Ancora sulla prescrizione dei contributi in Cassa Forense

La Corte di Cassazione affronta ancora una volta il tema della prescrizione dei contributi in Cassa Forense.

Con la sentenza n. 26411 del 26 novembre 2013, la Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso proposto da Cassa Forense avverso la sentenza della Corte di Appello di Roma la quale, confermando la sentenza del Tribunale di Roma, aveva dichiarato prescritti i crediti vantati dalla Cassa Nazionale di Previdenza ed Assistenza Forense per gli anni 1987 – 1990. Il caso. La Corte ha dichiarato le censure proposte avverso la sentenza della Corte di Appello di Roma inammissibili perché l’avvenuta interruzione della prescrizione è stata sollevata per la prima volta in sede di legittimità e l’atto interruttivo di cui si discute non risulta depositato insieme al ricorso così come richiesto a pena di improcedibilità. Trattavasi di prescrizione quinquennale decorrente dalla data di trasmissione del Modello 5. Se la questione in punto fattuale sta nei termini indicati dalla Suprema Corte di Cassazione c’è poco da discutere. Nel caso di specie Cassa Forense aveva però sostenuto la non configurabilità del decorso del termine prescrizionale per l’esazione dei contributi dovuti dagli iscritti in caso di dichiarazione dei dati reddituali inferiori a quello dichiarati al Fisco, dal termine in cui l’Ente sia nella possibilità di richiedere ed ottenere le notizie necessarie, non essendovi alcuna norma che stabilisca un termine ed entro il quale la Cassa sia abilitata a tale richiesta e all’acquisizione delle conseguenti notizie. I precedenti interventi giurisprudenziali. Cogliamo così l’occasione per fare il punto della questione in tema di prescrizione richiamando alcune pronunce della Suprema Corte. Secondo la Cassazione sent. n. 11725/2013 l'art. 19 legge n. 576/80, che contiene la disciplina della prescrizione dei contributi, dei relativi accessori e dei crediti conseguenti a sanzioni dovuti in favore della Cassa nazionale forense individua un distinto regime della prescrizione medesima, a seconda che la comunicazione da parte dell'obbligato, in relazione alla dichiarazione di cui agli artt. 17 e 23 della stessa legge, sia stata omessa o sia stata resa in modo non conforme al vero, riferendosi solo al primo caso l'ipotesi di esclusione del decorso del termine di prescrizione decennale, mentre, in ordine alla seconda fattispecie, il decorso di siffatto termine è da intendersi riconducibile al momento della data di trasmissione all'anzidetta Cassa previdenziale della menzionata dichiarazione . Così argomentando la Suprema Corte ha rigettato il ricorso e condannato alle spese l'ente previdenziale, il quale si era visto dichiarare prescritto, sia in Appello che in prime cure, il credito contributivo azionato nei confronti di un professionista relativo all'anno 1987 a detta dei giudici di merito il termine di prescrizione anche in ipotesi di comunicazione di dati reddituali non conformi al vero decorrerebbe dalla trasmissione della dichiarazione prevista dagli artt. 17 e 23 citati. A nulla sono valsi i tre motivi di reclamo in uno dei quali, in particolare, veniva denunciato vizio di motivazione in ordine alla statuizione del regime prescrizionale applicabile alla fattispecie per i giudici di legittimità le censure andavano mosse nel rispetto dell'art. 366 bis c.p.c. L'omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione deve, infatti, sempre contenere un momento di sintesi omologo del quesito di diritto che ne circoscriva puntualmente i limiti, in maniera da non ingenerare incertezze in sede di formulazione del ricorso e di valutazione della sua ammissibilità . Con la sentenza n. 6729/2013 che ha respinto il ricorso della Cassa nazionale di assistenza e previdenza forense la Suprema Corte ha affermato due punti fondamentali nelle motivazioni in