Il pericolo dell’evizione del bene compromesso in vendita deve essere concreto ed attuale

Il compratore può sospendere il pagamento del prezzo o pretendere garanzia quando abbia ragione di temere che la cosa possa essere rivendicata da terzi ciò presuppone che il pericolo di evizione sia effettivo ed attuale e non presuntivo o putativo.

Lo ribadisce la Corte di Cassazione con sentenza n. 8571/19, depositata il 27 marzo. Il caso. L’attrice citava in giudizio, dinanzi al Tribunale di Napoli, i convenuti per chiedere la risoluzione del contratto preliminare in base al quale questi si erano impegnati a vendere alla prima un immobile e la condanna di questi alla restituzione del doppio della caparra e al rimborso delle provvigioni versate dall’attrice stessa. Il Tribunale dichiarava risolto il contratto preliminare e condannava i convenuti. Anche la Corte d’Appello confermava la decisione di primo grado, così gli iniziali convenuti propongono ricorso in Cassazione. Il pericolo di evizione. In particolare era accaduto quanto segue. La potenziale acquirente aveva rifiutato di sottoscrivere l’atto di compravendita dell’immobile denunciando un pericolo di evizione parziale derivante dal fatto che il bene era stato prima oggetto di donazione lesive delle quote di legittima spettanti agli eredi necessari del donante, tra i quali vi era un interdetto non intervenuto in atto. Tale pericolo di evizione, dunque, non era attuale, ma solo potenziale. Sul punto la Suprema Corte ribadisce che il diritto di cui all’art. 1481 c.c. per cui il compratore può sospendere il pagamento del prezzo o pretendere garanzia quando abbia ragione di temere che la cosa possa essere rivendicata da terzi, presuppone che il pericolo di evizione sia effettivo e non presuntivo o putativo. Da ciò consegue che il semplice fatto che un immobile provenga da donazione è possa essere teoricamente oggetto di una futura azione di riduzione per lesione di legittima, esclude di per sé che esista un pericolo effettivo di rivendica e che il compratore possa sospendere il pagamento del prezzo o pretendere la prestazione di una garanzia. Dunque, nel caso in esame, il rifiuto di stipulare il definitivo di vendita non poteva essere ritenuto giustificato sulla base della semplice allegazione del timore di una successiva azione da parte dell’erede pretermesso, dato che alla data prevista per la stipula dell’atto tale pericolo non aveva i necessari requisiti di concretezza ed attualità. Ed è per questo motivo che il motivo di ricorso va accolto.

Corte di Cassazione, sez. II Civile, sentenza 24 ottobre 2018 – 27 marzo 2019, n. 8571 Presidente Orilia Relatore Oliva Fatti di causa Con atto di citazione notificato il 10.9.2003 C.A. evocava in giudizio innanzi il Tribunale di Napoli B.A. , S.F. e S.G. invocando la risoluzione del contratto preliminare sottoscritto il 28.4.2003 in base al quale i convenuti si erano impegnati a vendere all’attrice un immobile sito in omissis , la condanna dei medesimi alla restituzione del doppio della caparra, pari ad Euro 31.000, oltre interessi dalla costituzione, nonché al rimborso delle provvigioni versate dall’attrice al mediatore immobiliare e al risarcimento del danno da liquidarsi in separato giudizio. A sostegno della domanda l’attrice esponeva che l’immobile era stato oggetto di donazione lesiva delle quote di legittima spettanti agli eredi necessari del donante e che non tutti detti eredi avevano dato la loro disponibilità ad intervenire in atto, poiché uno di essi era interdetto. I convenuti resistevano alla domanda, affermando che l’attrice era edotta della situazione dell’immobile, ed invocavano a loro volta accertarsi l’inadempimento della promissaria acquirente e la sua condanna al risarcimento del danno, o in via gradata il loro diritto a trattenere la caparra ricevuta all’atto del preliminare. Il Tribunale dichiarava risolto il contratto preliminare e condannava i convenuti alla restituzione della caparra, con interessi dal 30.6.2003, respingendo ogni altra domanda e compensando le spese. Interponevano appello i convenuti in prime cure e spiegava a sua volta appello incidentale la C. . Con la sentenza impugnata, n. 2512/2014, la Corte di Appello di Napoli respingeva l’appello principale ed accoglieva l’incidentale, dichiarando legittimo il recesso esercitato dalla C. condannava