Manager stressato muore: l’azienda è responsabile

Non integrano mai una colpa del lavoratore gli effetti della conformazione della condotta lavorativa ai canoni di cui all’articolo 2104 c.c., coerentemente con il livello di responsabilità proprio delle funzioni e in ragione del soddisfacimento dell’interesse dell’azienda, la quale deve conoscere le modalità con cui i propri dipendenti lavorano.

Così ha deciso la Corte di Cassazione con la sentenza 9945/2014, responsabilizzando le aziende anche per lo stress patito dai propri quadri. È il manager che si stressa o è l’azienda che lo stressa? La vedova di un manager, in proprio ed in qualità di legale rappresentante della figlia, chiedeva ed otteneva nei primi due gradi di giudizio la condanna dell’azienda al risarcimento del danno patrimoniale e morale derivante dal decesso del marito, avvenuto per infarto del miocardio. A sostegno della domanda, la donna deduceva che il coniuge, svolgendo mansioni di quadro, si era trovato a lavorare in condizioni di straordinario aggravio psico-fisico si fermava in azienda per una media di undici ore al giorno, si portava il lavoro a casa, era responsabile di svariati progetti e non era affiancato da alcun collaboratore. Dal canto suo, l’azienda sosteneva che i ritmi serratissimi non erano riconducibili alla volontà datoriale, bensì all’attitudine del manager, sempre disposto a lavorare con grande impegno e largo coinvolgimento emotivo. Nessuno aveva mai sollecitato la definizione dei lavori in corso o fissato tempi di consegna insostenibili, d’altronde, l’azienda non poteva conoscere le modalità di lavoro del manager, né quest’ultimo aveva mai avanzato doglianze in tal senso. Il primo problema da affrontare attiene alla responsabilità dell’azienda nella causazione della malattia professionale stress , sfociata in un infarto mortale. La norma di riferimento è l’articolo 2087 c.c. che impone all’imprenditore l’obbligo di adottare tutte le misure necessarie alla tutela dell’integrità fisica dei lavoratori, secondo le caratteristiche della prestazione svolta da questi ultimi. L’azienda deve sapere come lavorano i propri dipendenti. L’articolo 2087 c.c. non configura una responsabilità oggettiva in capo al datore di lavoro, di conseguenza, incombe sul lavoratore - che lamenti di aver subito un danno alla salute, a causa dell’attività lavorativa svolta - l’onere di provare l’esistenza del danno, la nocività dell’ambiente lavorativo, nonché il nesso causale tra l’uno e l’altro. Ove il lavoratore abbia fornito prova di tali circostanze, il datore di lavoro avrà l’onere di provare di aver adottato tutte le misure necessarie ad impedire il verificarsi del danno e che la malattia del dipendente non sia ricollegabile a tali obblighi. La Corte ha rilevato come nei precedenti gradi di giudizio la vedova e la figlia avessero provato il danno subito dal proprio caro a causa di condizioni di lavoro stressanti e come la perizia medico legale avesse accertato che l’infarto fosse riconducibile, con un’altissima probabilità, alle trascorse vicende lavorative. Inoltre, le prove testimoniali raccolte avevano evidenziato che il manager, per evadere il proprio lavoro, era costretto, ancorché non per sollecitazione diretta dell’azienda, a conformare i propri ritmi di lavoro alle richieste esorbitanti del datore. Il troppo lavoro aveva , quindi, ucciso il manager. Benché l’azienda non fosse la diretta responsabile dello stato di stress del manager, non poteva non sapere che quest’ultimo lavorasse giorno e notte! Secondo la Corte, infatti, deve presumersi, salvo prova contraria, che l’azienda conosca le modalità di lavoro di ciascun dipendente, poiché è da tale conoscenza che deriva l’assetto organizzativo adottato dall’imprenditore con le proprie direttive e disposizioni interne. La troppa diligenza non è mai una colpa. Stante il dovere di conoscenza dell’azienda, la Corte ritiene illogiche le difese di quest’ultima, secondo le quali, l’elevato ritmo di lavoro dipendeva dalla grande dedizione del manager e non certo dalla volontà aziendale. L’assoluto rispetto dell’obbligo di diligenza di cui all’articolo 2104 c.c. è un valore per il lavoratore e non può mai tradursi in una colpa o, quantomeno, in un elemento che attenui l’obbligo datoriale di tutelare la salute dei propri lavoratori. Naturalmente, la conformità all’obbligo di diligenza va valutata in base