorio, è comunque tenuto ad accertare se i comportamenti denunciati, singolarmente considerati, possano essere fonte di responsabilità per il datore di lavoro 2. la seconda censura, formulata ai sensi dei nn. 3 e 5 dell'articolo 360 cod. procomma civ., lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 2087, 2043 e 2059 cod. civ., anche in rapporto all'articolo 116 cod. procomma civ., nonché l'omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa fatti controversi e decisivi per il giudizio 2.1. rileva in sintesi la ricorrente che la Corte territoriale ha errato nel porre l'onere della prova a carico della lavoratrice perché, al contrario, spetta al datore di lavoro dimostrare di aver posto in essere tutte le misure necessarie per tutelare l'integrità psicofisica del dipendente ha omesso di valutare gli episodi lesivi nel loro complesso mentre solo detta valutazione può far emergere l'elemento soggettivo ha errato nella valutazione delle deposizioni testimoniali ed ha omesso di esaminare la documentazione prodotta non ha tenuto conto dell'articolo 2, comma 3, del D.Lgs. n. 216 del 2003 che qualifica discriminatori anche le condotte volte a creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante e offensivo e, quindi, rende applicabile alla fattispecie la regola di valutazione della prova prevista dall'articolo 4, comma 4, dello stesso decreto 3. la ricorrente richiama infine le deduzioni contenute nell'atto d'appello relative alla natura ed alla quantificazione dei danni subiti 4. il primo motivo è inammissibile nella parte in cui si duole della errata qualificazione giuridica della domanda, perché la Corte territoriale non si è limitata ad escludere che con l'atto introduttivo fosse stata formulata anche una domanda di risarcimento dei danni derivati dal preteso demansionamento, ma ha altresì evidenziato, alle pagine 7 e 8 della motivazione, che in tal senso si era espresso il Tribunale e che la pronuncia non era stata oggetto di censura 4.1. si tratta di un'autonoma ratio decidendi, da sola idonea a sorreggere la decisione, posto che, secondo il consolidato orientamento di questa Corte, il potere del giudice di qualificazione della domanda nei gradi successivi al primo va coordinato con i principi propri del sistema delle impugnazioni, sicché deve ritenersi precluso al giudice dell'appello di mutare la qualificazione ritenuta dal primo giudice in mancanza di gravame sul punto ed in presenza, quindi, del giudicato formatosi su tale qualificazione Cass. 1/12/2010 n. 24339 e Cass. 30/7/2008 n. 20730 4.2. il ricorso insiste solo sull'errore commesso dalla Corte territoriale nella qualificazione giuridica della domanda, ma non censura l'autonoma ratio richiamata nei punti che precedono, sicché il motivo non può essere scrutinato nel merito posto che ove la sentenza sia sorretta da una pluralità di ragioni, distinte ed autonome, ciascuna delle quali giuridicamente e logicamente sufficiente a giustificare la decisione adottata, l'omessa impugnazione di una di esse rende inammissibile, per difetto di interesse, la censura relativa alle altre, la quale, essendo divenuta definitiva l'autonoma motivazione non impugnata, non potrebbe produrre in nessun caso l'annullamento della sentenza Cass. 27/7/2017 n. 18641 5. ferma, quindi, la qualificazione della domanda nei termini indicati dalla Corte territoriale, va detto che il giudice di appello ha errato nel ritenere che per ciò solo dovesse essere escluso il suo potere/dovere di pronunciare sul denunciato demansionamento e sui danni asseritamente derivati dall'assegnazione a mansioni inferiori 5.1. questa Corte ha già affermato, e va qui ribadito, che nell'ipotesi in cui il lavoratore chieda il risarcimento del danno patito alla propria integrità psico-fisica in conseguenza di una pluralità di comportamenti del datore di lavoro e dei colleghi di natura asseritamente vessatoria il giudice del merito, pur nell'accertata insussistenza di un intento persecutorio idoneo ad unificare tutti gli episodi addotti dall'interessato e quindi della configurabilità di una condotta di mobbing, è tenuto a valutare se alcuni dei comportamenti denunciati, seppure non