La tutela per il dipendente pubblico precario

In caso di illegittima apposizione del termine al contratto o illegittima proroga del medesimo, il lavoratore pubblico – e non già il lavoratore privato – ha diritto al risarcimento del danno ex art. 32, comma 5, l. n. 83/2010, senza essere soggetto all’onere della prova e ferma restando la possibilità di lamentare e provare un danno da perdita di chances, ulteriore o più elevato rispetto alla citata indennità.

Questo il principio ribadito dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 1680/2017, depositata il 23 gennaio. Il dipendente pubblico assunto con contratto a tempo determinato. Un lavoratore dipendente da ente pubblico lamentava l’illegittimità del proprio contratto a termine nonché delle successive proroghe. I giudici di merito accoglievano le sue doglianze, ma restavano dubbi sulla tutela da approntare al dipendente e sulla distribuzione dell’onere della prova circa danno causato dall’illegittima apposizione del termine. Nessuna conversione del contratto. Riprendendo la giurisprudenza costituzionale C. Cost. n. 89/2003 e di legittimità Cass., SSUU n. 5072/2016 in tema di rapporto di lavoro a termine, nel pubblico impiego, la Corte di Cassazione ribadisce l’impossibilità di convertire il contratto a tempo determinato in contratto a tempo indeterminato, a seguito dell’accertata illegittimità del termine apposto. Ai sensi dell’art 36, comma 5, d.lgs. n. 165/2001, nell’ambito del pubblico impiego, non è possibile operare alcuna conversione del contratto poiché l’acceso al mercato del lavoro pubblico è regolato da concorso, strumento posto a presidio dell’imparzialità, della trasparenza e del buon andamento della pubblica amministrazione art. 97 Cost. . Trasformare un contratto di lavoro a termine - sebbene illegittimo - in contratto a tempo indeterminato, scardinerebbe il meccanismo del concorso pubblico, consentendo strumentali assunzioni a termine, destinate ex ante a divenire stabili. L’esigenza di imparzialità nella selezione del personale pubblico giustifica, quindi, la differenza di tutela tra i dipendenti pubblici e privati, eliminando i dubbi circa la violazione del principio di eguaglianza. Il divieto di conversione è, quindi, norma legittima. Una simile interpretazione è, peraltro, con le direttive europee sul lavoro a tempo determinato. Queste ultime, infatti, non impongono agli Stati membri l’obbligo di stabilizzare definitivamente i contratti a termine illegittimi, ma si limitano – come da definizione - a fissare un obiettivo cui gli Stati membri devono tendere, ossia, prevenire l’abuso del ricorso e della successione di contratti a tempo determinato, da parte dei datori di lavoro pubblici e privati. La legislazione italiana in tema di contratto a termine, prevede un sistema indennitario e sanzionatorio che vorrebbe limitare il ricorso a tale tipologia contrattuale, nel rispetto degli obblighi comunitari. In particolare, nell’ambito del pubblico impiego, per appianare il deficit di tutela causato divieto di conversione, la giurisprudenza ha modellato una tutela risarcitoria rafforzata, riservata al dipendente pubblico assunto con contratto a tempo determinato, illegittimo. Tutela risarcitoria rafforzata. Il precario” pubblico al quale è preclusa la conversione del contratto e, quindi, la stabilizzazione del proprio impiego, gode, però, di una tutela risarcitoria rafforzata e, comunque, di un alleggerimento del proprio onere della prova in ordine al danno subito a causa dell’illegittima apposizione del termine. Per il dipendente pubblico, il danno causato dal contratto a termine, non è la perdita del posto di lavoro a tempo indeterminato, poiché tale prospettiva non c’è mai stata. Semmai, il pubblico dipendente potrà lamentare una perdita di chances, dovuta alla precarizzazione. Pertanto, secondo la Corte di Cassazione, al fine di realizzare un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 32, comma 5, l. n. 183/2010, il lavoratore pubblico assunto con contratto a tempo determinato illegittimo ha diritto all’indennità risarcitoria prevista ex art. 32, l. 183/2010 compresa tra le 2,5 e 12 mensilità , senza la necessità di provare il danno patito, poiché l’ammontare del risarcimento sarà determinato dai criteri previsti dall’art. 8, l. n. 604/1966 anzianità di servizio, gravità della violazione concreta, dimensioni dell’organizzazione coinvolta etc. . Inoltre, non è preclusa al lavoratore la possibilità di lamentare e provare che le chances perse a causa dei reiterati contratti a termine in violazione di legge si traducano in un danno patrimoniale più elevato, rispetto all’indennità - omnicomprensiva - prevista al citato art. 32, con significativa differenza di tutela rispetto al lavoratore privato. Il danno da precarizzazione sarà quindi determinato in base ai criteri legge, senza l’assoggettamento all’onere della prova, e ferma la possibilità di ottenere un ulteriore risarcimento del danno, secondo, però, le norme generali.