alle funzioni svolte dal lavoratore, alla luce dell’interesse aziendale. Pertanto, il manager, che in quanto tale svolge un ruolo di responsabilità, e che lavora alacremente anche per rispettare l’obbligo di diligenza, può essere sottoposto a stress o può essere indotto a lavorare con ritmi elevati e dannosi per il suo stato pisco-fisico. Tuttavia tali condizioni non possono essere ignorate dall’azienda che comunque si deve fare carico della salute dei propri dipendenti. Nel caso di specie, avendo ignorato le modalità di lavoro del manager e non avendo attuato alcuna misura per limitare lo stato di stress di quest’ultimo, l’azienda è da ritenersi responsabile per la causazione della malattia professionale sfociata, tragicamente, in decesso, con conseguente obbligo al risarcimento dei danni patrimoniali e morali patiti dagli eredi del manager.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 14 gennaio – 8 maggio 2014, numero 9945 Presidente Roselli – Relatore Blasutto Svolgimento del processo Con ricorso al Tribunale di Roma, I.F. agiva, in proprio e nella qualità di esercente la potestà sulla figlia minore S.A. , per ottenere la condanna della soc. Ericsson Telecomunicazioni, quale responsabile ai sensi dell'articolo 2087 cod. civ., al risarcimento dei danni patrimoniali e morali derivanti dal decesso del congiunto S.S. , avvenuto per infarto del miocardio. A sostegno della domanda deduceva che il coniuge, svolgendo mansioni di quadro, si era trovato ad operare, negli ultimi mesi del suo rapporto di lavoro, in condizioni di straordinario aggravio fisico l'attività lavorativa si era intensificata fino a raggiungere ritmi insostenibili l'impegno lavorativo era stato continuativo secondo una media di circa undici ore giornaliere e aveva comportato il protrarsi dell'attività a casa e fino a tarda sera gli svariati e complessi progetti erano stati affidati alla gestione diretta dello S. senza affiancamento di collaboratori. La Corte di appello di Roma, con sentenza del 24 maggio 2011, riformando la pronuncia di primo grado, accoglieva la domanda e condannava la soc. Ericsson Telecomunicazioni al pagamento, a titolo di risarcimento dei danni, della somma di Euro 434.137,00 in favore di I.F. e della somma di Euro 425.412,00 in favore di S.A. , oltre accessori, osservando che le allegazioni di parte ricorrente erano risultate comprovate in giudizio e che, secondo le condivisibili conclusioni del C.t.u. medico-legale nominato in corso di giudizio, l'infarto era correlabile, in via concausale, con indice di probabilità di alto grado, alle trascorse vicende lavorative. In accoglimento della domanda di garanzia svolta dalla società convenuta, dichiarava l'obbligo della società Milano Assicurazioni di tenere indenne la Ericsson Telecomunicazioni per l'importo complessivo di Euro 309.874,00, oltre accessori. Per la cassazione di tale sentenza la soc. Ericsson Telecomunicazioni propone ricorso sulla base di sei motivi, cui resistono con controricorso le eredi S. . La soc. Milano Assicurazioni aderisce ai primi cinque motivi del ricorso principale e resiste al sesto motivo, proponendo a sua volta ricorso incidentale nei confronti della Ericsson Telecomunicazioni, che resiste con controricorso. Avverso tale ricorso incidentale anche le eredi S. resistono con controricorso. Hanno depositato memorie difensive ex articolo 378 cod. proc. civ. la ricorrente principale e la ricorrente incidentale, nonché I.F. . Motivi della decisione Con il primo motivo del ricorso principale, la soc. Ericsson Telecomunicazioni denuncia violazione di legge in relazione agli articolo 116 cod. proc. civ. e 2087 cod. civ., nonché vizio di motivazione articolo 360 nnumero 3 e 5 cod. proc. civ. anche per omessa valutazione di alcuni punti decisivi della controversia, svolgendo le seguenti censure - se i ritmi di lavoro erano serratissimi e l'impegno lavorativo si estendeva sempre al di là del limite ordinario, come ritenuto dalla Corte di appello, ciò non era imputabile alla società datrice di lavoro, ma dipendeva dalla attitudine dello S. a sostenere e a lavorare con grande impegno e al suo coinvolgimento intellettuale ed emotivo nella realizzazione degli obiettivi - l'Azienda non era a conoscenza della modalità attraverso le quali la S. esplicava la sua attività lavorativa, né il dipendente aveva mai espresso doglianze o manifestato disagi fisici - era privo