primo luogo si consolida l'orientamento che fa scattare il termine della prescrizione dal momento in cui il professionista trasmette in dati sbagliati e il secondo che le nuove disposizioni approvate con la legge n. 247/2012, e cioè la disciplina dell'ordinamento della professione forense, entrata in vigore il 2 febbraio 2013, non si applica al contenzioso già in corso. Sul primo aspetto i Supremi giudici motivano che l'art. 19, l. n. 576/1980 individua un distinto regime della prescrizione, a seconda che la comunicazione dovuta da parte dell'obbligato, in relazione alla dichiarazione di cui agli artt. 17 e 23 della stessa legge, sia stata omessa ovvero sia stata resa in modo non conforme al vero, riferendosi solo al primo caso l'esclusione del decorso del termine decennale o quinquennale, in applicazione della legge n. 335 del 1995 mentre in ordine alla seconda fattispecie, il decorso di siffatto termine è riconducibile alla data di trasmissione alla Cassa previdenziale della menzionata dichiarazione. Sul secondo aspetto la sezione lavoro mette nero su bianco che è infondata la deduzione formulata dalla Cassa, nel ricorso in Cassazione, secondo la quale l'art. 66 della recente legge n. 247/2012 entrata in vigore il 2 febbraio 2013 opererebbe l'interpretazione autentica della norma che richiama, con efficacia pertanto anche in ordine alle situazioni precedenti. Ciò perché, spiega ancora il Collegio, nella neo approvata riforma non è rinvenibile alcuna intenzione del legislatore di fornire interpretazioni autentiche delle disposizioni del 1995, così che la nuova normativa va applicata unicamente per il futuro nonché alle prescrizioni non ancora maturate secondo il regime precedente . Ed infatti l’art. 19, comma 1, legge 20 settembre 1980, n. 576 dispone che la prescrizione dei contributi dovuti alla Cassa e di ogni relativo accessorio si compie con il decorso di dieci anni e il successivo secondo comma stabilisce che per i contributi, gli accessori e le sanzioni dovuti o da pagare ai sensi della presente legge, la prescrizione decorre dalla data di trasmissione alla Cassa, da parte dell’obbligato, della dichiarazione di cui agli artt. 17 e 23 . L’art. 3, comma 9, legge 8 agosto 1995, n. 335 - richiamando quanto previsto dall’art. 55, comma 2, R.D.L. 4 ottobre 1935, n. 1827, istitutivo dell’INPS - ha disposto che tutte le contribuzioni di previdenza e di assistenza sociale obbligatoria, una volta prescritte, non possono essere versate e l’art. 3, comma 10, della medesima legge ne ha ulteriormente esteso l’applicabilità ai contributi prescritti prima dell’entrata in vigore della legge. La Corte di Cassazione - con sentenze n. 5522/2003 e 330/2002 - ha affermato che il principio si applica non soltanto all’INPS, ma a qualsiasi forma di previdenza obbligatoria, poiché il testo normativo non contiene limitazioni di sorta. Nessuna deroga in particolare è prevista dalla norma per enti previdenziali c.d. ”privatizzati”, in quanto il d.lgs. n. 509/94, mentre ha mutato la natura giuridica delle casse, facendone enti privati, nulla ha innovato in ordine al rapporto previdenziale tra l’ente e gli iscritti, che resta assoggettato agli stessi principi ed alle stesse regole della previdenza obbligatoria, con le particolarità previste dalla stessa l. 335/95 . Quali gli effetti della prescrizione? Per quanto concerne gli effetti della prescrizione maturata, è stata qualificata la perdita delle prestazioni previdenziali come una conseguenza di carattere sanzionatorio dell’evasione contributiva nella sentenza della Corte di Cassazione n. 6340/2005, si legge, infatti, che il principio dell’automatismo delle prestazioni previdenziali non trova, invece, applicazione nel rapporto fra lavoratore autonomo ed ente previdenziale - nel difetto di esplicite norme di legge, che eccezionalmente dispongano in senso contrario - con la conseguenza