Corte di Cassazione, sez. VI Civile – L, ordinanza 14 dicembre 2016 – 23 gennaio 2017, numero 1680 Presidente Arienzo – Relatore Marotta Ragioni di fatto e di diritto 1 La Corte pronuncia in camera di consiglio ex art. 375 cod. proc. civ., a seguito di relazione a norma dell’art. 380 bis cod. proc. civ., che ha concluso per l’accoglimento del ricorso, condivisa dal collegio. 2 Con sentenza numero 1290/2013, depositata in data 19 novembre 2013, la Corte di appello di L’Aquila, pronunciando sull’impugnazione proposta da D.D.S. nei confronti della Azienda U.S.L. di Pescara, in riforma della decisione del Tribunale di Pescara, accertato il ricorso abusivo alla contrattazione a termine, condannava la USL al risarcimento del danno in favore dell’appellante nella misura di 20 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, oltre accessori. La Corte territoriale, superata la questione della decadenza ex art. 32 della legge numero 183/2010, riteneva fondate le eccezioni della lavoratrice relative alla violazione delle previsioni di cui al d.lgs. numero 368/2001 per non essere state esplicitate in contratto le puntuali ragioni dell’assunzione a termine -. Inoltre rilevava il mancato rispetto dei limiti temporali legislativamente previsti. Esclusa, poi, la possibilità di conversione del rapporto, quantificava il risarcimento del danno in applicazione del meccanismo riparatorio di cui all’art. 36 del d.lgs. numero 165/2001 secondo il quale il danno non può che essere inquadrato quale pregiudizio derivante dalla perdita di un posto di lavoro assistito da tutela reale e così a termini dell’art. 18, commi quarto e quinto, della legge numero 300/1970 cinque mensilità valore minimo comma quarto più quindici mensilità quale misura sostitutiva della reintegra comma quinto - . Avverso tale sentenza l’Azienda U.S.L. di Pescara ricorre per cassazione con due motivi. D.D.S. resiste con controricorso. Non sono state depositate memorie ex art. 380 bis, co. 2, cod. proc. civ 3 Con il primo motivo l’Azienda ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 32 della legge numero 183 del 2010. Sostiene che i giudici di appello avrebbero errato nel respingere l’eccezione dell’Azienda relativa all’intervenuta decadenza dall’impugnativa dei contratti in questione. Evidenzia che non può applicarsi alla fattispecie in esame il comma 1 bis della disposizione citata che ha prorogato al 31 dicembre 2011 il termine per l’impugnazione giudiziale dei licenziamenti e che pertanto il previsto termine decadenziale, decorrente dall’entrata in vigore della legge numero 183 del 2010, è maturato per ciascuno dei contratti impugnati. Il motivo è infondato. È, al riguardo, sufficiente richiamare quanto da questa Corte già ritenuto con riguardo all’applicabilità della proroga dei termini di decadenza ai contratti a termine già conclusi alla data di entrata in vigore del Collegato Lavoro stipulati anche in base alla normativa vigente prima del d.lgs. numero 368 del 2001 e con riferimento a quelli i cui termini siano comunque decorsi primi dell’entrata in vigore della 1,. numero 10 del 2011 si vedano Cass. 10 febbraio 2015, numero 2494 Cass. 2 luglio 2015, numero 13563 Cass. 14 dicembre 2015 numero 25103 Cass., Sez. Unumero , 14/03/2016, numero 4913 . Deve, infatti, ritenersi che il differimento dell’efficacia della nuova disciplina decadenziale, introdotta dall’art. 32, stante quanto disposto dal comma 1 bis aggiunto a tale disposizione dalla legge 26 febbraio 2011 numero 10, di conversione del d.l. 29 dicembre 2010 numero 225, che ha previsto che le disposizioni di cui al novellato art. 6, primo comma, legge numero 604/1966, relative al termine di sessanta giorni per l’impugnazione del licenziamento, acquistano efficacia