di riscontro probatorio che l'Azienda avesse imposto l'osservanza di ritmi insostenibili o fissato tempi di consegna dei progetti o sollecitato la definizione dei lavori in corso. Il motivo è infondato. La Corte di appello ha osservato, con motivazione logicamente argomentata e giuridicamente corretta, che la responsabilità del modello organizzativo e della distribuzione del lavoro fa carico alla società, la quale non può sottrarsi agli addebiti per gli effetti lesivi della integrità fisica e morale dei lavoratori che possano derivare dalla inadeguatezza del modello adducendo l'assenza di doglianze mosse dai dipendenti o, addirittura, sostenendo di ignorare le particolari condizioni di lavoro in cui le mansioni affidate ai lavoratori vengono in concreto svolte deve infatti presumersi, salvo prova contraria, la conoscenza, in capo all'azienda, delle modalità attraverso le quali ciascun dipendente svolge il proprio lavoro, in quanto espressione ed attuazione concreta dell'assetto organizzativo adottato dall'imprenditore con le proprie direttive e disposizioni interne. Nella ricostruzione fattuale compiuta dal giudice di merito, incensurabile in questa sede in quanto congruamente motivata ed immune da vizi logici, è emerso che lo S. , per evadere il proprio lavoro, era costretto, ancorché non per sollecitazione diretta, a conformare i propri ritmi di lavoro all'esigenza di realizzare lo smaltimento nei tempi richiesti dalla natura e molteplicità degli incarichi affidatigli dalla soc. Ericsson Telecomunicazioni. Dall'accertamento compiuto dal giudice di merito è emerso che l'oggettiva gravosità e l'esorbitanza dai limiti della normale tollerabilità non era in alcun modo riconducibile a iniziative volontarie dello S. di addossarsi compiti non richiesti o di svolgere gli incarichi con modalità non coerenti con la natura e l'oggetto degli stessi. Come ribadito anche di recente da questa Corte Cass. 3.8 2012 numero 13956, nonché Cass. 8.10.2012 numero 17092 e numero 18626 del 2013 , la responsabilità dell'imprenditore per la mancata adozione delle misure idonee a tutelare l'integrità fisica del lavoratore discende o da norme specifiche o, quando queste non siano rinvenibili, dalla norma di ordine generale di cui all'articolo 2087 cod. civ., la quale impone all'imprenditore l'obbligo di adottare nell'esercizio dell'impresa tutte quelle misure che, secondo la particolarità del lavoro in concreto svolto dai dipendenti, si rendano necessarie a tutelare l'integrità fisica dei lavoratori v. fra le altre Cass. numero 6377 e numero 16645 del 2003 . Se è vero che l'articolo 2087 cod. civ. non configura un'ipotesi di responsabilità oggettiva e che incombe al lavoratore che lamenti di avere subito, a causa dell'attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l'onere di provare l'esistenza di tale danno, come pure la nocività dell'ambiente o delle condizioni di lavoro, nonché il nesso tra l'uno e l'altro, è altresì vero che, ove il lavoratore abbia fornito la prova di tali circostanze, sussiste per il datore di lavoro l'onere di provare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno e che la malattia del dipendente non è ricollegabile alla inosservanza di tali obblighi cfr., tra le più recenti, Cass. numero 2038 del 2013 . I presupposti di fatto che integrano la prova gravante sul prestatore di lavoro sono risultati tutti positivamente accertati nella fattispecie in esame, alla stregua delle risultanze della prova testimoniale vagliata dal giudice di appello e dell'indagine medico-legale disposta d'ufficio, a fronte delle quali non è stata fornita dalla società la prova liberatoria. Priva di fondamento logico, oltre che giuridico, in ragione del precetto di cui all'articolo 2104 cod. civ., è l'affermazione dell'odierna ricorrente secondo cui, se il ritmo di lavoro era elevato, ciò dipendeva dalla attitudine dello S. a lavorare con grande impegno e alla sua dedizione al lavoro. Non può non rilevarsi come gli effetti della conformazione della condotta lavorativa ai canoni di cui all'articolo 2104 cod. civ., coerentemente con il livello di responsabilità proprio delle funzioni e in ragione del soddisfacimento delle ragioni dell'impresa, non integrino mai una colpa del lavoratore. Quanto all'ulteriore assunto secondo cui la ritenuta ipotetica esorbitanza dal carico esigibile costituirebbe un accertamento non coerente con le