Il giudice deve valutare la normativa sulle distanze tra costruzioni alla luce dei regolamenti locali

Non è valida la decisione del Tribunale che statuisce la legittimità di una costruzione se questa non tiene conto, oltre alla normativa nazionale, anche dell’esistenza di regolamenti locali più stringenti.

Così la Cassazione con sentenza n. 31690/19, depositata il 4 dicembre. Il caso. Un proprietario agiva in giudizio avverso i vicini lamentando come questi avessero realizzato alcune costruzioni ad una distanza inferiore rispetto alla legge con riguardo alla sua proprietà. In conseguenza di tale violazione l’attore domandava la riduzione in pristino delle costruzioni in oggetto e l’accertamento della inesistenza di una servitù di corridoio condominiale sulle aree coinvolte. Si costituivano in giudizio i convenuti, negando gli addebiti attorei e chiamando in giudizio i loro danti causa. All’esito del processo il Tribunale accoglieva la domanda del proprietario attore e condannava i convenuti alla demolizione delle costruzioni oggetto del giudizio e al ripristino dello stato dei luoghi. La causa approdava quindi alla Corte d’Appello a seguito del gravame dei proprietari soccombenti. La Corte, tuttavia, sovvertendo l’esito del primo giudizio, accoglieva l’appello considerando legittime le costruzioni realizzate in aderenza e rigettava sia la domanda di riduzione in pristino, si quelle di eliminazione delle servitù. La cassazione cassa e annulla la decisione d’appello. Con ricorso ex art. 360 c.p.c. il proprietario impugnava la sentenza d’appello. Nell’articolato gravame il soccombente, in buona sostanza, sosteneva che la sentenza d’appello avesse violato la normativa urbanistica nazionale e locale, dato che aveva affermato la legittimità dell’avversa costruzione in quanto realizzata su una porzione di parete condominiale – in relazione all’art. 877 c.c. – e con conseguente violazione degli articoli 869, 871, 872, 873 c.c., degli art. 13 e 17 della Legge Urbanistica e degli art. 5, 24 e 25 della NTA del PRG. Il ricorrente, inoltre, sosteneva come la Corte d’Appello non avesse correttamente ricostruito il fatto al quale applicare la normativa locale in quanto le aree coinvolte, consistendo nella zona centro storico”, avrebbero dovuto godere di una maggiore tutela quanto a nuove edificazioni. Con la sentenza Cass. Sez. II, n. 31690, 4 dicembre 2019, la Suprema Corte accoglieva il ricorso limitatamente alle predette doglianze. Secondo la Cassazione, infatti, la Corte d’Appello avrebbe errato nel non accertare compiutamente la disciplina del regolamento locale, tenendo conto sia dello stato dei luoghi che del contesto nel quale erano siti gli edifici in oggetto. L’art. 873 c.c. prevede, infatti, che Le costruzioni su fondi finitimi, se non sono unite o aderenti, devono essere tenute a distanza non minore di tre metri. Nei regolamenti locali può essere stabilita una distanza maggiore”. In considerazione di ciò, la Corte del riesame avrebbe dovuto tenere conto dei limiti maggiori previsti dal piano regolatore locale per le costruzioni site nel centro storico cittadino, a tutti gli effetti normativa valida ed efficace per la disciplina in oggetto. Alla luce delle predette valutazioni quindi, la Cassazione, in parziale accoglimento del ricorso, cassava la sentenza impugnata e rinviava il giudizio ad altra sezione della Corte d’Appello per una nuova valutazione nel merito.

