Il lavoro nobilita l’uomo … e se fosse troppo?

Ottenere il risarcimento danni dal proprio datore di lavoro per aver subìto un infarto a causa del troppo carico di lavoro? Si può, ma il lavoratore deve provare l’esistenza del danno, la nocività dell’ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l’uno e l’altro.

Un eccessivo carico di lavoro e il medico diventa un paziente. Sì, perché a causa dei ritmi lavorativi massacranti, il dirigente medico di primo livello aveva subito un infarto. Almeno questo è quanto aveva sostenuto avanti ai giudici di merito che, in primo grado avevano accolto la domanda di risarcimento ma, in secondo, l’avevano rigettata. Manca la prova della nocività dell’ambiente di lavoro. A parere della Corte territoriale, infatti, l’omessa integrazione del personale nel reparto di competenza del medico e la perizia del CTU di primo grado - il quale aveva accertato che la patologia ischemica era da riconnettere allo stress lavorativo - erano insufficienti a provare la responsabilità del datore di lavoro. Il medico allora presenta ricorso per cassazione. La S.C., però, non accoglie le sue doglianze, ribadendo alcuni consolidati principi di diritto. L’onere incombe sul lavoratore. In sintesi, la Cassazione afferma che l’art. 2087 c.c. non configura un’ipotesi di responsabilità oggettiva , anche perché la responsabilità del datore va collegata alla violazione degli obblighi di comportamento imposti dalla legge. Pertanto – si legge nell’ordinanza – ne consegue che incombe sul lavoratore che lamenti di aver subito, a causa dell’attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l’onere di provare l’esistenza di tale danno, come pure la nocività dell’ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l’uno e l’altro , solo in un secondo momento, quindi, il datore di lavoro dovrà provare di aver adottato tutte le cautele necessarie.