direttive impartite , deve rilevarsi che non vi è alcun cenno in sentenza a tale argomento difensivo di parte convenuta, che deve quindi considerarsi un novum, inammissibile nella presente sede. Né è stata denunciata l'omessa considerazione della prospettata circostanza quale fatto determinante trascurato dal giudice di merito. Con il secondo motivo si denuncia violazione degli articolo 194 e 201 cod. proc. civ. articolo 360 numero 3 cod. proc. civ. , disposizioni che sanciscono il diritto dei Consulenti tecnici di parte di assistere alle operazioni peritali. Sostiene parte ricorrente che, dopo un primo incontro meramente conoscitivo, il C.t.u. dispose un rinvio a data da destinarsi per l'effettivo inizio delle operazioni peritali alla doverosa presenza dei periti di parte, senza che a tale preannuncio avesse fatto seguito una successiva convocazione, e che il vizio venne sollevato tempestivamente dalla difesa in sede di note critiche depositate per l'udienza del 20 aprile 2010. Il motivo è palesemente infondato. Come risulta dalla sentenza impugnata, le operazioni di consulenza ebbero inizio il 29.1.2009 alla presenza dei consulenti di parte e in tale sede si procedette all' esame della documentazione e alla discussione del caso in esame dopo lo svolgimento di tali operazioni, durante il quale furono definite le questioni e gli elementi di indagine , non si pose la necessità di ulteriori accertamenti e chiarimenti o della acquisizione di atti, implicanti l'obbligo di un contraddittorio dal punto di vista tecnico la Corte di appello ha dunque concluso che non erano ravvisabili secondo le regole del processo, ulteriori oneri di convocazione a carico del C.t.u . Quello che parte ricorrente assume essere solo un primo incontro conoscitivo costituiva momento di inizio delle operazioni peritali e non un mero antefatto, essendosi in tale sede proceduto alla discussione del caso e all'esame congiunto della documentazione. Nessun ulteriore obbligo di convocazione gravava sul C.t.u., dovendo la consulenza svolgersi sulla base degli atti vagliati alla presenza dei difensori, mentre la mera stesura della relazione peritale è, all'evidenza, operazione che il Consulente compie autonomamente. Con il terzo motivo si censura la sentenza per avere recepito le conclusioni della relazione peritale - in punto di nesso causale tra attività lavorativa e manifestazione dell'infarto letale - sulla base di una mera possibilità scientifica, così violando gli articolo 40 e 41 cod. penumero ., oltre che gli articolo 1223 e 2043 cod. civ., e articolo 116 cod. proc. civ. articolo 360 numero 3 cod. proc. civ. ed incorrendo in vizio di motivazione per avere trascurato di considerare che l'infarto ebbe inizio nella giornata di lunedì, mentre lo S. si trovava in una località marina, e solo nelle prime ore del giorno seguente, quanto si portò sul luogo di lavoro, venne colto da malore risultato fatale. Il motivo è inammissibile. Premesso che il nesso causale è stato ritenuto sussistente dal giudice di appello sulla base di un indice di probabilità di alto grado, marcata o qualificata e quindi ben oltre il livello della mera possibilità teorica, il motivo sollecita, per il resto, una rivisitazione del merito della controversia, inammissibile in questa sede. Propone, infatti, una diversa interpretazione della derivazione causale dell'evento senza contestare la relazione peritale, recepita per relationem nella sentenza impugnata, della quale non si denunciano specifici vizi afferenti alla valutazione medico-legale del caso esaminato. Con il quarto motivo si denuncia violazione degli articolo 2056 cod. civ., degli articolo 1223, 1226, 1227 cod. civ. articolo 360 numero 3 cod. proc. civ. , nonché vizio di motivazione articolo 360 numero 5 cod. proc. civ. per essere stato riconosciuto il danno patrimoniale differenziale al netto della rendita INAIL omettendo di detrarre sia la parte di reddito che, sebbene conferita alla gestione familiare, sarebbe stata utilizzata per soddisfare i consumi della medesima vittima, sia la c.d. quota sibi , ossia quella parte del reddito che il coniuge deceduto avrebbe speso per sé senza farla transitare nella comunione familiare inoltre, si sarebbe dovuto calcolare il risarcimento tenendo conto del reddito netto del defunto e non di quello lordo. Al riguardo, deve osservarsi che la determinazione del danno patrimoniale è stata