Corte di Cassazione, sez. II Civile, sentenza 10 ottobre – 4 dicembre 2019, n. 31690 Presidente Gorjan – Relatore Carrato Rilevato in fatto Con un primo atto di citazione C.C. , premesso di essere proprietario di un appartamento sito in omissis , conveniva in giudizio, dinanzi al Tribunale di Ancona, Ac.Ca. , Ac.An.Ma. e G.S. , nella qualità di eredi di Ac.At. , chiedendo l’accertamento della insussistenza di una servitù a carico della sua suddetta proprietà immobiliare in conseguenza dell’esecuzione di opere edili in violazione delle norme sulle distanze tra le costruzioni e dai confini, instando per la riduzione in pristino, nonché l’accertamento della inesistenza di una servitù di corridoio condominiale, con derivante rimozione delle tubazioni ivi installate dai convenuti. Con successivo atto di citazione del giugno 2001 lo stesso C.C. conveniva, dinanzi al medesimo Tribunale, A.M. e S.P. , nella loro rispettiva qualità di usufruttuaria e nudo proprietario dello stesso immobile, che essi avevano acquistato dagli originari convenuti Ac. . L’A. e lo S. si costituivano in giudizio resistendo alla domanda e chiamando in giudizio i tre loro danti causa. I processi venivano riuniti e l’adito Tribunale, con sentenza non definitiva n. 886/2007, dichiarava l’inammissibilità della presumibile - ma non formalizzata - domanda di manleva ex art. 1485 c.c. avanzata dai convenuti A.M. e S.P. nei confronti di Ac.Ca. , Ac.An.Ma. e G.S. . A.M. e S.P. impugnavano immediatamente la suddetta sentenza e il giudizio di primo grado proseguiva per la decisione sulle ulteriori domande. Con sentenza definitiva n. 1410/2009, il Tribunale di Ancona, all’esito dell’esperita istruzione probatoria nel corso della quale veniva espletata anche c.t.u. , dichiarava l’inammissibilità di ogni eccezione di intervenuta usucapione, della pretesa ricondotta al citato art. 1485 c.c. nonché di ogni domanda risarcitoria proposta in via riconvenzionale nei riguardi dell’attore. Di contro, accoglieva la domanda del C. e, per l’effetto, ordinava la demolizione del corpo di fabbrica abusivamente realizzato con conseguente ripristino dello stato dei luoghi disponeva, altresì, che - per il caso di mancata ottemperanza all’indicato ordine da parte dei convenuti - i lavori di bonifica ambientale dovessero essere espletati sotto la direzione del secondo c.t.u., avvalendosi di impresa di sua fiducia. La menzionata sentenza definitiva di cui, nelle more, veniva disposta la sospensione dell’efficacia esecutiva veniva appellata da A.M. e S.P. e, con distinto gravame, anche da Ac.Ca. , mentre Ac.An. e G.S. rimanevano contumaci. Riuniti i due giudizi di appello, con sentenza n. 130/2016 pubblicata il 2 febbraio 2016 , la Corte di appello di Ancona, in parziale accoglimento degli appelli ed in riforma dell’impugnata sentenza di prime cure, così specificamente provvedeva - rigettava la domanda formulata da C.C. nei confronti di Ac.Ca. , Ac.An.Ma. e G.S. , nonché nei riguardi di A.M. e S.P. relativa alla rimozione del manufatto costruito in aderenza, alla eliminazione delle tubature e dell’apertura della luce a bocca di lupo - accoglieva la domanda proposta da C.C. nei confronti di Ac.Ca. , Ac.An.Ma. e G.S. , A.M. e S.P. concernente la luce aperta tra le cantine e, per l’effetto, condannava tutti questi ultimi al ripristino della luce stessa a loro cura e spese - condannava Ac.Ca. , Ac.An.Ma. e G.S. a tenere indenni A.M. e S.P. dalle spese derivanti dall’esecuzione della sentenza - regolava, infine, le spese complessive dei due gradi di giudizio avuto riguardo a tutti i rapporti processuali che si erano instaurati tra le parti. Considerato in diritto 1. Avverso la suddetta sentenza di appello ha proposto ricorso per cassazione, affidato ad otto motivi suddivisi in 6 comparti di specifiche censure , al quale hanno resistito con un unico controricorso A.M. e S.P. , mentre gli altri intimati Ac.Ca.Pi. , Ac.An.Ma. in proprio e quale erede di G.S. , nelle more deceduta non hanno svolto attività difensiva in questa sede. La difesa del ricorrente ha anche depositato memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c 1.1. Con il primo motivo indicato come 1.A il ricorrente ha dedotto - ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 - la nullità dell’impugnata sentenza per carenza di motivazione sull’asserita sussistenza dei requisiti di regolarità urbanistica, conseguenti all’avvenuta concessione in sanatoria , in tal senso denunciando la violazione dell’art. 132 c.p.c 1.2. Con la seconda doglianza riportata sub 1.B la difesa del C. ha prospettato - in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 - la falsa applicazione del D.M. n. 1444 del 1968, art. 2 in relazione all’art. 41 quinquies c.d. Legge Urbanistica, nel valutare gli effetti del condono. In particolare, con tale doglianza il ricorrente ha inteso impugnare la sentenza di appello sul presupposto che solo in conseguenza di una concessione in sanatoria per accertamento di conformità e non anche in caso di concessione in sanatoria per condono si viene a determinare automaticamente la regolarità urbanistica delle opere compiute, ragion per cui la Corte di secondo grado aveva errato nel dichiarare che, per effetto del condono, fosse conseguito uno stato di regolarità urbanistica delle opere stesse. 