Non è possibile accertare la malattia professionale oggi, per il risarcimento di domani

Una lavoratrice, determinata a farsi riconoscere la natura professionale della malattia contratta in relazione al suo lavoro presso il Ministero della Difesa, chiede il parere della Suprema Corte a proposito della separabilità tra diritto al risarcimento e sentenza dichiarativa della natura della propria infermità.

Su tale argomento si è espressa la Corte di Cassazione con la sentenza n. 25551/16 depositata il 13 dicembre. Il caso. Una lavoratrice contraeva una malattia da sindrome depressiva ansiosa reattiva a disturbo post-traumatico da stress, per la quale ottiene un ingente risarcimento del danno biologico da parte del Ministero della Difesa, presso il quale lavorava. Questo indennizzo era ben più cospicuo di quello che le competeva a seguito della perizia d’ufficio, motivo per il quale non era da lei vantabile alcun credito nei confronti dell’INAIL. Ciononostante, la lavoratrice voleva fosse riconosciuta la natura professionale della propria malattia, ma, sia in primo che in secondo grado, si vedeva respinta la domanda, con motivazione che il riconoscimento di ulteriori somme costituiva una indebita locupletazione da parte dell’assicurata . Avverso la sentenza ricorre quest’ultima, con tre ordini di doglianza. Al di là dei soldi”? La ricorrente afferma di aver interesse unicamente all’accertamento della natura professionale della propria malattia, non essendole negabile un diritto garantito dalla Costituzione. Inoltre, aggiunge, essa sa bene di non aver diritto a riscuotere sia il quantum del risarcimento del danno sia l’indennizzo ex d. lgs. n. 38/2000 , ma la sua richiesta non è di natura monetaria. Secondariamente, la lavoratrice contesta la dichiarazione di carenza di proprio interesse ad agire rispetto a tale pronuncia dichiarativa, dovendo a suo parere la Corte semplicemente riconoscerle il diritto di cui sopra, senza affrontare la tematica di natura strettamente patrimoniale . Da ultimo, la ricorrente si duole del fatto che, non riconoscendo la natura professionale della malattia, il giudice le avrebbe negato la possibilità di procedere in futuro, in caso di eventuale nuovo infortunio, al cumulo delle invalidità , anche se al momento non sembra ipotizzabile alcun aggravamento della malattia che le farebbe riconoscere il diritto alla rendita vitalizia. Secondo la Corte, no. Tutti e tre i motivi di ricorso vengono superati dalla Corte di Cassazione, la quale ritiene che il rischio di duplicazione del risarcimento, ritenuto insussistente dalla ricorrente, è invece ben motivato dalla Corte di merito e condivisibile. Per quanto attiene poi all’interesse ad agire dell’assicurata e dell’eventuale futuro risarcimento, viene richiamata la sentenza n. 336/98 della stessa Corte, la quale specifica che non è possibile una pronuncia di mero accertamento, con efficacia di giudicato, dell’infermità stessa in vista di eventuali futuri aggravamenti, non essendo configurabile [] una questione pregiudiziale di cui ai sensi dell’art. 34 c.p.c. possa chiedersi l’accertamento, con efficacia di giudicato, indipendentemente dall’esito della domanda principale . Per questi motivi il giudice di legittimità rigetta il ricorso.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 28 settembre – 13 dicembre 2016, n. 25551 Presidente D’Antonia – Relatore Berrino Svolgimento del processo Con sentenza del 5/7 - 6/8/2013 la Corte d'appello di Genova ha rigettato l'impugnazione di D’A.M. avverso la sentenza del giudice del lavoro del Tribunale di La Spezia che le aveva respinto la domanda volta sia al riconoscimento della natura professionale della malattia da sindrome depressiva ansiosa reattiva a disturbo post-traumatico da stress conseguente alle prestazioni lavorative rese alle dipendenze dei Ministero della Difesa, sia alla liquidazione dell'indennizzo richiesto per il danno biologico residuato. Ha spiegato la Corte territoriale che l'appellante non poteva vantare alcun credito nei confronti dell'Inail, avendo già ricevuto dal datore di lavoro un risarcimento superiore alla somma rivendicabile