che il mancato versamento dei contributi obbligatori impedisce, di regola, la stessa costituzione del rapporto previdenziale e, comunque, la maturazione del diritto alle prestazioni []. Né la prospettata diversità di trattamento [] si pone in contrasto con il principio costituzionale di uguaglianza [] in considerazione della diversità di situazione esistente tra lavoratore subordinato – al quale non possono essere imputate omissioni contributive del proprio datore di lavoro - e lavoratore autonomo e segnatamente libero professionista che – in dipendenza dell’inapplicabilità del principio dell’automatismo – subisce soltanto le conseguenze pregiudizievoli dell’inadempimento di obbligazioni contributive a proprio carico . E’ stato altresì affermato che sarebbe irragionevole, ossia contrastante col principio di uguaglianza [] parificare la situazione del lavoratore dipendente, che perde benefici previdenziali a causa delle omissioni contributive del datore di lavoro e perciò può costituirsi la rendita [] e la situazione del professionista, che per un periodo della sua vita professionale omette di contribuire e più tardi vuole recuperare i benefici perduti trasferendo sull’assicuratore, almeno in parte, il costo dell’operazione Cass. n. 9408/2002 e n. 11140/2001, cit. . Gli avvocati e l’obbligo di pagamento dei contributi previdenziali. Come noto, l’obbligo di pagamento dei contributi previdenziali è posto direttamente dalla legge a carico degli avvocati, che devono provvedervi indipendentemente da qualsivoglia richiesta in tal senso da parte della Cassa. Non ha pertanto alcuna rilevanza la eventuale inerzia della cassa stessa nel provvedere al recupero delle somme corrispondenti alle contribuzioni, avendo il credito contributivo una sua esistenza autonoma che prescinde dalla richiesta di adempimento fattane dall’ente previdenziale, ed insorgendo nel momento in cui matura il periodo lavorativo cui si riferisce, momento dal quale decorre il termine prescrizionale dello stesso credito contributivo Cass. n. 6340/2005, cit. . Ciò posto in termini generali, la disciplina è mutata in quanto l’art. 66 della legge 31 dicembre 2012, n. 247 - nuova disciplina dell’ordinamento della professione forense - dispone testualmente che la disciplina in materia di prescrizione dei contributi previdenziali di cui all’articolo 3 della legge 8 agosto 1995, n. 335, non si applica alle contribuzioni dovute alla Cassa nazionale di previdenza e assistenza forense . Sulla base dell’art. 19 sopra riportato, l’istituto della prescrizione nel sistema previdenziale forense torna quindi ad essere disciplinato come segue 1. I contributi previdenziali si prescrivono con il decorso di dieci anni 2. L’istituto della prescrizione torna ad essere nella disponibilità delle parti e, pertanto, dovrà essere eccepita 3. Con riferimento ai contributi previdenziali forensi e alle relative somme accessorie sanzioni civili e interessi , resta invariata l’individuazione del dies a quo nel giorno corrispondente alla data di effettiva spedizione alla Cassa delle comunicazioni contenenti i dati dichiarati ai fini dell’IRPEF e IVA Modello 5 4. Con riferimento alle sanzioni amministrative previste per omesso/ritardato invio dei modelli 5 e alle penali previste per l’iscrizione d’ufficio, la prescrizione resta quinquennale ai sensi dell’art. 28, legge 689/1981 il dies a quo resta individuato nel giorno in cui viene consumata l’irregolarità.