quindi gli appellanti, convenuti in prime cure, al pagamento del doppio della caparra ricevuta al preliminare, con interessi dalla domanda. A sostegno della propria decisione, la Corte territoriale riteneva che nel preliminare non vi fosse menzione dell’esistenza di un erede interdetto dell’originario donante, dante causa dei promittenti venditori che pertanto detto erede avrebbe potuto agire contro l’acquirente per ottenere la restituzione dell’immobile ai sensi dell’art. 563 c.c. che comunque il terzo, per liberarsi dall’obbligo di restituzione del bene ai sensi del comma 3 della norma da ultimo invocata, avrebbe dovuto versare il valore accertato al momento della sentenza che quindi l’offerta manifestata dagli appellanti di depositare la somma di Euro 7.500 nelle mani del notaio sino alla scadenza del termine di prescrizione dell’azione di riduzione spettante all’interdetto doveva ritenersi inadeguata, perché inferiore alla percentuale del prezzo di cessione eventualmente spettante all’interdetto, pari ad 1/18 del totale. Propongono ricorso per la cassazione di detta sentenza D.B.A. , S.F. e S.G. affidandosi a cinque motivi. Resiste con controricorso C.A. . La parte contro ricorrente ha depositato memoria. Ragioni della decisione Con il primo motivo i ricorrenti lamentano la violazione e falsa applicazione degli artt. 1385 e 1455 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, nonché l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5. Assumono che nel caso di specie mancherebbe l’inadempimento colpevole di non scarsa importanza, posto che i testi Co. agente immobiliare che intermediò l’affare e P. notaio incaricato della stipula del rogito definitivo di vendita avrebbero confermato che ambo le parti erano consapevoli delle reali condizioni dell’immobile, le quali peraltro non erano ostative alla rogazione dell’atto di compravendita. L’offerta dei promittenti venditori, di depositare una somma a mani del notaio, sarebbe stata quindi un atto non dovuto, con il quale gli stessi avrebbero offerto alla promissaria acquirente una garanzia ulteriore rispetto a quanto dovuto. Con il secondo motivo i ricorrenti lamentano la violazione e falsa applicazione degli artt. 1481 e 1385 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, perché la Corte di Appello avrebbe erroneamente configurato un pericolo di evizione non concreto. Per ragioni logiche, insieme alle prime due censure va esaminato il quinto motivo, con il quale i ricorrenti lamentano la violazione e falsa applicazione degli artt. 1385 e 1455 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3. Ad avviso dei ricorrenti, la Corte di Appello avrebbe errato nel respingere la domanda riconvenzionale da loro svolta -avente ad oggetto la risoluzione del contratto preliminare di cui è causa per inadempimento della promissaria acquirente sul presupposto del loro inadempimento colpevole. Delle predette doglianze va esaminata preventivamente la seconda, che appare fondata. Nel caso di specie la C. , promissaria acquirente, aveva rifiutato di sottoscrivere l’atto di compravendita dell’immobile di cui è causa allegando un pericolo di evizione parziale derivante dal fatto che il bene era stato oggetto, in precedenza, di donazione lesiva delle quote di legittima spettanti agli eredi necessari del donante, tra i quali vi era un interdetto non intervenuto in atto. Il pericolo di evizione allegato dalla C. , pertanto, non era attuale, ma soltanto potenziale, poiché al momento fissato per la stipula del rogito definitivo non risultava proposta alcuna azione, da parte del tutore dell’erede pretermesso, tesa ad ottenere l’annullamento o l’inefficacia della vendita del cespite di cui è causa. Sul punto, va ribadito il principio secondo cui Il diritto previsto dall’art. 1481 c.c., per cui il compratore può sospendere il pagamento del prezzo o pretendere idonea garanzia quando abbia ragione di temere che la cosa possa esser rivendicata da terzi, presuppone che il pericolo di evizione sia effettivo e cioè non meramente presuntivo o putativo, onde esso non può risolversi in un mero timore soggettivo che l’evizione possa verificarsi, ma, anche quando si abbia conoscenza che la cosa appartenga ad altri, occorre che emerga da elementi oggettivi o comunque da indizi concreti che il vero proprietario abbia intenzione