Problemi psichici gravi, lavoratrice costretta a casa: niente rendita dall’INAIL

Respinta l’ipotesi della malattia professionale. I problemi lamentati dalla donna, e che l’hanno obbligata a rinunciare al proprio lavoro, trovano origine difatti in una situazione patologica già esistente, slegata dall’ambiente lavorativo.

Problemi psichici per la dipendente. L’azienda decide di farla rientrare in Italia, ma questa decisione non serve a migliorare la situazione la donna, difatti, si rivela non più in grado di svolgere i propri compiti. Ciò nonostante, è legittima la decisione dell’‘INAIL’ che nega alla lavoratrice la rendita prevista in caso di malattia professionale Cassazione, sentenza n. 17710/16, sezione Lavoro, depositata il 7 settembre . Patologia. Nessun dubbio per il giudice del lavoro del Tribunale né per i giudici della Corte d’appello da respingere la pretesa avanzata da una donna nei confronti dell’‘Inail’. Impossibile riconoscerle la rendita prevista per i soggetti colpiti da malattia professionale . Decisiva la mancanza di prove sia sulla natura professionale della malattia psichica della lavoratrice, sia sulla responsabilità , anche solo parziale, dell’azienda. E su identica posizione si attestano anche i Magistrati della Cassazione, che respingono tutte le obiezioni mosse dal legale della donna. Non contestato, sia chiaro, il disturbo psichico che ha impedito il prosieguo dell’attività in azienda. Tuttavia, esso viene collegato a una patologia già presente nella donna, e non all’ambiente lavorativo. In questa ottica vengono richiamati alcuni particolari importanti della vicenda. Più specificamente, è emerso che la donna ebbe a manifestare disagio e problematiche di natura psichica quando ancora si trovava in Germania e svolgeva mansioni da lei ritenute gratificanti , e difatti fu il padre a chiedere che venisse trasferita in Italia per stare vicino alla famiglia d’origine , viste le difficoltà psicologiche che la affliggevano e che erano state confermate anche dalle colleghe tedesche . Mancano elementi, quindi, secondo i Magistrati, per parlare di malattia professionale . E ciò fa cadere l’ipotesi di una responsabilità della società per cui lavorava la donna.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 21 aprile – 7 settembre 2016, n. 17710 Presidente Mammone – Relatore Berrino Svolgimento del processo Il giudice del lavoro del Tribunale di Milano rigettò la domanda di M.L. volta alla condanna dell'Inail alla costituzione della rendita di cui all'art. 13, comma 2, lett. b , del d.lgs. n. 38/2000 per malattia professionale o, in subordine, per infortunio sul lavoro pari al grado di inabilità del 24% o, in via gradata, alla corresponsione dell'indennizzo di cui alla lettera a della predetta norma o, in ultima analisi, al riconoscimento di un grado di inabilità compreso fra il 6% ed il 15% per lo stesso infortunio, con decorrenza dalla denunzia del 30.9.2003. A seguito di gravame dell'assicurata la Corte d'appello di Milano - sezione lavoro, con sentenza del 21 - 23/6/2010, ha rigettato l'impugnazione della medesima in considerazione della mancanza di prova, sia in ordine alla natura professionale della malattia, sia in merito alla responsabilità del datore di lavoro per la sua insorgenza. Per la cassazione della sentenza propone ricorso M.L. con un solo motivo. L'Inail resiste con controricorso illustrato da memoria ai sensi dell'art. 378 c.p.c. Motivi della decisione Con un solo motivo la ricorrente censura l'impugnata sentenza ritenendo che la Corte d'appello di Milano ha fornito una motivazione ripetitiva di quella erronea del primo giudice senza prendere in considerazione le specifiche censure del gravame, né la richiesta di consulenza tecnica, lasciando in tal modo aperta la questione medico-legale non risolta in prime cure. La ricorrente lamenta in particolare che i giudici di merito, pur a fronte di un documentato parere di uno specialista della materia, suffragato da esami psicodiagnostici, hanno ritenuto di pronunciarsi nel senso di una incidenza esclusiva della preesistenza morbosa sulla genesi di un disturbo psichico che nemmeno viene correttamente qualificato, mentre, al contrario, un tale disturbo rappresentava la conferma dell'esistenza di un nesso causale con l'origine professionale della malattia psichica nascente da un disturbo d'ansia reattivo cronicizzato in sindrome depressiva, poi strutturatasi in un disturbo più complesso con marcato ritiro affettivo e tono dell'umore gravemente depresso. Il ricorso è infondato. Invero, premesso che l'unico motivo, seppur non rubricato come denunzia di violazione di legge o di motivazione, è sostanzialmente proposto sulla base di un asserito vizio di motivazione della sentenza, va ricordato che la valutazione espressa dal giudice di merito in ordine alla obbiettiva esistenza delle infermità, alla loro natura ed entità, nonché alla loro dipendenza dall'attività