Finisce in carcere e non può più svolgere la prestazione lavorativa. La retribuzione non gli è dovuta

Quando il prestatore non adempie all’obbligazione principale della prestazione lavorativa non per colpa del datore di lavoro, non può essere fatto carico a quest'ultimo dell’adempimento dell’obbligazione di corresponsione della retribuzione.

Così la pronuncia n. 20321/16 della S.C. del 10 ottobre. Il caso. La Corte d’appello riconosceva il diritto di un dipendente dell’Agenzia delle Entrate alla ricostruzione della posizione giuridico-economica per il periodo 11 novembre 1993 – 26 maggio 1994 a seguito di sentenza definitiva di assoluzione del giudice penale, rilevando che solo per questo periodo la sospensione cautelare del servizio era dipesa da un’autonoma decisione della Pubblica Amministrazione, mentre per il precedente 13 febbraio 1993 – 10 novembre 1993 si era trattato di una sospensione automatica ed obbligaotoria per impossibilità della prestazione a causa della privazione della libertù personale del dipendente, ipotesi non compresa nell’art. 97 TU n. 3/1957. Si affida ad un unico motivo di ricorso in Cassazione il dipendente, denunciando la violazione dell’art. 97 cit riferendosi tale norma, nel prevedere la restituzione degli assegni non percepiti, a tutti i casi di sospensione, senza alcuna distinzione tra queli facoltativi e quelli obbligatori. La custodia cautelare in carcere. La Corte però non è d’accordo. Il fatto storico della sottoposizione alla custodia cautelare in carcere, con conseguente assoluta impossibilità di rendere la prestazione lavorativa, costituisce circostanza che supera e si sovrappone alla sospensione cautelare, costituendo dunque un’autonoma causa di esclusione del diritto alla retribuzione per il periodo di detenzione. Ciò deriva dal principio generale secondo cui, quando il prestatore non adempie all’obbligazione principale della prestazione lavorativa non per colpa del datore di lavoro, a questi non può essere fatto carico dell’adempimento dell’obbligazione di corresponsione della retribuzione. come affermato, ex multis , da Cass. n. 19169/2006 e, da ultimo, da Cass. n. 11391/2014 . Gli effetti pregiudizievoli conseguenti alla perdita della retribuzione si connettono in tale ipotesi ad un provvedimento della P.A. necessitato dallo stato restrittivo della libertà personale del dipendente, che determina l’adozione di un provvedimento di sospensione cautelare obbligatoria. Il ricorso è rigettato.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 18 maggio – 10 ottobre 2016, n. 20321 Presidente Napoletano – Relatore Boghetich Svolgimento del processo Con sentenza del 29.11.2013 la Corte di appello di Brescia, in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Bergamo, ha riconosciuto il diritto di P.R. , dipendente dell’Agenzia delle Entrate, alla ricostruzione della posizione giuridico-economica per il periodo 11.11.1993 26.5.1994 a seguito di sentenza definitiva di assoluzione del giudice penale con formula perché il fatto non sussiste , rilevando che solamente per questo periodo la sospensione cautelare dal servizio era dipesa da una autonoma decisione della pubblica amministrazione, mentre per il periodo precedente 13.2.1993 - 10.11.1993 si era trattato di una sospensione automatica ed obbligatoria per impossibilità della prestazione a causa della privazione della libertà personale del dipendente, ipotesi che non poteva ritenersi compresa nella dizione sospensione disposta in dipendenza del procedimento penale ” contenuta nell’art. 97 del T.U. n. 3 del 1957. Avverso la sentenza il dipendente propone impugnazione affidata a un motivo. L’Agenzia delle Entrate resiste con controricorso. Motivi della decisione 1. Con l’unico motivo di ricorso il dipendente denuncia violazione e/o falsa applicazione dell’art. 97, comma 1, del T.U. n. 3 del 1957 recepito dall’art. 27, comma 7, del CCNL comparto Ministeri 16.5.1995 , riferendosi, tale norma, nel prevedere la restituzione degli assegni non percepiti, a tutti i casi di sospensione, senza alcuna distinzione tra quelli facoltativi e quelli obbligatori. Rileva, inoltre, che la Corte avrebbe errato ad attribuire una valenza sanzionatoria all’istituto della restitutio in integrum stipendiale ossia la differenza tra quanto percepito a titolo di assegno alimentare durante la sospensione e quanto dovuto a titolo di retribuzione , che ha, invece, solamente finalità di tutelare il lavoratore a fronte di una situazione che lo stesso ha subito senza sua colpa. 