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 23 ottobre - 26 novembre 2013, n. 26411 Presidente Lamorgese – Relatore Napoletano Svolgimento del processo La Corte di Appello di Roma, confermando la sentenza di primo grado, dichiarava prescritti i crediti vantati dalla Cassa Nazionale di Previdenza ed Assistenza Forense per gli anni 1987-1990 relativi alla posizione di A.E A fondamento del decisimi la Corte del merito poneva il rilievo secondo il quale non era accoglibile la tesi della Cassa la quale assumeva che, nella specie, non era decorso il termine di prescrizione essendovi discrepanza tra le denuncia fatta alla Cassa e quella presentata agli uffici finanziari ai fini irpef. Tanto perché, nel caso in discussione, l'iscritto non aveva comunicato alla Cassa redditi inferiori a quelli denunciati agli uffici finanziari, ma vi era solo un errato inserimento dei dati contabili nelle giuste allocazioni della modulistica di riferimento che non avevano alterato il dato reddituale. Avverso questa sentenza la precitata Cassa ricorre in cassazione sulla base di quattro censure, specificate da memoria. La parte intimata resiste con controricorso illustrato da memoria. Motivi della decisione Con il primo motivo la Cassa ricorrente, deducendo violazione dell'art. 2909 cc in relazione all'art. 324 cpc, precisa che il principio da affermare riguarda l'efficacia del capo della sentenza di rigetto di opposizione a cartella di riscossione relativa ad una pluralità di somme tutte aventi analoga causale, riferito al merito della debenza di alcune somme, nei confronti della pronuncia di appello fondante la prescrizione di altre somme facenti parte del novero delle somme intimate sulle stesse ragioni già disattese nel merito dalla sentenza non impugnata . La censura è ai limiti dell'inammissibilità. Infatti, nella formulazione del motivo non è articolato un vero e proprio quesito di diritto ai sensi dell'art. 366 bis cpc applicabile ratione temporis , quanto piuttosto una specificazione dell'ambito della censura. Specificazione questa, inoltre, molto vaga che di per sé non consente di cogliere appieno il contenuto della critica. In ogni caso se ben s'intende il motivo, questo è infondato perché una volta impugnato il capo della sentenza di primo grado che attiene alla declaratoria di prescrizione di alcuni contributi, al giudice di appello non può non essere devoluta che tutta la questione relativa a siffatto capo ivi compresa quella della decorrenza della prescrizione che, tra l'altro, risulta dalla stessa narrativa della sentenza di appello, posta a base dell'impugnazione proposta dalla Cassa. Con il secondo motivo la Cassa ricorrente, denunciando violazione degli artt. 19, 2 comma e 17 della legge n. 576 del 1980, precisa che il principio da affermare, rivisitando anche, ove occorra, la sentenza Cass. sez lav. numero 9113/1997, è che il dato testuale dell'art. 19, 2 comma è riferito alle dichiarazioni di cui all'art. 17 e pertanto non essendo applicabile lo speciale decorso del termine prescrizionale previsto dalla norma a tutti i casi, come quello di specie, in cui non vi sia coincidenza tra redditi professionali dichiarati al fisco e redditi professionali dichiarati alla Cassa, la prescrizione decorre dalla conoscenza ufficiale dei redditi professionali dichiarati al fisco . Con la terza censura la Cassa ricorrente, allegando violazione degli artt. 17 e 19, comma 2, della legge n. 576 del 1980 e dei principi in materia di decorso della prescrizione, precisa che il principio normativo che si chiede di esprimere riguarda la non configurabilità del decorso del termine prescrizionale per l'esazione dei contributi dovuti agli iscritti in caso di dichiarazione dei dati reddituali inferiori a quelli dichiarati al fisco, dal termine in cui l'ente sia nella possibilità di richiedere ed ottenere le notizie necessarie, non essendovi alcuna norma che stabilisca un termine ed entro il quale la Cassa sia abilitata a tale richiesta ed alla acquisizione delle conseguenti notizie . Le censure, che in quanto strettamente connesse dal punto di vista logico-giuridico vanno tratte unitariamente sono infondate alla luce di pacifica giurisprudenza di questa Corte secondo la quale l'art. 19 della legge 20 settembre 1980, n. 576, che contiene la disciplina della