L’attività svolta all’estero dall’avvocato è efficace ai fini contributivi

La legge richiede l’autenticità della situazione sottesa all’iscrizione alla Cassa ossia l’esercizio della professione e non la percezione di un reddito professionale minimo ai fini dell’Irpef o l’esistenza di un minimo volume d’affari ai fini dell’IVA.

Lo ha affermato la Corte di Cassazione, sez. Lavoro, con la sentenza n. 4584, depositata il 26 febbraio 2014. L’avvocato esercita all’estero e paga i contributi, ma non ha reddito in Italia l’attività svolta è valutabile ai fini pensionistici? La pronuncia in commento trae origine dal giudizio promosso dall’avvocato iscritto alla Cassa forense per far accertare l’efficacia, a fini contributivi, del periodo in cui ha svolto l’attività professionale in uno paese extraeuropeo ed in relazione al quale ha regolarmente versato i contributi previdenziali, pur dichiarando in Italia, nel medesimo periodo, un reddito pari a zero. Al termine del giudizio di merito, è stata rigettata la tesi della Cassa secondo cui la continuità dell’attività poteva essere accertata solo in base al reddito prodotto e non dall’esercizio della professione desumibile da altri elementi. La Corte territoriale, infatti, confermando la pronuncia di prime cure, ha ritenuto l’effettivo svolgimento della professione ed il pagamento dei contributi elementi sufficienti a dichiarare la continuità di cui all’art. 2, l. n. 319/1975 una diversa interpretazione di questa avrebbe leso il diritto dell’avvocato a lasciare il proprio paese, garantito dall’art. 13, comma 2, della Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948. Se i contributi versati sono sufficienti, la Cassa non può escludere i periodi in cui l’attività è esercitata all’estero. La pronuncia in commento non si discosta dalle decisioni dei giudici di merito. A norma dell’art. 2, l. n. 319/1975 – che pone il requisito dell’esercizio della libera professione forense con carattere di continuità – il Comitato dei delegati della Cassa ha determinato i criteri di accertamento del requisito stesso in base al reddito prodotto. Il medesimo Comitato, tuttavia, non ha previsto il caso in cui l’avvocato, producendo reddito professionale soltanto all’estero ed ivi adempiendo agli obblighi tributari, non abbia denunciato redditi in Italia. Nella fattispecie che ha dato origine al giudizio, è pacifico che l’avvocato ha regolarmente versato i contributi alla Cassa forense per gli anni nei quali ha svolto la libera professione all’estero né risulta, agli atti di causa, alcun inadempimento tributario in Italia. La lacuna presente nella determinazione del Comitato dei delegati deve essere colmata attraverso il richiamo, non solo del citato art. 13 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, ma anche dell’art. 38, comma 2, Cost., che garantisce ai lavoratori il diritto a mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità, vecchiaia e disoccupazione involontaria , così impedendo periodi di lavoro privi, senza ragione, di adeguata contribuzione previdenziale. È vero che l’avvocato che non raggiunge il reddito minimo richiesto non può essere iscritto alla Cassa e, se vi partecipa, l’iscrizione è inefficace agli effetti dell’anzianità contributiva, con diritto al rimborso a domanda degli importi versati per gli anni di inefficacia. Nella fattispecie dedotta in giudizio, però, la Cassa, percepiti i contributi, non ne ha eccepito l’insufficienza. La Cassa forense non può frustrare il legittimo affidamento dell’iscritto. I soli elementi costitutivi della continuità” di cui all’art. 2, l. n. 319/1975 sono il dato storico” dell’iscrizione alla Cassa ed il concreto e protratto” esercizio dell’attività professionale, mentre le deliberazioni del Comitato dei delegati forniscono, attraverso il riferimento al reddito, solo i criteri di determinazione dei contributi previdenziali la legge richiede l’autenticità della situazione sottesa all’iscrizione alla Cassa ossia l’esercizio della professione e non la percezione di un reddito professionale minimo ai fini dell’Irpef ovvero l’esistenza di un minimo volume d’affari ai fini dell’IVA. La garanzia costituzionale di cui agli artt. 3 e 38 Cost. si estende al legittimo affidamento che il lavoratore subordinato o autonomo riponga in ordine alla tutela previdenziale spettantegli e che rimarrebbe frustrato ove un avvocato, iscritto alla Cassa e adempiente all’obbligo contributivo, possa trovarsi privo della pensione di vecchiaia, ma anche di anzianità per il solo fatto che risulti ex post che in passato non erano stati integrati i presupposti specifici, reddituali o assimilati, dettati dalla normativa interna della Cassa Cass., n. 3211/2002 .

