La nullità del termine del contratto di lavoro non è “sanata” dal presunto mutuo consenso delle parti

La Corte d’appello di Roma avrebbe ritenuto intervenuta la risoluzione del contratto di lavoro per mutuo consenso in base ad elementi insufficienti, senza tener conto dei parametri indicati dalla giurisprudenza di legittimità. Nel giudizio ai fini del riconoscimento della nullità del termine apposto ad un contratto di lavoro a termine, la prova della presunta risoluzione consensuale grava sul datore di lavoro.

Lo afferma la Corte di Cassazione con la sentenza n. 23, depositata il 7 gennaio 2015. Il caso. Il ricorrente aveva adito il Tribunale di primo grado di Roma per ottenere la condanna di Poste Italiane Spa alla sua immediata riassunzione in servizio e al pagamento delle mensilità maturate, previa declaratoria di nullità del termine previsto dal contratto di lavoro a tempo determinato che aveva sottoscritto con la società. Il termine del contratto era determinato in relazione ad esigenze eccezionali conseguenti alla fase di ristrutturazione degli assetti occupazionali in corso presso la società. Il Tribunale aveva rigettato la domanda ritenendo fondata l’eccezione presentata da Poste Italiane che rivendicava la cessazione del rapporto di lavoro per mutuo consenso, in riferimento sia al periodo di tempo intercoso dalla fine del rapporto, sia all’unicità del contratto a termine sottoscritto e, infine, all’assenza di un perdurante interesse del ricorrente al rapporto di lavoro. L’interessato impugna la sentenza presso la Corte d’appello di Roma che conferma la decisione di primo grado. La questione, infine, approda alla Corte di Cassazione, a fronte della quale il ricorrente propone due motivi di ricorso, mentre Poste Italiane resiste con controricorso, chiedendo il rigetto dell’impugnazione sulla base della deduzione del recesso per mutuo consenso. Aspetti procedurali la deduzione della risoluzione consensuale da parte di Poste Italiane. Uno dei motivi del ricorso è la violazione del combinato disposte degli artt. 416, comma 2 e 418, comma 1, c.p.c Il ricorrente sostiene che la società avrebbe dovuto dedurre la risoluzione consensuale del rapporto di lavoro con domanda riconvenzionale, anziché con eccezione, come è effettivamente avvenuto. Tale circostanza avrebbe condotto all’inammissibilità della stessa domanda riconvenzionale, come già evidenziato anche in appello. La Cassazione ritiene infondato il predetto motivo di ricorso in quanto non si è in presenza di un’eccezione in senso stretto ma di una mera difesa. La risoluzione consensuale del contratto è difatti considerata, dalla pregressa giurisprudenza di legittimità, come fatto oggettivamente estintivo dei diritti nascenti dal rapporto, desumibile dalla volontà manifestata dalle parti e dunque accertabile anche d’ufficio dalla Suprema Corte ove ve ne fosse la necessità. Ma vi è la prova della risoluzione consensuale? Il ricorrente lamenta anche l’insussistenza di elementi sufficienti a fondare il presunto scioglimento consensuale del rapporto, proposto da Poste Italiane. In particolare, secondo i motivi del ricorso, la Corte d’appello avrebbe considerato intervenuto il mutuo consenso sulla base di elementi inconsistenti, in contraddizione con gli insegnamenti giurisprudenziali della stessa Cassazione. Inoltre l’onere dalla prova sarebbe stato erroneamente invertito, dovendo il lavoratore provvedere alla dimostrazione di un perdurante interesse al rapporto di lavoro. La Suprema Corte accoglie il predetto motivo di ricorso, affermando la necessità di un accertamento della chiara, univoca e comune volontà delle parti ai fini della configurazione dello scioglimento del rapporto per mutuo consenso. Come già precedentemente affermato, il mero decorso del tempo o l’inerzia del lavoratore non sono elementi sufficienti per ritenere intervenuto un mutuo consenso allo scioglimento del rapporto, così come insufficiente sarebbe l’accettazione del TFR da parte del lavortore e la mancata offerta della prestazione. Si tratta in tutti questi casi di dati non suscettibili di essere interpretati come sinonimo di una chiara e certa volontà, da parte di entrambe le parti, a porre fine al contratto. Inoltre, viene affermato che nel momento in cui il datore di lavoro eccepisce la risoluzione per mutuo consenso del contratto, su di lui grava l’onere della prova circa gli elementi da cui dedurre tale comune volontà. Per questi motivi, la Corte accoglie il motivo del ricorso e cassa la sentenza impugnata con rinvio alla Corte d’appello di Roma per una diversa risoluzione.