prescrizione dei contributi, dei relativi accessori e dei crediti conseguenti a sanzioni dovuti in favore della Cassa nazionale forense, individua un distinto regime della prescrizione medesima a seconda che la comunicazione dovuta da parte dell'obbligato, in relazione alla dichiarazione di cui agli artt. 17 e 23 della stessa legge, sia stata omessa o sia stata resa in modo non conforme al vero, riferendosi solo al primo caso l'ipotesi di esclusione del decorso del termine prescrizionale decennale, mentre, in ordine alla seconda fattispecie, il decorso di siffatto termine è da intendersi riconducibile al momento della data di trasmissione all'anzidetta cassa previdenziale della menzionata dichiarazione Cass. 16 marzo 2011 n. 6259 e Cass. 17 aprile 2007 n. 9113 . Nella specie non trattandosi, come accertato dalla Corte del merito, di omessa dichiarazione la prescrizione non può che decorrere dalla data di trasmissione della dichiarazione. Con l'ultima censura la Cassa ricorrente, deducendo violazione dell'art. 252 disp. att. cc precisa che il principio richiesto riguarda l'applicazione, anche d'ufficio, del disposto dell'art. 252 disp. att. cc, qualora residui un termine inferiore a quello fissato da nuovo regime di prescrizione rispetto a quello precedente, sia l'applicazione di detta norma in caso di utile interruzione della prescrizione del vecchio termine, successivamente all'entrata in vigore del nuovo regime . A fondamento della censura la Cassa richiama la sentenza n. 6173 del 2008 delle sezioni unite di questa Corte secondo la quale in materia di prescrizione del diritto ai contributi di previdenza e di assistenza obbligatoria, la disciplina posta dall'art. 3, commi 9 e 10, della legge 335 del 1995 comporta che, per i contributi relativi a periodi precedenti alla data di entrata in vigore di detta legge - salvi i casi in cui il precedente termine decennale di prescrizione venga conservato per effetto di denuncia del lavoratore, o dei suoi superstiti, di atti interruttivi già compiuti o di procedure di recupero iniziate dall'Istituto previdenziale nel rispetto della normativa preesistente - il termine di prescrizione è quinquennale a decorrere dal 1 gennaio 1996, potendo, però, detto termine, in applicazione della regola generale di cui all'art. 252 disp. att. cod. civ., essere inferiore se tale è il residuo del più lungo termine determinato secondo il regime precedente. Al riguardo la ricorrente precisa che in data 28 ottobre 1999 per i contributi afferenti gli anni 1989 e 1990 - di cui alle dichiarazioni trasmesse rispettivamente in data 22 giugno 1990 e 28 giugno 1991 -essa Cassa ha interrotto la prescrizione del vecchio termine con la conseguenza che andrebbe applicato il principio di cui alla richiamata sentenza delle sezioni unite. La censura è inammissibile. Invero la questione afferente l'avvenuta interruzione della prescrizione deve considerasi sollevata per la prima volta in questa sede di legittimità non avendo parte ricorrente precisato in quale grado del giudizio ed in quale atto processuale è stata dedotta. Né di tale questione vi è traccia nella sentenza impugnata Cass. 2 aprile 2004 n. 6542, Cass. Cass. 21 febbraio 2006 n. 3664 e Cass. 28 luglio 2008 n. 20518 . Inoltre l'atto interruttivo di cui si discute non risulta depositato insieme al ricorso così come richiesto a pena d'improcedibilità dall'art. 369 n. 4 cpc, né é specificato in quale sede processuale il documento risulta prodotto Cass. S.U. 25 marzo 2010 n. 7161 . Alla stregua delle esposte considerazioni il ricorso va rigettato, rimanendo nelle svolte considerazioni assorbiti tutti rilievi di cui alle memorie difensive. Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna la Cassa ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità liquidate in Euro 100,00 per esborsi ed Euro 3.500,00 per compensi oltre accessori di legge.