effettuata dal giudice di merito mediante liquidazione equitativa, in misura pari al 60% della somma originariamente pretesa dalla parte ricorrente. Il ricorso a tale criterio, per la liquidazione del danno patrimoniale, non ha formato oggetto di censura, essendo il motivo incentrato sulla contestazione di alcune componenti che - si assume - sarebbero incluse nella somma riconosciuta e non dovrebbero esserlo. Tuttavia, poiché la liquidazione equitativa non rende evidente, né controllabile l’iter logico attraverso cui il giudice di merito sia pervenuto alla relativa quantificazione e non permette dunque di stabilire se siano state o meno incluse nel risarcimento le componenti delle quali si deduce l'erronea considerazione, il motivo si presenta, per tale ragione, inammissibile. Con il quinto motivo si lamenta l'erronea liquidazione del danno da perdita parentale, in violazione degli articolo 2059 cod. civ., degli articolo 1223, 1226 e 1227 cod. civ. e vizio di motivazione articolo 360 nnumero 3 e 5 cod. proc. civ. per avere la Corte di appello, nell'utilizzo delle tabelle di liquidazione elaborate dal Tribunale di Roma per il calcolo del danno non patrimoniale da perdita parentale aggiornato all'anno 2011, riconosciuto a S.A. 31 punti e I.F. 32 punti, con un eccesso di due punti per ciascuna delle eredi. Il motivo è inammissibile per difetto di autosufficienza, non essendo stata richiamata la sede in cui la tabelle del Tribunale di Roma furono prodotte in giudizio, né le stesse risultano allegate al ricorso. È principio costante nella giurisprudenza di questa Corte che le tabelle di liquidazione del danno biologico non costituiscono norme di diritto, né rientrano nella nozione di fatto di comune esperienza, di cui all'articolo 115 cod. proc. civ., e che, pertanto, la parte che in sede di legittimità lamenti il vizio di motivazione della sentenza - consistente nell'incongrua applicazione delle tabelle - non può limitarsi ad una generica denuncia del vizio relativamente al valore del punto preso in considerazione, ma deve dare conto delle tabelle invocate, indicando in quale atto sono state prodotte e in quale senso sono state disapplicate o incongruamente applicate dal giudice di merito Cass. numero 13130 del 2006, numero 22287 del 2009 . Il sesto motivo denuncia violazione di legge in relazione all'articolo 1370 cod. civ., articolo 12 prel., articolo 1362, 1363, 1364, 1366, 1367 e 1369 cod. civ. articolo 360 numero 3 cod. proc. civ. e vizio di motivazione articolo 360 numero 5 cod. proc. civ. per avere il giudice di appello errato nel limitare la garanzia della Milano Assicurazioni al solo danno patrimoniale di cui agli articolo 10 e 11 d.P.R. numero 1124/65, mentre avrebbe dovuto dichiarare indenne la Ericsson Telecomunicazioni da tutto quanto dalla stessa dovuto a parte attrice quale civilmente responsabile a titolo di risarcimento dei danni e così anche per i danni non rientranti nella disciplina di cui al richiamato d.P.R. in particolare, la Corte di appello aveva omesso di considerare che nell'articolo 6 delle condizioni di polizza le parti avevano espressamente previsto una estensione della polizza a tali danni. Anche tale motivo è inammissibile. La Corte di appello ha riferito, quanto all'estensione della garanzia assicurativa, che l'articolo 13 del contratto prevedeva la copertura assicurativa per quanto l'assicurato fosse tenuto a pagare quale civilmente responsabile, ai sensi degli articolo 10 e 11 d.p.r. numero 1124/65 per gli infortuni, escluse le malattie professionali, sofferti da prestatori di lavoro da lui dipendenti ha poi riferito di una estensione per le malattie professionali. Poiché il motivo attiene ad una presunta violazione delle regole di ermeneutica contrattuale, vertendo la censura sull'interpretazione del testo del contratto di assicurazione, e non è specificamente indicato in quale modo sarebbero stati violati detti canoni, il ricorso è inammissibile per tale assorbente ragione. Con il primo motivo del ricorso incidentale la soc. Milano Assicurazioni lamenta violazione di legge in relazione all'articolo 2909 cod. civ. articolo 360 numero 3 cod. proc. civ. e vizio di motivazione articolo 360 numero 5 cod. proc. civ. per errata quantificazione del danno patrimoniale differenziale, effettuata senza debitamente considerare che il quantum della rendita dovuta dall'INAIL aveva già formato oggetto