a decorrere dal 31 dicembre 2011, sia operante per tutte le fattispecie alle quali questa nuova disciplina si riferisce. In proposito è stato affermato che il comma 1 bis dell’art. 32, della legge numero 183 del 2010, introdotto dal d.l. numero 223 del 2010, convertito con modificazioni dalla legge numero 10 del 2011, nel prevedere in sede di prima applicazione” il differimento al 31 dicembre 2011 dell’entrata in vigore delle disposizioni relative al termine di sessanta giorni per l’impugnazione del licenziamento, si applica a tutti i contratti ai quali tale regime risulta esteso e riguarda tutti gli ambiti di novità di cui al novellato art. 6 della l. numero 604 del 1966, sicché, con riguardo ai contratti a termine non solo in corso ma anche con termine scaduto e per i quali la decadenza sia maturata nell’intervallo di tempo tra il 24 novembre 2010 data di entrata in vigore del cd. collegato lavoro” e il 23 gennaio 2011 scadenza del termine di sessanta giorni per l’entrata in vigore della novella introduttiva del termine decadenziale , si applica il differimento della decadenza mediante la rimessione in termini, rispondendo alla ratio legis ” di attenuare, in chiave costituzionalmente orientata, le conseguenze legate all’introduzione ex novo ” del suddetto e ristretto termine di decadenza. Considerato che la ratio del differimento dell’applicabilità del nuovo regime decadenziale risiede nell’esigenza di evitare che l’immediata decorrenza di un termine decadenziale, prima non previsto, potesse pregiudicare chi, intenzionato a contestare la cessazione del rapporto di lavoro o le altre tipologie di atti datoriali indicati nell’art. 32 dr., si trovasse ad incorrere inconsapevolemente nella decadenza, non sarebbe giustificata, a fronte del principio di eguaglianza, una differenziazione che limitasse tale differimento alla sola ipotesi dell’impugnativa del licenziamento ed escludesse le altre, tra cui la contestazione della legittimità dell’apposizione del termine al contratto di lavoro. Deve pertanto ritenersi che il legislatore abbia inteso posticipare l’applicabilità del nuovo regime decadenziale nel suo complesso con riferimento a tutti i termini introdotti dall’art. 32 cit. . Nella specie, come evidenziato dalla Corte di appello, il decorso del termine decadenziale era stato impedito già nel rispetto dell’originaria scadenza del 23 gennaio 2011 domenica . Si veda il richiamo alle impugnative stragiudiziali del 19 gennaio 2011, ricevute dall’Azienda in data 24 gennaio 2011 successivo ricorso depositato in data 31 agosto 2011 relativamente al contenuto delle quali ed alla rituale produzione in giudizio le doglianze della ricorrente risultano del tutto generiche. 4 Con il secondo motivo l’Azienda ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 36 del d.lgs. numero 165/2001 e dell’art. 18 della legge numero 300/1970. Si duole del riconoscimento di un risarcimento del danno in assenza di ogni prova e comunque in rapporto al pregiudizio derivante dalla perdita di un posto di lavoro assistito da tutela reale in assenza di ogni aspettativa a vedersi riconosciuto un impiego stabile, a tempo indeterminato. Rileva l’erroneità dell’applicazione del criterio di cui all’art. 18 della legge numero 300/1970 in presenza di un regime sanzionatorio risarcitorio quale quello di cui al d.lgs. numero 165/2001. Il motivo è in parte fondato alla luce di quanto precisato da questa Corte a sezioni unite, nella recente decisione del 15 marzo 2016, numero 5072. In tale pronuncia è stato innanzitutto evidenziato che il divieto, per le pubbliche amministrazioni, di trasformazione del contratto di lavoro da tempo determinato a tempo indeterminato è rimasto come una costante più volte ribadita dal legislatore