a titolo di indennizzo verso l'istituto assicuratore, per cui mancava il danno stesso. In sostanza, secondo i giudici d'appello, l'appellante aveva già ottenuto dal datore di lavoro una somma comprensiva sia dell'importo indennizzabile dall'Inail che del risarcimento per l'ammontare del residuo danno differenziale, per cui il riconoscimento di ulteriori somme costituiva una indebita locupletazione da parte dell'assicurata. Per la cassazione della sentenza ricorre la D’A. con tre motivi, illustrati da memoria ai sensi dell'art. 378 c.p.c. Resiste con controricorso l'Inail. Motivi della decisione 1. Col primo motivo, dedotto per violazione dell'art. 38 della Costituzione e dell'art. 13 del d.lgs n. 38/2000 ai sensi dell'art. 360 n. 3 c.p.c., la ricorrente contesta l'affermazione della Corte di merito secondo la quale non le spettava il diritto alla prestazione di cui all'art. 13 dei D.Ivo n. 38/00 per il fatto di aver riscosso dal datore di lavoro una somma superiore a titolo di risarcimento del danno biologico derivante da responsabilità contrattuale. A giudizio della D’A. il rischio di una ingiustificata locupletazione non sussisteva in quanto la Corte di merito avrebbe dovuto limitarsi a valutare la sussistenza dei presupposti di cui all'art. 13 del D.I.vo n. 38/00 e procedere all'accertamento del relativo diritto, nel qual caso avrebbe potuto dichiarare che l'indennità economica effettivamente riconosciutale doveva essere portata in detrazione al maggior importo erogatole dal datore di lavoro. Precisa, inoltre, la ricorrente di saper bene di non aver diritto a riscuotere sia il quantum del risarcimento del danno, sia l'indennizzo ex D.L.vo n. 38/00, ma di aver interesse unicamente a sentir affermare che non poteva esserle negato un diritto costituzionalmente riconosciuto pur in presenza di tutti i requisiti di legge, costituiti dalla sussistenza del danno all'integrità psico-fisica superiore al minimo indennizzabile derivato dall'attività lavorativa e dal riconoscimento della malattia professionale. 2. Col secondo motivo, formulato ai sensi dell'art. 360 n. 3 c.p.c. per violazione dell'art. 100 c.p.c., la ricorrente contesta la parte della motivazione della sentenza in cui si pone in evidenza la sua carenza di interesse ad agire rispetto alla richiesta di una pronuncia dichiarativa della sussistenza della malattia professionale. La medesima sostiene che, una volta accertati in corso di causa i requisiti di cui all'art. 13 del D.L.vo n. 38/00, vale a dire la natura professionale della malattia e la presenza di un'invalidità superiore al minimo indennizzabile, la Corte di merito avrebbe dovuto procedere al riconoscimento dei diritto e non affrontare la problematica di natura strettamente patrimoniale, del tutto estranea a quella dell'accertamento del diritto. 3. Col terzo motivo, proposto ai sensi dll'art. 360 n. 3 c.p.c. per violazione dell'art. 13, comma 5, dei D.I.vo n. 38/00, la ricorrente si duole della parte della motivazione in cui si evidenzia la sua carenza di interesse sotto il profilo patrimoniale, facendo osservare che non riconoscendole il diritto in questione la Corte di merito le avrebbe negato la possibilità di procedere in futuro, in caso di un eventuale nuovo infortunio, al cumulo delle invalidità e di vedersi riconosciuto conseguentemente il diritto ad una rendita vitalizia indipendentemente dal fatto che nel presente giudizio non fosse ipotizzabile alcun aggravamento. 4. Osserva la Corte che i tre motivi, che per ragioni di connessione possono essere esaminati congiuntamente, sono infondati. Orbene, per una esatta ricostruzione della fattispecie, occorre partire dalla considerazione che la Corte territoriale ha ricordato che costituiva circostanza pacifica che la lavoratrice aveva percepito dal Ministero della Difesa, suo datore di lavoro, la somma capitale di € 379.624,89 a titolo di danno biologico, liquidata con sentenza del Tribunale di La Spezia confermata in grado d'appello, e che all'esito della perizia d'ufficio era emerso che l'indennizzo in conto capitale che le competeva ammontava ad euro 15.574,26, per cui la medesima non poteva