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 13 novembre 2014 – 7 gennaio 2015, numero 23 Presidente Lamorgese – Relatore Tricomi Svolgimento del processo 1. La Corte d'Appello di Roma, con la sentenza numero 772/08, decidendo sull'impugnazione proposta da C.F. nei confronti della società Poste Italiane spa, avverso la sentenza resa tra le parti dal Tribunale di Roma, rigettava l'appello. 2. Il C. aveva adito il Tribunale perché, previa declaratoria della nullità del termine apposto al contratto a termine relativo al periodo 2 novembre 1999 - 30 novembre 1999 per esigenze eccezionali conseguenti alla fase di ristrutturazione e di rimodulazione degli assetti occupazionali in corso, quale condizione della trasformazione della natura giuridica dell'Ente ed in ragione della graduale introduzione di nuovi processi produttivi, di sperimentazione di nuovi servizi ed in attesa dell'attuazione del progressivo e completo equilibrio sul territorio delle risorse umane , fosse disposta la condanna della società Poste italiane spa alla sua immediata riassunzione in servizio ed al pagamento di tutte le mensilità maturate dalla data di cessazione del rapporto di lavoro, oltre accessori. 3. Il Tribunale rigettava la domanda. 4. La Corte d'Appello riteneva fondata l'eccezione di risoluzione del rapporto di lavoro per mutuo consenso prospettata dalla società, sia in ragione del tempo più di quattro anni di non attuazione del rapporto , sia per l'unicità del contratto a termine, della durata di un mese, mancando allegazioni specifiche dell'appellante relative al suo perdurante interesse. 5. Per la cassazione della sentenza resa in grado di appello ricorre il C. prospettando due motivi di ricorso. 6. La società Poste italiane spa resiste con controricorso, chiedendo il rigetto dell'impugnazione con riguardo alla statuizione sul recesso per mutuo consenso. Motivi della decisione 1. Con il primo motivo di ricorso è dedotta la violazione degli artt. 1372, comma 1, 1175, 1375 e 2697 cc, nonché motivazione insufficiente ed incongrua art. 360, numero 3 e numero 5, cpc . La Corte d'Appello avrebbe ritenuto intervenuta la risoluzione per mutuo consenso in base ad elementi insufficienti senza tener conto dei parametri all'uopo indicati dalla giurisprudenza di legittimità. Ciò, tenuto conto del breve lasso temporale trascorso erroneamente ritenuto sufficiente per verificare l'intervenuta risoluzione, nonché dell'irrilevanza delle ulteriori circostanze significative erroneamente individuate dal giudice di appello. Sussisterebbe, altresì, la violazione dell'art. 2697, primo e secondo comma, cc, avendo il giudice posto a carico del lavoratore la prova del perdurante interesse al rapporto di lavoro. 2. Con il secondo motivo di ricorso è dedotta la violazione del combinato disposto degli artt. 416, secondo comma, e 418, primo comma, cpc, e/o vizio di omessa motivazione art. 360, numero 3 e 5, cpc . Espone il ricorrente che la dedotta risoluzione consensuale del rapporto di lavoro avrebbe dovuto essere proposta dalla società con domanda riconvenzionale e non con eccezione, con la conseguente inammissibilità della stessa, come già dedotto nel ricorso in appello, benché il Tribunale avesse rigettato al domanda nel merito. 3. I suddetti motivi, poiché possiedono, i caratteri della tassatività e della specificità e non implicano una mera richiesta di diversa valutazione dei fatti di causa rispetto alla pronuncia della Corte d'Appello, si sottraggono all'eccezione di inammissibilità proposta dalla contro ricorrente. 3.1. È preliminare l'esame del secondo motivo di ricorso. Lo stesso non è fondato e deve essere rigettato, in quanto non si è in presenza di una eccezione in senso stretto ma di una mera difesa. Come questa Corte ha già avuto modo di affermare, la risoluzione consensuale del contratto non costituisce oggetto di eccezione in senso proprio, essendo lo scioglimento per mutuo consenso un fatto oggettivamente estintivo dei diritti nascenti dal negozio bilaterale, desumibile dalla volontà in tal senso manifestata, anche tacitamente, dalle parti, tanto che può essere accertato d'ufficio dal giudice pure in sede di legittimità, ove non vi sia necessità di effettuare indagini di fatto cfr., Cass., numero 10201 del 2012, numero 6125 del 2014 . 