di rivendicare, in modo non apparentemente infondato, la cosa. Ne consegue che il semplice fatto che un bene immobile provenga da donazione e possa essere teoricamente oggetto di una futura azione di riduzione per lesione di legittima, esclude di per sé che esista un pericolo effettivo di rivendica e che il compratore possa sospendere il pagamento o pretendere la prestazione di una garanzia Cass. Sez. 2, Sentenza n. 2541 del 17/03/1994, Rv. 485762 . Nella stessa linea interpretativa, si è ritenuto che Il fallimento del dante causa del promissario venditore di un immobile, con l’astratta possibilità di conseguente revocatoria fallimentare, non giustifica, di per sé, l’esercizio, da parte del promissario acquirente, della facoltà di sospendere, ai sensi dell’art. 1481 c.c., l’esecuzione della propria prestazione, trattandosi di facoltà che, sebbene concessa anche in presenza di pretese del terzo sull’oggetto del contratto, presuppone non il mero timore delle medesime, bensì che risulti concretamente la volontà del terzo di promuovere azioni volta ad ottenere il riconoscimento dei suoi asseriti diritti sul bene e che la detta sospensione non sia contraria a buona fede, ricorrendo tale condizione allorché il pericolo di azioni siffatte si connoti per serietà e concretezza, sì da escludere la presenza di un pretesto dell’obbligato per rifiutare l’adempimento dovuto Cass. Sez.2, Sentenza n. 5979 del 22/06/1994, Rv.487153 conf. Cass. Sez.2, Sentenza n. 3390 del 22/02/2016, Rv.638762 . Ulteriore conferma del principio esposto si trae, a contrario, anche da Cass. Sez. 2, Sentenza n. 24340 del 18/11/2011 Rv. 619708 , che ha ravvisato il pericolo concreto ed attuale dell’evizione del bene compromesso in vendita, e quindi il diritto del promissario acquirente di sospendere il pagamento del prezzo e di rifiutarsi di concludere il contratto definitivo fino all’eliminazione del rischio, in un caso in cui era stato trascritto sul bene oggetto del preliminare un atto di citazione con il quale un terzo ne richiedeva il trasferimento a proprio favore. Nel caso di specie, quindi, il rifiuto di stipulare il definitivo non poteva essere ritenuto giustificato sulla base della semplice allegazione del timore di una successiva azione da parte dell’erede pretermesso, posto che alla data prevista per la stipula dell’atto detto pericolo non aveva i necessari requisiti di concretezza ed attualità, non risultando proposta alcuna azione da parte del diretto interessato o meglio, trattandosi di interdetto, dal suo tutore . Peraltro, va evidenziato che l’esistenza di una iniziativa giudiziaria da parte di quest’ultimo non è stata dedotta nè con gli scritti introduttivi del presente giudizio, nè in sede di memorie ex art. 378 c.p.c All’accoglimento del secondo motivo consegue l’assorbimento del primo e del quinto. La Corte di Appello dovrà quindi procedere ad un complessivo riesame della fattispecie per verificare se -alla luce dei principi di diritto sopra enunciati-sussista nel caso di specie quel pericolo concreto ed attuale di evizione che, solo, potrebbe giustificare il rifiuto di stipulare il definitivo opposto dalla promissaria acquirente. In relazione a detto accertamento dovrà essere anche esaminata la domanda riconvenzionale di inadempimento già formulata in prime cure dagli odierni ricorrenti e riproposta dai medesimi come motivo di appello. Con il terzo motivo i ricorrenti lamentano la violazione e falsa applicazione degli artt. 1385 e 1453 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3 perché la Corte di Appello avrebbe errato nel qualificare la domanda come di recesso. Con il quarto motivo i ricorrenti propongono il medesimo argomento, lamentando la nullità della sentenza impugnata per violazione dell’art. 112 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4. Le due censure, che vanno esaminate congiuntamente per la loro connessione, sono fondate. Ed invero va ribadito il principio per cui In tema di contratto preliminare, va qualificata in termini di declaratoria di risoluzione per inadempimento -soggetta, pertanto, alla relativa disciplina generale e non quale esercizio del diritto di recesso, la domanda con cui la parte non inadempiente, che abbia conseguito il versamento della caparra, chieda, oltre alla risoluzione del contratto, la condanna della controparte al