vantare alcun credito nei confronti dell'Inail. Infatti, la D’A. aveva ricevuto dal datore di lavoro un risarcimento notevolmente superiore all'indennizzo preteso nei confronti dell'istituto assicuratore e, di conseguenza, secondo la Corte di merito, mancava in radice un danno atto a giustificare quest'ultima richiesta. Quindi, secondo il ragionamento della Corte di merito, quel che si voleva ottenere era una liquidazione duplice, giacchè l'appellante aveva già ottenuto dal datore di lavoro una somma comprensiva sia dell'importo indennizzabile dall'Inail che dei risarcimento per l'ammontare del residuo danno differenziale, con la conseguenza che ulteriori somme rappresentavano null'altro che una indebita locupletazione da parte dell'interessata. 5. Orbene, tali essendo le premesse in fatto ed in diritto della vicenda in esame, si rileva che non sussiste la lamentata violazione della norma di cui all'art. 13 dei D.Ivo n. 38/2000, avendo la Corte di merito accertato, con motivazione congrua ed esente da rilievi di ordine logico-giuridico, che difettava in radice il presupposto del danno indennizzabile. Né le censure mosse consentono di superare l'argomento di fondo, ben motivato dalla Corte di merito, del rischio concreto di una duplicazione dei risarcimento e di un correlato indebito arricchimento dell'assicurata, dovendosi tener presente che il decreto legislativo 23 febbraio 2000, n. 38 ha inserito all'art. 13 il danno biologico nella copertura assicurativa pubblica. Tra l'altro, la stessa difesa della D’A. contribuisce a rendere verosimile un tale rischio se solo si pone attenzione al fatto che nelle conclusioni rassegnate col presente ricorso è richiesta la condanna dell'Inail all'indennizzo ex art. 13 del D.Ivo n. 38/2000, nonostante che nelle premesse fosse stato puntualizzato che non si intendeva sostenere il diritto a riscuotere sia il quantum del risarcimento che l'indennizzo di cui al D.Ivo n. 38/2000. 6. Oltretutto, la decisione impugnata è condivisibile anche nella parte in cui richiama, ai fini della riscontrata carenza d'interesse dell'assicurata, l'orientamento giurisprudenziale per il quale, nel caso in cui la malattia professionale in atto non sia indennizzabile per l'inesistenza di una infermità inabilitante nella misura richiesta dalla legge, la sola prospettazione del rischio di aggravamento dell'infermità, suscettibile di una eventuale futura valorizzazione, non giustifica di per sè la richiesta di emissione di una sentenza di mero accertamento. Infatti, questa Corte ha già precisato Cass. sez. lav. n. 336 del 16.1.1998 che nel caso di malattia professionale in atto non indennizzabile per l'inesistenza di una infermità inabilitante nella misura richiesta, non è possibile una pronuncia di mero accertamento, con efficacia di giudicato, dell'infermità stessa in vista di eventuali futuri aggravamenti, non essendo al riguardo configurabile - come è, invece, ove siano contestate l'esistenza di un rapporto di lavoro subordinato, l'inclusione dell'attività svolta nella tabella delle lavorazioni morbigene o l'esposizione al rischio - una questione pregiudiziale, di cui ai sensi dell'art. 34 cod. proc. civ. possa chiedersi l'accertamento, con efficacia di giudicato, indipendentemente dall'esito della domanda principale, bensì trattandosi di uno degli elementi costitutivi dei diritto alla rendita, che può essere accertato dal giudice solo come fondamento della relativa pretesa fatta valere in giudizio, non di per sè e per gli effetti futuri eventualmente ricavabili da tale accertamento . Conf. a C. sez. lav. n. 4124 del 4/5/1996 7. Pertanto, il ricorso va rigettato. Le spese di lite del presente giudizio seguono la soccombenza della ricorrente e vanno liquidate a suo carico come da dispositivo, unitamente al contributo unificato di cui all'art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002 P.Q.M . La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese dei presente giudizio nella misura di € 2100,00, di cui € 2000,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge. Ai sensi dell'art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.