sicché non può predicarsi la conversione del rapporto quale sanzione” apposizione del termine al rapporto di lavoro o comunque dell’illegittimo ricorso a tale fattispecie contrattuale. D’altra parte il rispetto della normativa sul contratto di lavoro a tempo determinato e risultato essere presidiato oltre che dall’obbligo di risarcimento del danno in favore del dipendente anche da disposizioni al contorno che fanno perno soprattutto sulla responsabilità, anche patrimoniale, del dirigente cui sia ascrivibile l’illegittimo ricorso al contratto a termine. Sicché può dirsi che l’ordinamento giuridico prevede, nel complesso, misure energiche” come richiesto dalla Corte di giustizia, sentenza 26 novembre 2014, C22/13 ss., Mascolo , fortemente dissuasive, per contrastare l’illegittimo ricorso al contratto di lavoro a tempo determinato ciò assicura la piena compatibilità comunitaria, sotto tale profilo, della disciplina nazionale. La medesima pronuncia ha richiamato la decisione della Corte costituzionale sent. 27 marzo 2003, numero 89 che ha escluso ogni contrasto con gli artt. 3 e 97 Cost. dell’art. 36 d.lgs. numero 165/2001, nella parte in cui tale ultima norma non consente, a differenza di quanto accade nel rapporto di lavoro privato, che la violazione di disposizioni imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego di lavoratori possa dar luogo a rapporti di lavoro a tempo indeterminato con le pubbliche amministrazioni. E, infatti, giustificata la scelta del legislatore di ricollegare alla violazione di quelle disposizioni conseguenze di carattere esclusivamente risarcitorio, dato che il principio dell’accesso mediante concorso enunciato dall’art. 97 Cost., a presidio delle esigenze di imparzialità e buon andamento dell’amministrazione rende non omogeneo il rapporto di impiego alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni rispetto al rapporto alle dipendenze di datori privati. In particolare nella cit. pronuncia la Corte ha enunciato, come criterio generale, che . principio fondamentale in materia di instaurazione del rapporto di impiego alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni è quello . dell’accesso mediante concorso, enunciato dall’art. 97, terzo comma, della Costituzione . I ha sottolineato che L’esistenza di tale principio, posto a presidio delle esigenze di imparzialità e buon andamento dell’amministrazione, di cui al primo comma dello stesso art. 97 della Costituzione, di per sé rende palese la non omogeneità sotto l’aspetto considerato delle situazioni poste a confronto dal rimettente e giustifica la scelta del legislatore di ricollegare alla violazione di norme imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego dei lavoratori da parte delle amministrazioni pubbliche conseguenze di carattere esclusivamente risarcitorio, in luogo della conversione in rapporto a tempo indeterminato prevista per i lavoratori privati . In termini inequivocabili la Corte ha quindi escluso, sotto questo profilo, l’esigenza di uniformità di trattamento rispetto alla disciplina dell’impiego privato, cui il principio del concorso è del tutto estraneo. Anche la successiva giurisprudenza costituzionale ha ribadito il principio del pubblico concorso, quale mezzo ordinario e generale di reclutamento del personale delle pubbliche amministrazioni, principio che risponde alla finalità di assicurare il buon andamento e l’efficacia dell’Amministrazione , valori presidiati dal primo e dal terzo comma dell’art. 97 Cost. sentenze numero 190 del 2005, numero 205 e numero 34 del 2004 e numero 1 del 1999 . Sempre nella suddetta decisione a sezioni unite è stato anche evidenziato che la Corte di giustizia, nell’ordinanza 12 dicembre 2013, Papalia, C 50/13, che richiama precedenti