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 29 ottobre 2013 – 26 febbraio 2014, n. 4584 Presidente/Relatore Roselli Svolgimento del processo Con sentenza del 5 dicembre 2008 la Corte d'appello di Napoli confermava la decisione di primo grado emessa dal Tribunale di Benevento, nella parte in cui questa aveva accertato la continuità professionale, e quindi l'utilità ai fini pensionistici, del periodo di attività di avvocato svolta in Australia dal 1997 al 2000 da P.F.M. in favore sia del Consolato italiano sia di alcuni enti di patronato, lavorando in uno studio professionale locale. Il P. era iscritto alla Cassa nazionale di previdenza forense fin dal 1988. Pertanto la Corte rigettava la tesi della Cassa secondo cui, in base alla determinazione dei criteri ad opera del Comitato dei delegati art. 2 L. 22 luglio 1975 n. 319 , la continuità dell'attività poteva essere accertata solo in base al reddito prodotto, e non dall'esercizio della professione desumibile da altri elementi. Nel caso di specie il P. aveva, nel suddetto periodo, dichiarato in Italia un reddito pari a zero e nondimeno, come risultava dalla documentazione prodotta e del resto era pacifico, aveva versato i contributi previdenziali alla Cassa. Questi due elementi - effettivo svolgimento della professione e pagamento dei contributi - erano secondo la Corte sufficienti a dichiarare la continuità di cui all'art. 2 L. 319 del 1975. Una diversa interpretazione di questa, e dei criteri stabiliti dal Comitato dei delegati, avrebbe leso il diritto dell'avvocato a lasciare il proprio paese, garantito dall'art. 13, secondo comma, della Dichiarazione universale dei diritti umani, del 1948. Contro questa sentenza ricorre per cassazione la Cassa nazionale di previdenza e assistenza forense mentre il P. resiste con controricorso. La Cassa ha presentato memoria. Motivi della decisione Col primo motivo la ricorrente lamenta la violazione degli artt. 2 e 22 L. 20 settembre 1980 n. 576 e 2 l. n. 319 del 1975, sostenendo non poter sussistere continuità professionale, con i connessi diritti soggettivi di iscrizione alla Cassa, di contribuzione e di conseguimento delle prestazioni previdenziali, senza la dichiarazione al Fisco di un reddito di un determinato importo. Dichiarazione non sostituibile con l'accertamento di effettivo svolgimento di attività professionale all'estero per un periodo sia pure delimitato. Col secondo motivo essa denuncia la violazione delle stesse norme oltre che dell'art. 13, secondo comma, della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo, approvata a New York il 10 dicembre 1948, per avere la Corte ravvisato una lesione del diritto alla mobilità professionale nell'impossibilità di iscrivere alla Cassa previdenziale italiana un avvocato, che esplichi bensì temporaneamente attività all'estero ma non denunci i relativi redditi al Fisco italiano. Tale attività ben potrebbe essere assicurata nel sistema previdenziale straniero, provvedendo poi all'eventuale ricongiunzione con i contributi versati in Italia. I due motivi, da esaminare insieme per la connessione, non sono fondati. Essi sottopongono a questa Corte la questione se un avvocato italiano, iscritto alla Cassa di previdenza nazionale, esercitando temporaneamente la sua attività soltanto all'estero e nondimeno continuando a versare i contributi alla detta Cassa, perda per quel periodo il requisito della continuità ai fini delle prestazioni previdenziali. Ciò anche quando egli, sempre in quel periodo, abbia dichiarato al Fisco un reddito pari a zero. A questa questione la Corte d'appello ha dato esatta risposta negativa. A norma dell'art. 2 l. n. 319 del 1975, che pone, ai fini ora detti, il requisito dell'esercizio della libera professione forense con carattere di continuità , il Comitato dei delegati della Cassa ha determinato i criteri di accertamento del requisito stesso in base al reddito prodotto. Il medesimo Comitato non ha previsto il caso in cui l'avvocato, producendo reddito professionale soltanto all'estero ed ivi adempiendo agli obblighi tributali, non abbia denunciato redditi in Italia. Dalla sentenza qui impugnata risulta pacifico che