accomunati dal fine persecutorio, siano ascrivibili a responsabilità del datore di lavoro, che possa essere chiamato a risponderne, nei limiti dei danni a lui imputabili Cass.5.11.2012 n. 18927 richiamata da Cass. 20.4.2016 n. 8025, Cass. 28.9.2016 n. 19180, Cass. 24.11.2017 n. 28027 5.2. il motivo, che invoca il precedente di questa Corte sopra citato, è quindi in parte qua fondato 6. a diverse conclusioni si giunge quanto alla seconda censura, perché la sentenza impugnata, nell'escludere che ricorressero nella fattispecie gli elementi costitutivi del mobbing, si è attenuta alla giurisprudenza di questa Corte che in più pronunce ha affermato che ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro rilevano i seguenti elementi, il cui accertamento costituisce un giudizio di fatto riservato al giudice di merito, non sindacabile in sede di legittimità se logicamente e congruamente motivato a la molteplicità dei comportamenti a carattere persecutori o, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio b l'evento lesivo della salute o della personalità del dipendente c il nesso eziologico tra la condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico e il pregiudizio all'integrità psico-fisica del lavoratore d la prova dell'elemento soggettivo, cioè dell'intento persecutorio. Elementi questi che il lavoratore ha l'onere di provare in applicazione del principio generale di cui all'articolo 2697 c.comma e che implicano la necessità di una valutazione rigorosa della sistematicità della condotta e della sussistenza dell'intento emulativo o persecutorio che deve sorreggerla Cass. 26 marzo 2010, n. 7382 Cass. 17.1.2014 n. 898 6.1. la Corte territoriale, con motivazione articolata, logica e priva dei denunciati profili di contraddittorietà, ha esaminato gli atti di causa ed ha escluso che fosse stata data la prova sia dell'intento persecutorio sia della reiterazione e sistematicità nel tempo delle condotte 6.2. il ricorso, pur denunciando la violazione degli artt. 2087, 2043 e 2059 cod. civ., tende a sollecitare una diversa valutazione delle risultanze processuali e, quindi, un giudizio di merito non consentito alla Corte di legittimità 6.3. si deve ribadire al riguardo che il controllo di logicità del giudizio di fatto, consentito dall'articolo 360 n. 5 cod. procomma civ., nel testo antecedente alle modifiche apportate dal D.L. n. 83 del 2012, non equivale alla revisione del ragionamento decisorio, ossia dell'opzione che ha condotto il giudice del merito ad una determinata soluzione della questione esaminata, posto che una simile revisione non sarebbe altro che un giudizio di fatto e si risolverebbe in una sua nuova formulazione, contrariamente alla funzione assegnata dall'ordinamento al giudice di legittimità 6.4. quanto all'onere della prova, che come si è detto grava sul lavoratore, è errata l'invocazione dell'articolo 4, comma 4, del D.Lgs. n. 216 del 2003, perché le molestie alle quali fa riferimento il comma 3 dell'articolo 2 dello stesso decreto definendole comportamenti indesiderati aventi lo scopo o l'effetto di violare la dignità di una persona e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante od offensivo , devono essere poste in essere per uno dei motivi di cui all'articolo 1 , ossia per ragioni di discriminazione legate alla religione, alle convinzioni personali, all'handicap, all'età, all'orientamento sessuale, ragioni che non risultano mai essere state allegate nella fattispecie 7. in via conclusiva merita parziale accoglimento solo il primo motivo di ricorso per le ragioni indicate al punto 5.1. ed in detti limiti la sentenza deve essere cassata con rinvio alla Corte di Appello di Bologna in diversa composizione che procederà ad un nuovo esame, attenendosi al principio enunciato sub 5 e provvedendo anche sulle spese del giudizio di legittimità 8.non sussistono le condizioni di cui all'articolo 13 comma 1 quater D.P.R. n. 115 del 2002. P.Q.M. La Corte accoglie il primo motivo di ricorso nei limiti indicati in motivazione e rigetta il secondo. Cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia anche per le spese alla Corte di Appello di Bologna in diversa composizione.