di accertamento in altro giudizio, con sentenza passata in giudicato. Il motivo è inammissibile, non essendo stato allegato come e quando la questione sarebbe stata introdotta in giudizio dalla soc. Milano Assicurazioni, limitandosi la parte ad affermare che il quantum della rendita dovuta dall'INAIL aveva già formato oggetto di accertamento da parte del Tribunale di Roma il quale, in contraddittorio con l'INAIL, ha emesso la sentenza numero 22326/2003 doc. A di parte attrice ormai passata in giudicato . La censura muove dall'assunto che il giudice di appello, nel procedere alla liquidazione equitativa, avrebbe omesso di considerare che l'esatto ammontare della rendita INAIL era conoscibile alla stregua del giudicato formatosi sul punto in altro giudizio, ma ciò presuppone la debita allegazione da parte della Milano Assicurazioni della formazione del giudicato esterno sull'ammontare della rendita in un momento comunque utile ai fini del suo apprezzamento in sede decisoria da parte del giudice di appello. Il ricorso è totalmente carente al riguardo. Il secondo motivo del ricorso incidentale della Società assicuratrice lamenta la violazione dell'articolo 1911 cod. civ. e vizio di motivazione articolo 360 nnumero 3 e 5 cod. proc. civ. per avere la sentenza ritenuto la Milano Assicurazioni s.p.a. obbligata per l'intero al pagamento dell'obbligazione di garanzia prevista dalla polizza, anziché nella misura del 50%, pari alla quota del rischio dalla stessa assicurato. Si deduce, in particolare, che la garanzia per la responsabilità civile verso i prestatori di lavoro era stata stipulata dalla società in regime di coassicurazione, ex articolo 1911 cod. civ., con Assitalia - La Assicurazioni d'Italia s.p.a., con una ripartizione del 50% del rischio assicurato. Nella coassicurazione si costituiscono separati rapporti fra i vari coassicuratori, ciascuno dei quali senza vincolo di solidarietà con gli altri, per cui ciascuno è titolare delle sole posizioni soggettive, sostanziali e processuali, relative al proprio rapporto. La sentenza sarebbe dunque errata nella parte in cui aveva ritenuto la soc. Milano Assicurazioni obbligata anche per la parte eccedente la quota del 50%. Anche tale motivo è inammissibile. La Corte di appello ha affermato che la soc. Milano Ass.ni aveva assunto, nella stipulazione del contratto e nella gestione del rapporto assicurativo, il ruolo e le obbligazioni che fanno carico al contraente e che rispondeva per intero, nei confronti della Ericsson Telecomunicazioni s.p.a., della garanzia assicurativa prestata. Ha dunque proceduto all'interpretazione del testo del contratto di assicurazione per trame tale conclusione. La diversa lettura propugnata dalla soc. Milano Ass.ni presuppone la specifica denuncia della violazione dei canoni di ermeneutica di cui agli articolo 1362 e segg. cod. civ., restando altrimenti inammissibile. Parte ricorrente non svolge alcun motivo al riguardo, prescindendo completamente dall'interpretazione che del contratto aveva fornito la sentenza impugnata. A ciò aggiungasi che il ricorso non rispetta il principio di autosufficienza, poiché la ricorrente trascrive bensì la clausola contrattuale invocata, ma non permette il controllo del contenuto poiché non produce ora il contratto né indica la sede processuale della produzione. In conclusione vanno respinti tanto il ricorso principale quanto quello incidentale. Le spese, liquidate come da dispositivo, sono poste a carico di ciascuna delle società ricorrenti in favore delle eredi S. . Nei rapporti tra la ricorrente principale e la ricorrente incidentale le spese sono compensate in ragione della reciproca soccombenza sesto motivo del ricorso principale e secondo motivo di quello incidentale . Nei confronti dell'Inail - che non ha svolto attività difensiva - la notificazione dell'impugnazione e la sua conoscenza hanno assolto alla sola funzione di litis denuntiatio. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso principale e il ricorso incidentale condanna la soc. Ericsson Telecomunicazioni e la soc. Milano Assicurazioni, ciascuna, al pagamento, in favore di I.F. , in proprio e nella qualità di esercente la potestà genitoriale sulla figlia minore S.A. , delle spese del presente giudizio, liquidate in Euro 6.000,00 per compensi professionali e in Euro 100,00 per esborsi, oltre accessori di legge compensa le spese tra le altre parti.