lavorativa svolta costituisce tipico accertamento di fatto incensurabile in sede di legittimità quando è sorretto, come nella fattispecie, da motivazione immune da vizi logici e giuridici che consenta di identificare l'iter argomentativo posto a fondamento della decisione. In sostanza, nella fattispecie la ricorrente ha contrapposto alla valutazione del giudice di appello, un diverso apprezzamento dell'origine della patologia riscontrata a suo carico, senza evidenziare alcuna specifica carenza o deficienza diagnostica o errore scientifico, bensì limitandosi ad affermare che i giudici di merito, pur a fronte di un parere di uno specialista della materia, suffragato da esami psicodiagnostici, hanno ritenuto di pronunciarsi nel senso di una incidenza esclusiva della preesistenza morbosa sulla genesi di un disturbo psichico. In realtà, la Corte territoriale, con motivazione adeguata ed esente da rilievi di legittimità, ha posto bene in evidenza che nel giudizio di primo grado era emerso che la ricorrente ebbe a manifestare disagio e problematiche di natura psichica quando ancora si trovava in Germania e svolgeva mansioni dalla medesima ritenute gratificanti, aggiungendo che la teste C. aveva riferito che era stato il padre dell'appellante a richiedere che la stessa venisse trasferita in Italia onde poter stare vicino alla famiglia di origine, viste le difficoltà psicologiche nelle quali si trovava, difficoltà che erano state confermate anche dalle colleghe tedesche. Ha, altresì, precisato la Corte che, come confermato dalle prove testimoniali assunte, la ricorrente, a causa del suo stato psicofisico compromesso, non appena rientrata in Italia non fu pila in grado di prestare una proficua attività lavorativa, nonostante la società si fosse mostrata disponibile nei suoi confronti, andando incontro alle sue esigenze, seppur senza risultato alcuno, stante le difficoltà di ordine psicologico dalla medesima dimostrate che le impedivano di prestare proficuamente mansioni equivalenti a quella in precedenza svolte. Quindi, la Corte territoriale ha tratto la logica conclusione che bene aveva fatto il primo giudice a rigettare la domanda, stante la mancanza di qualsiasi prova in relazione alla natura professionale della malattia e alla riconducibilità dell'insorgenza della stessa ad un'ipotetica responsabilità della società italiana, ritenendo, in tal modo, superflua l'ammissione della consulenza tecnica d'ufficio richiesta dalla ricorrente. Orbene, non va dimenticato che in tema di giudizio di cassazione, la deduzione di un vizio dì motivazione della sentenza impugnata conferisce al giudice di legittimità non il potere di riesaminare il merito della intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì la sola facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice del merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l'attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi, dando, così, liberamente prevalenza all'uno o all'altro dei mezzi di prova acquisiti salvo i casi tassativamente previsti dalla legge . Conseguentemente, per potersi configurare il vizio di motivazione su un asserito punto decisivo della controversia, è necessario un rapporto di causalità fra la circostanza che si assume trascurata e la soluzione giuridica data alla controversia, tale da far ritenere che quella circostanza, se fosse stata considerata, avrebbe portato ad una diversa soluzione della vertenza. Pertanto, il mancato esame di elementi probatori, contrastanti con quelli posti a fondamento della pronunzia, costituisce vizio di omesso esame di un punto decisivo solo se le risultanze processuali non esaminate siano tali da invalidare, con un giudizio di certezza e non di mera probabilità, l'efficacia probatoria delle altre risultanze sulle quali il convincimento è fondato, onde la ratio decidendi venga a trovarsi priva di base. Nella specie la S.C. ha ritenuto inammissibile il motivo di ricorso in quanto che la ricorrente si era limitata a riproporre le proprie tesi sulla valutazione delle prove acquisite senza addurre argomentazioni idonee ad inficiare la motivazione della sentenza impugnata, peraltro esente da lacune o vizi logici determinanti . Cass. Sez. 3 n. 9368 del 21/4/2006 in senso conf. v. anche Cass. sez. lav. n. 15355 del 9/8/04 Nella fattispecie, la Corte d'appello di Milano ha attentamente valutato con argomentazioni logiche e ben motivate in ordine ai riscontri eseguiti, immuni da vizi giuridici, il materiale istruttorio raccolto, per cui le doglianze appena riferite non scalfiscono la validità della relativa ratio decidendi . Pertanto, il ricorso va rigettato. Le spese di lite del presente giudizio seguono la soccombenza della ricorrente e vanno liquidate come da dispositivo. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio nella misura di € 3100,00, di cui € 3000,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori dì legge.