enunciati della stessa Corte cfr. sentenze del 4 luglio 2006, Ander e a., C-212/04 del 7 settembre 2006, Marrosu e Sardino, C-53/04 Vassallo, C-180/04, e del 23 aprile 2009, Ingelidaki e a., C-378/07 nonché ordinanze del 12 giugno 2008, Vassilakis e a., C-364107 del 24 aprile 2009, Koukou, C-519/08 del 23 novembre 2009, Lagoudakis e a., da C-162108, e del 1 ottobre 2010, Affatato, C-3/10 , ha ribadito che la clausola 5 dell’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato, allegato alla direttiva del Consiglio 28 giugno 1999, numero 1999/70/CE Direttiva del Consiglio relativa all’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato non stabilisce un obbligo generale degli Stati membri di prevedere la trasformazione in contratti a tempo indeterminato dei contratti di lavoro a tempo determinato. La direttiva del 1999 non contempla alcuna ipotesi di trasformazione del contratto a tempo determinato in contratto a tempo indeterminato così lasciando agli Stati membri un certo margine di discrezionalità in materia . Neppure la direttiva contiene una disciplina generale del contratto a tempo determinato, ma pone principi specifici che, per gli ordinamenti giuridici degli Stati membri, valgono come obiettivi da raggiungere ed attuare, tra cui appunto il principio di contrasto dell’abuso del datore di lavoro, privato o pubblico, nella successione di contratti a tempo determinato clausola 5 . Questa è la portata dell’accordo quadro e segnatamente della sua clausola 5 precisa infatti la Corte di giustizia 7 settembre 2006, Marrosu e Sardino, C-53/04, cit. che l’obiettivo di quest’ultimo è quello di creare un quadro normativo per la prevenzione degli abusi derivanti dall’utilizzo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato . Quindi la compatibilità comunitaria di un regime differenziato pubblico/privato e così il divieto di trasformazione del contratto di lavoro da tempo determinato a tempo indeterminato posto dall’art. 36, comma 5, d.lgs. 30 marzo 2001 numero 165 è un punto fermo, che si aggiunge alla compatibilità interna con il canone costituzionale del principio di eguaglianza Corte cost. numero 89/2003, cit. . È stato poi chiarito che le considerazioni svolte sull’obbligo del concorso pubblico e sul conseguente divieto di conversione del rapporto da tempo determinato in tempo indeterminato nel caso di rapporto con pubbliche amministrazioni consentono di collocare fuori dal risarcimento del danno la mancata conversione del rapporto. Questa è esclusa per legge e tale esclusione come detto è legittima sia secondo i parametri costituzionali sia secondo quelli Europei. Non ci può essere risarcimento del danno per il fatto che la norma non preveda un effetto favorevole per il lavoratore a fronte di una violazione di norme imperative da parte delle pubbliche amministrazioni. Quindi il danno non è la perdita del posto di lavoro a tempo indeterminato perché una tale prospettiva non c’è mai stata. Come è stato precisato, il danno è altro. Il lavoratore, che abbia reso una prestazione lavorativa a termine in una situazione di ipotizzata illegittimità della clausola di apposizione del termine al contratto di lavoro o, più in generale, di abuso del ricorso a tale fattispecie contrattuale, essenzialmente in ipotesi di proroga, rinnovo o ripetuta reiterazione contra legem , subisce gli effetti pregiudizievoli che, come danno patrimoniale, possono variamente configurarsi. Si può ipotizzare una perdita di chance qualora le energie lavorative del dipendente sarebbero potute essere liberate verso altri impieghi possibili ed in ipotesi verso un impiego alternativo a tempo indeterminato ma neppure può escludersi che una prolungata precarizzazione per anni possa aver inflitto al lavoratore