risarcimento di ulteriori danni in tal caso, dunque, essa non può incamerare la caparra, che perde la sua funzione di limitazione forfetaria e predeterminata della pretesa risarcitoria e la cui restituzione è ricollegabile agli effetti propri della risoluzione negoziale, ma solo trattenerla a garanzia della pretesa risarcitoria o in acconto su quanto le spetta, a titolo di anticipo dei danni che saranno in seguito accertati e liquidati Cass. Sez.2, Sentenza n. 20957 del 08/09/2017, Rv.645245 conf. Cass. Sez.6-2. Ordinanza n. 11012 del 08/05/2018, Rv.648231 e Cass. Sez.3, Sentenza n. 11356 del 16/05/2006, Rv.591350 . La Corte di Appello ha quindi erroneamente configurato la domanda proposta dalla C. come di recesso, senza considerare che costei aveva invocato, oltre al doppio della caparra, anche il risarcimento del danno ulteriore. Ne consegue che, alla stregua del principio appena richiamato, la domanda avrebbe dovuto essere ritenuta di risoluzione. Nè può dubitarsi dell’interesse degli odierni ricorrenti a censurare la decisione impugnata sotto il profilo dell’inquadramento giuridico dell’azione proposta dalla originaria attrice, posto che da esso derivano importanti effetti sul piano della prova del danno, considerato che Qualora, anziché recedere dal contratto, la parte non inadempiente si avvalga dei rimedi ordinari della richiesta di adempimento ovvero di risoluzione del negozio, la restituzione della caparra è ricollegabile agli effetti restitutori propri della risoluzione negoziale, come conseguenza del venir meno della causa della corresponsione, giacché in tale ipotesi essa perde la sua funzione di limitazione forfetaria e predeterminata della pretesa risarcitoria all’importo convenzionalmente stabilito in contratto e la parte che allega il danno, oltre che alla restituzione di quanto prestato in relazione o in esecuzione del contratto, ha diritto anche al risarcimento dell’integrale danno subito, se e nei limiti in cui riesce a provarne l’esistenza e l’ammontare in base alla disciplina generale di cui agli artt. 1453 c.c. e ss. Cass. Sez.3, Sentenza n. 11356 del 16/05/2006, Rv.591350, cit. . Non è invece conferente il richiamo, operato dai ricorrenti, al precedente delle Sezioni Unite di questa Corte n. 553/2009 Cass. Sez. U, Sentenza n. 553 del 14/01/2009, Rv.606608 , posto che esso ha affermato il principio secondo cui In tema di contratti cui acceda la consegna di una somma di denaro a titolo di caparra confirmatoria, qualora il contraente non inadempiente abbia agito per la risoluzione giudiziale o di diritto ed il risarcimento del danno, costituisce domanda nuova, inammissibile in appello, quella volta ad ottenere la declaratoria dell’intervenuto recesso con ritenzione della caparra o pagamento del doppio , avuto riguardo -oltre che alla disomogeneità esistente tra la domanda di risoluzione giudiziale e quella di recesso ed all’irrinunciabilità dell’effetto conseguente alla risoluzione di diritto all’incompatibilità strutturale e funzionale tra la ritenzione della caparra e la domanda di risarcimento la funzione della caparra, consistendo in una liquidazione anticipata e convenzionale del danno volta ad evitare l’instaurazione di un giudizio contenzioso, risulterebbe infatti frustrata se alla parte che abbia preferito affrontare gli oneri connessi all’azione risarcitoria per ottenere un ristoro patrimoniale più cospicuo fosse consentito -in contrasto con il principio costituzionale del giusto processo, che vieta qualsiasi forma di abuso processuale di modificare la propria strategia difensiva, quando i risultati non corrispondano alle sue aspettative . Nel caso di specie, a differenza di quello affrontato e risolto dalle S.U., non si ravvisa alcuna trasformazione dell’originaria domanda di risoluzione in recesso. In definitiva, vanno accolti il secondo, il terzo e il quarto motivo del ricorso, con assorbimento del primo e del quinto, e la causa va rinviata alla Corte di Appello di Napoli, altra sezione, anche per le spese del presente giudizio di Cassazione. P.Q.M. la Corte accoglie il secondo, terzo e quarto motivo del ricorso e dichiara assorbiti il primo e il quinto motivo. Cassa la decisione impugnata in relazione alle censure accolte e rinvia, anche per le spese del presente giudizio di Cassazione, alla Corte di Appello di Napoli, altra sezione.