3.2. Il primo motivo di ricorso è fondato e deve essere accolto. 3.3. Affinché possa configurarsi una risoluzione del rapporto per mutuo consenso, è necessario che sia accertata - sulla base del lasso di tempo trascorso dopo la conclusione dell'ultimo contratto a termine, nonché del comportamento tenuto dalla parti e di eventuali circostanze significative - una chiara e certa comune volontà delle parti medesime di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo. Questa Corte ha, altresì, precisato Cass., numero 1780 del 2014, Cass. numero 21310 del 2014, e giurisprudenza nella stessa richiamata che il solo decorso del tempo o la semplice inerzia del lavoratore, successiva alla scadenza del termine, sono insufficienti a ritenere sussistente la risoluzione per mutuo consenso, costituente pur sempre una manifestazione negoziale, che, seppur tacita, non può essere configurata su un piano esclusivamente oggettivo, in conseguenza della mera cessazione della funzionalità di fatto del rapporto di lavoro. In tema, si richiama anche Cass., sentenza numero 2279 del 2010 ove questa Corte, sulla base del medesimo principio, ha ritenuto non censurabile la motivazione della sentenza di merito la quale, nel ritenere che la mera inerzia del lavoratore non poteva essere interpretata come fatto estintivo del rapporto, aveva fatto riferimento a valutazioni di tipicità sociale, valorizzando sia la durata limitata della inerzia del lavoratore - tempo considerato congruo per decidere di intraprendere la via giudiziaria ed impostare la difesa -, sia la notoria circostanza relativa all'affidamento che il lavoratore precario normalmente ripone sulla prospettiva di futuri contratti a termine, nonché al timore di pregiudicare tale esito con l'iniziativa giudiziaria. Inoltre la giurisprudenza di legittimità ha avuto modo di rilevare che non appaiono indicative di una intenzione risolutoria l'accettazione del TFR e la mancata offerta della prestazione, trattandosi di comportamenti entrambi non interpretabili, per assoluto difetto di concludenza, come tacita dichiarazione di rinunzia ai diritti derivanti dalla illegittima apposizione del termine cfr., Cass., numero 15628 del 2001, in motivazione , ovvero la condotta di chi sia stato costretto ad occuparsi o comunque cercare occupazione dopo aver perso il lavoro per cause diverse dalle dimissioni cfr., Cass., numero 839/2010, in motivazione, nonché, in senso analogo, Cass., numero 15900 del 2005, in motivazione . 4. La motivazione addotta dalla Corte territoriale, dunque, va considerata insufficiente, alla luce dei sopra esposti principi, in quanto è principalmente fondata su un fatto il mero decorso del tempo - più di quattro anni - di non attuazione del rapporto di lavoro di per sé giuridicamente non rilevante e risulta accompagnata dalla valorizzazione di circostanze quali la durata o l'unicità del contratto a termine non suscettibili di essere interpretate come sintomatiche di una chiara e certa volontà di entrambe le parti di considerare definitivamente chiuso il rapporto lavorativo, tenuto conto, altresì, che nel giudizio instaurato ai fini del riconoscimento di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato per nullità del termine apposto a successivi contratti, grava sul datore di lavoro, che eccepisca la risoluzione per mutuo consenso dei contratti succedutisi nel tempo, l'onere di provare le circostanze dalle quali possa ricavarsi la volontà chiara e certa delle parti di volere porre definitivamente fine ad ogni rapporto di lavoro Cass. numero 16932 del 2011 . 5. La Corte rigetta il secondo motivo di ricorso. Accoglie il primo motivo. Cassa la sentenza impugnata e rinvia anche per le spese del presente giudizio alla Corte di Appello di Roma in diversa composizione. P.Q.M. La Corte rigetta il secondo motivo di ricorso. Accoglie il primo motivo. Cassa la sentenza impugnata e rinvia anche per le spese del presente giudizio alla Corte di Appello di Roma in diversa composizione.