2. Il motivo non merita accoglimento. L’art. 97, comma 1, del T.U. 10.1.1957, n. 3 rubricato Revoca della sospensione recita Quando la sospensione cautelare sia stata disposta in dipendenza del procedimento penale e questo si concluda con sentenza di proscioglimento o di assoluzione passata in giudicato perché il fatto non sussiste o perché l’impiegato non lo ha commesso, la sospensione è revocata e l’impiegato ha diritto a tutti gli assegni non percepiti, escluse le indennità per servizi e funzioni di carattere speciale o per prestazioni di lavoro straordinario e salva deduzione dell’assegno alimentare eventualmente corrisposto . La sentenza della Corte bresciana è conforme a principio di diritto già affermato da questa Corte Cass. n. 15941/2013 ed anche più recentemente ribadito Cass. 11391/2014 . Invero, il fatto storico della sottoposizione alla misura della custodia cautelare in carcere, con conseguente assoluta impossibilità di rendere la prestazione lavorativa, costituisce, come già rilevato in altre precedenti decisioni di legittimità cfr. Cass. 26.3.1998 n. 3209, Cass. 16.10.1990 n. 10087, Cass. 9.9.2011 n. 18528 , circostanza che supera e si sovrappone alla sospensione cautelare, costituendo una autonoma causa di esclusione del diritto alla retribuzione per il periodo di detenzione, non prevedendo specificamente la normativa del testo unico applicabile una disciplina diversa e più favorevole. Più propriamente, tale conseguenza, come osservato da Cass. 6.9.2006, n. 19169, deriva dal principio generale secondo cui, quando il prestatore non adempia all’obbligazione principale della prestazione lavorativa non per colpa del datore di lavoro, a questi non può essere fatto carico dell’adempimento dell’obbligazione di corresponsione della retribuzione, così come per ogni caso di assenza ingiustificata o non validamente giustificata dal lavoro v. Cass. 19169/2006 cit. . Vale rimarcare - ha quindi già affermato questa Corte - che gli effetti pregiudizievoli conseguenti alla perdita della retribuzione si riconnettono in tale ipotesi ad un provvedimento della P.A. necessitato dallo stato restrittivo della libertà personale del dipendente, che determina l’adozione di un provvedimento di sospensione cautelare obbligatoria sospensione d’ufficio e non ad un comportamento volontario ed unilateralmente assunto dal datore di lavoro come nell’ipotesi di adozione di un provvedimento di sospensione facoltativa durante la pendenza del procedimento penale od anche solo disciplinare nei confronti del dipendente V. anche, da ultimo, Cass. 5147/2013, relativamente a restituito in integrum limitata alla retribuzione dovuta per il periodo di sospensione cautelare facoltativa . 3. In conclusione, il ricorso va respinto. Le spese di lite seguono il criterio della soccombenza. Il ricorso è stato notificato il 5.5.2014, dunque in data successiva a quella 31/1/2013 di entrata in vigore della legge di stabilità del 2013 L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 , che ha integrato il D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, aggiungendovi il comma 1 quater del seguente tenore Quando l’impugnazione, anche incidentale è respinta integralmente o è dichiarata inammissibile o improcedibile, la parte che l’ha proposta è tenuta a versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione, principale o incidentale, a norma art. 1 bis. Il giudice da atto nel provvedimento della sussistenza dei presupposti di cui al periodo precedente e l’obbligo di pagamento sorge al momento del deposito dello stesso . Essendo il ricorso in questione avente natura chiaramente impugnatoria integralmente da respingersi, deve provvedersi in conformità. P.Q.M. La Corte, rigetta il ricorso. Condanna la parte ricorrente alla rifusione delle spese di lite a favore del controricorrente, liquidate in Euro 3.000,00 per compensi professionali, oltre spese prenotate a debito. Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater del D.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso articolo 13.