un pregiudizio che va anche al di là della mera perdita di chance di un’occupazione migliore. Tuttavia l’esigenza di conformità alla cit. direttiva del 1999 richiede, in analogia con la fattispecie omogenea, sistematicamente coerente e strettamente contigua, costituita dall’art. 32, comma 5, legge numero 183/2010 di individuare la misura dissuasiva ed il rafforzamento della tutela del lavoratore pubblico, quale richiesta dalla giurisprudenza della Corte di giustizia, nell’esonero dalla prova del danno nella misura in cui questo è presunto e determinato tra un minimo ed un massimo. Ad avviso delle sezioni unite, la trasposizione di questo canone di danno presunto esprime anche una portata sanzionatoria della violazione della norma comunitaria sì che il danno così determinato può qualificarsi come danno comunitario così già Cass. 30 dicembre 2014, numero 27481 e 3 luglio 2015, numero 13655 nel senso che vale a colmare quel deficit di tutela, ritenuto dalla giurisprudenza della Corte di giustizia, la cui mancanza esporrebbe la norma interna art. 36, comma 5, cit. , ove applicabile nella sua sola portata testuale, ad essere in violazione della clausola 5 della direttiva e quindi ad innescare un dubbio di sua illegittimità costituzionale essa quindi esaurisce l’esigenza di interpretazione adeguatrice. La quale si ferma qui e non si estende anche alla regola della conversione, pure prevista dall’art. 32, comma 5, cit., perché si ripete la mancata conversione è conseguenza di una norma legittima, che anzi rispecchia un’esigenza costituzionale, e che non consente di predicare un inesistente danno da mancata conversione . È stato così conclusivamente affermato che Il lavoratore pubblico e non già il lavoratore privato ha diritto a tutto il risarcimento del danno e, per essere agevolato nella prova perché ciò richiede l’interpretazione comunitariamente orientata , ha intanto diritto, senza necessità di prova alcuna per essere egli, in questa misura, sollevato dall’onere probatorio, all’indennità risarcitoria ex art. 32, comma 5. Ma non gli è precluso di provare che le chances di lavoro che ha perso perché impiegato in reiterati contratti a termine in violazione di legge si traducano in un danno patrimoniale più elevato . Nel caso di specie, la Corte territoriale ha quantificato il danno applicando un parametro diverso da quello costituito dall’art. 32, comma 5, legge numero 183/2010. 5 In conclusione va accolto, in parte qua , il secondo motivo di 17icorso e rigettato il primo la sentenza impugnata va cassata in relazione al motivo accolto con rinvio alla Corte di appello di Roma che deciderà la causa adeguandosi al seguente principio di diritto Nel regime del lavoro pubblico contrattualizzato in caso di abuso del ricorso al contratto di lavoro a tempo determinato da parte di una pubblica amministrazione il dipendente, che abbia subito la illegittima precarizzazione del rapporto di impiego, ha diritto, fermo restando il divieto di trasformazione del contratto di lavoro da tempo determinato a tempo indeterminato posto dall’art. 36, comma 5, d.lgs. 30 marzo 2001 numero 165, al risarcimento del danno previsto dalla medesima disposizione con esonero dall’onere probatorio nella misura e nei limiti di cui all’art. 32, comma 5, legge 4 novembre 2010, numero 183, e quindi nella misura pari ad un’indennità onnicomprensiva tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nell’art. 8 legge 15 luglio 1966, numero 604 . Il giudice del rinvio provvederà anche sulle spese del presente giudizio di legittimità. P.Q.M. La Corte accoglie, in parte qua, il secondo motivo di ricorso e rigetta il primo cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia, anche per le spese, alla Corte di appello di Roma.