Corte di Cassazione, sez. VI – L Civile, ordinanza 20 aprile – 26 giugno 2012, n. 10656 Presidente Battimiello – Relatore La Terza Fatto e diritto Con la sentenza impugnata la Corte d'appello di l'Aquila, riformando la statuizione di primo grado, rigettava la domanda proposta dal dott. P.F. , dirigente medico di primo livello, nei confronti della ASL di Chieti, suo datore di lavoro, nonché nei confronti dell'ente assicuratore Nuova Tirrena, al risarcimento del danno ex art. 2087 cod. civ. perché, in conseguenza di un eccessivo e massacrante carico di lavoro, aveva subito un infarto nel 1999. Affermava infatti la Corte territoriale che l'addebito imputato alla ASL consisteva nel non avere provveduto alla integrazione del personale nel reparto di unità coronarica, nonostante le innumerevoli richieste in tal senso, con conseguente gravosissima turnazione. Rilevava altresì non esservi la prova di un particolare impegno lavorativo in epoca prossima all'evento, né indicazioni specifiche e precise sui turni di lavoro e sulla organizzazione del reparto anche i testi escussi avevano riferito circostanze ininfluenti, perché o si riferivano a periodi risalenti, oppure non erano stati in grado di riferire dati cronologici invero il CTU di primo grado aveva accertato che la patologia ischemica era da riconnettere allo stress lavorativo, il che però era insufficiente, perché l'attività svolta era di per sé fattore di rischio, ma questo è addebitarle al datore di lavoro solo deducendo che avrebbe potuto essere ridotto, usando l'ordinaria diligenza, adottando le misure necessarie, ma nella specie, in mancanza di precise deduzioni sull’organizzazione del lavoro, non era possibile addebitare alla ASL una omessa diligenza, in particolare nel periodo prossimo all'evento. Né varrebbe eccepire che la prova dell'adempimento incombe sull'obbligato, perché la prova liberatoria è necessaria solo se gli addebiti siano precisi e circostanziati. Avverso detta sentenza ha proposto ricorso per cassazione con un motivo la parte soccombente La Asl e la Goupama Assicurazioni spa, già Nuova Tirrena spa, hanno resistito con controricorso e quest'ultima ha anche proposto ricorso incidentale condizionato. Con il ricorso principale si lamenta violazione dell'art. 32 Costituzione, degli artt. 1218, 1374, 2087 e 2697 cod. civ. nonché difetto di motivazione, segnatamente sulla valorizzazione del verbale del CMO con cui era stata riconosciuta la causa di servizio ed il ricorrente insiste nel sostenere che si doveva attribuire al superlavoro il nesso causale con l'infarto sopravvenuto Letta la relazione resa ex art. 380 bis cod. proc. civ. di manifesta infondatezza del ricorso principale Ritenuto che è tardiva la memoria depositata dal ricorrente il 16 aprile per l'udienza del 20 aprile 2012 Ritenuto che i rilievi di cui alla relazione sono condivisibili Invero, quanto al difetto di motivazione, non sono stati offerti elementi atti a dimostrare i turni di lavoro, gli orari, l'organizzazione del reparto nulla infatti è dato sapere sul numero dei medici ivi addetti, né sul numero dei posti letto, che avrebbero consentito di apprezzare l'effettivo impegno lavorativo, i cui contorni sono rimasti del tutto generici, soprattutto in tempi prossimi alla malattia. Quanto ai principi di diritto, è stato affermato Cass. n. 11932 del 26/06/2004 che Stante la natura contrattuale della responsabilità di cui all'art. 2087 cod. civ., spetta all'imprenditore la prova di aver adottato nell'esercizio dell'impresa tutte quelle misure che, secondo la particolarità del lavoro in concreto svolto dai dipendenti, si rendano necessarie a tutelare l'integrità fisica dei medesimi, ma l'oggetto della prova è necessariamente correlato alla identificazione delle modalità del fatto e presuppone, in relazione ad esse, l'accertamento delle cause che lo hanno determinato, cause che devono essere provate dal lavoratore. Tra le misure da apprestare non rientra la diminuzione del carico lavorativo del dipendente, quando non vi sia la prova della eccessività quantitativa o qualitativa delle prestazioni richieste”. Inoltre è giurisprudenza consolidata Cass. n. 12789 del 02/09/2003 che Non configurando l'art. 2087 cod. civ. un'ipotesi di responsabilità oggettiva - in quanto la responsabilità del datore di lavoro va collegata alla violazione degli obblighi di comportamento imposti da norme di legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche del momento - ai fini dell'accertamento della responsabilità del datore di lavoro, incombe al lavoratore che lamenti di aver subito, a causa dell'attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l'onere di provare l'esistenza di tale danno, come pure di allegare la nocività dell'ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l'uno e l'altro, senza che occorra, in mancanza di qualsivoglia disposizione in tal senso, anche la indicazione delle norme antinfortunistiche violate o delle misure non adottate, mentre, quando il lavoratore abbia provato quelle circostanze, grava sul datore di lavoro l'onere di provare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno”. Ed ancora si è ritenuto Cass. n. 12467 del 25/08/2003 che L'art. 2087 cod. civ. non configura un'ipotesi di responsabilità oggettiva, in quanto la responsabilità del datore di lavoro va collegata alla violazione degli obblighi di comportamento imposti da norme di legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche del momento. Ne consegue che incombe sul lavoratore che lamenti di avere subito, a causa dell'attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l'onere di provare l'esistenza di tale danno, come pure la nocività dell'ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l'uno e l'altro, e solo se il lavoratore abbia fornito la prova di tali circostanze sussiste per il datore di lavoro l'onere di provare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno e che la malattia del dipendente non è ricollegabile alla inosservanza di tali obblighi. Né la riconosciuta dipendenza delle malattie da una causa di servizio implica necessariamente che gli eventi dannosi siano derivati dalle condizioni di insicurezza dell'ambiente di lavoro, potendo essi dipendere piuttosto dalla qualità intrinsecamente usurante della ordinaria prestazione lavorativa e dal logoramento dell'organismo del dipendente esposto ad un lavoro impegnativo per un lasso di tempo più o meno lungo, restandosi così fuori dall'ambito dell'art. 2087 cod. civ.”. In quel caso la sentenza di merito, confermata dalla S.C., aveva,con motivazione congrua e coerente, escluso la derivazione causale delle patologie da cui il lavoratore era affetto dalle particolari modalità di a svolgimento della prestazione lavorativa. Nella specie manca proprio la prova della nocività dell'ambiente di lavoro, che costituisce presupposto ineliminabile per l'attribuzione di responsabilità al datore ex art. 2087 cod. civ Il ricorso principale va quindi rigettato il ricorso incidentale condizionato rimane assorbito. Le spese seguono la soccombenza. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso principale e dichiara assorbito quello incidentale condizionato. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese liquidate, per ciascuna delle controparti, in Euro duemila per onorari e trenta per esborsi, oltre spese generali, Iva e CPA per ciascuna liquidazione.