l'attuale appellato ha regolarmente versato i contributi alla Cassa scil. italiana per gli anni nei quali ha svolto la libera professione in Australia. Dalla documentazione prodotta risulta ampiamente dimostrato lo svolgimento di tale attività che del resto non è contestata dalla Cassa di previdenza forense . Né risulta agli atti di causa alcun inadempimento tributario in Italia. La lacuna presente nella determinazione ad opera del Comitato dei delegati dev'essere colmata attraverso il richiamo non solo dell'art. 13 cit. della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo ma anche dell'art. 38 Cost., che nel secondo comma garantisce ai lavoratori il diritto a mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità, vecchiaia e disoccupazione involontaria , così impedendo periodi di lavoro senza ragione prive di adeguata contribuzione previdenziale. È ben vero che l'avvocato il quale non raggiunga il reddito e la corrispondente imposizione tributaria minimo richiesto non può essere iscritto alla Cassa nazionale e, se vi partecipa, l'iscrizione va resa inefficace agli effetti dell'anzianità, con diritto al rimborso, a domanda, dei contributi relativi agli anni di inefficacia art. 3 L. ult. cit. come modif. dell'art. 22, comma 7, L. n. 576 del 1980 . Ma ciò comporta che, di fronte ad un reddito insufficiente, la Cassa può rendere inefficace l'iscrizione, mentre nel caso di specie la medesima, percepiti i contributi, non fa ora questione di insufficienza di essi. È poi fuori del tema disputato la questione se nel caso di specie siano esistiti i requisiti per la ricongiunzione o la totalizzazione delle posizioni assicurative, evocate dalla ricorrente. Neppure è noto l'ammontare dei contributi che avrebbero dovuto essere pagati alla Previdenza australiana, eventualmente di ammontare assai inferiore a quelli pagati in Italia. Non sono pertinenti le sentenze di questa Corte n. 125 del 1988, n. 13289 del 2005 e n. 233 del 2006, la prima relativa ad una fattispecie in cui l'avvocato chiedeva la cancellazione della propria iscrizione la seconda in cui si affermava la potestà autoregolamentare del Comitato dei delegati, qui non in discussione la terza concernente il caso di un avvocato già iscritto ad un albo e ad una cassa stranieri ma di un paese comunitario. È invece pertinente Cass. n. 3211 del 2002, la quale ha affermato che soli elementi costitutivi della continuità di cui all'art. 2 l. n. 319 del 1975 sono il dato storico dell'iscrizione alla Cassa ed il concreto e protratto esercizio dell'attività professionale, mentre le deliberazioni del Comitato dei delegati forniscono, attraverso il riferimento al reddito, solo i criteri di determinazione dei contributi previdenziali ciò che è prescritto dalla legge è l'autenticità della situazione sottesa all'iscrizione ossia l'esercizio della professione e non la percezione di un reddito professionale minimo ai fini dell'Irpef ovvero l'esistenza di un minimo volume d'affari ai fini dell'Iva . La restituzione dei contributi già versati potrebbe avvenire, in altre parole, solo nel caso di accertamento del mancato esercizio dell'attività professionale. La medesima sentenza ha aggiunto che la garanzia costituzionale degli artt. 3 e 38 Cost. si estende al legittimo affidamento che il lavoratore subordinato o autonomo riponga in ordine alla tutela previdenziale spettantegli e che rimarrebbe frustrato ove un avvocato, iscritto alla Cassa e adempiente all'obbligo contributivo, possa trovarsi privo della pensione di vecchiaia ma anche d'anzianità sol perché risulti ex post che in passato non erano stati integrati i presupposti specifici, reddituali o assimilati, dettati dalla normativa interna della Cassa . Sulla tutela dell'affidamento dell'assicurato nelle assicurazioni sociali, quale espressione dell'assoggettamento degli enti assicurativi al principio della buona fede oggettiva vedi Cass. 1 marzo 2012 n. 3195,19 settembre 2013 n. 21454. Considerate le difficoltà interpretative della materia disputata, solo in parte disciplinata da norme di legge, si ritiene equo compensare le spese. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e compensa le spese.