1.3. Con la terza censura indicata con 1.C il ricorrente ha denunciato - con riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 - la mancata rilevazione della nullità dei due atti di appello, connotati da carente specificazione dei motivi, imposta dall’art. 342 c.p.c., non risultando contestato il capo della sentenza concernente l’asserita esecuzione di lavori ulteriori , rispetto a quanto esposto nella richiesta di condono del 19 marzo 1986, nè il capo della sentenza che aveva dichiarato la violazione della normativa urbanistica sugli interventi edilizi in centro storico , come rilevato dalla c.t.u. D. . 1.4. Con il quarto motivo rubricato come 2.A il ricorrente ha dedotto - in ordine all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 - che con la sentenza impugnata era stata violata la normativa urbanistica nazionale e locale, essendo stato affermato che la costruzione delle controparti fosse legittima, in quanto realizzata su una porzione di parete dell’edificio condominiale, in relazione all’art. 877 c.c., con conseguente violazione degli artt. 869, 871, 872 e 873, con riferimento agli artt. 13 e 17 Legge Urbanistica, artt. 5, 24 e 25 della NTA del PRG, nonché dell’art. 7 NTA del piano attuativo della OMISSIS . 1.5. Con la quinta doglianza riportata sub 2.B il ricorrente ha denunciato - ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 - l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, oggetto di discussione tra le parti, deducendo che, con la sentenza di appello, era stato inesattamente ricostruito il fatto cui applicare la normativa urbanistica locale, avendo la Corte territoriale erroneamente ravvisato che fosse applicabile il regime della costruzione in aderenza in quanto ricadente tra le altre zone , previste dall’art. 5 lett. B delle NTA del PRG di Ancona. 1.6. Con il sesto mezzo indicato come 3 il ricorrente ha prospettato - in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 - un ulteriore omesso esame di fatto decisivo per il giudizio, oggetto di discussione tra le parti, non avendo la Corte marchigiana considerato che il Condominio cui apparteneva l’immobile di esso ricorrente non fosse ab origine costruito a confine, così dovendosi G considerare difettanti i presupposti per applicare l’art. 877 c.c., sussistendo, all’epoca, una pertinenza giardino , che rendeva l’immobile costruito a distanza dal confine. 1.7. Con il settimo motivo riportato come 4 il ricorrente ha denunciato - ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 - la violazione dei limiti posti dagli artt. 1120 e 1102 c.c., nella parte in cui con la sentenza impugnata era stato ritenuto che i convenuti potevano aprire un nuovo accesso, sul muro condominiale, collegato alla nuova struttura abusiva, su area contigua al condominio. 1.8. Con l’ottava ed ultima censura indicata come 5 il ricorrente ha dedotto 1/11 con riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 - la nullità della sentenza nella parte in cui aveva omesso di pronunciare sul motivo dell’appello incidentale di esso C. concernente l’erronea liquidazione in primo grado delle spese legali del suo difensore. 2. Rileva il collegio che il primo motivo è infondato poiché non ricorre l’ipotesi della motivazione mancante o apparente della sentenza nel suo complesso e, in ogni caso, avuto riguardo al profilo dell’asserita regolarità urbanistica della costruzione del manufatto costruito in aderenza all’edificio di esso ricorrente, la Corte ha manifestato di condividere la relazione del c.t.u. - conosciuta anche dalle parti - nella parte in cui aveva verificato che l’intervenuta concessione in sanatoria aveva certificato la sussistenza dei requisiti riferibili alla suddetta regolarità, in tal senso facendo proprio il risultato di un’attività tecnico-documentale-accertativa che non abbisognava di un’argomentazione più diffusa, anche perché trattavasi di circostanza emergente dalla citata relazione peritale nota alle parti. 2. Parimenti destituita di fondamento è la seconda censura perché, diversamente da quanto asserito dal ricorrente, con la sentenza impugnata non è stato affatto affermato il principio che, a seguito della intervenuta sanatoria dell’opera abusiva sul piano pubblicistico, i diritti dei terzi dovessero ritenersi non tutelabili, avendo, invece, la Corte territoriale - nell’esaminare se si fosse verificata la violazione delle norme sulle distanze legali - applicato il principio pacifico che in ogni caso sarebbero rimasti salvi tali diritti. 3. Il terzo motivo è propriamente inammissibile poiché, nella sua formulazione, non risultano riportati specificamente i motivi del gravame per i quali sarebbe stato difettante il requisito prescritto dall’art. 342 c.p.c., essendosi limitata parte ricorrente a richiamare genericamente il contenuto di detti motivi v. pag. 16 del ricorso senza, perciò, consentire a questa Corte un adeguato controllo sull’osservanza o meno del predetto requisito cfr. Cass. n. 20405/2006 e Cass. n. 22880/2017 . 4. Ritiene il collegio che sono, invece, fondati il quarto e quinto motivo, esaminabili congiuntamente siccome tra loro all’evidenza connessi, perché sotto il distinto profilo della violazione di cui al n. 3 e di quella di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5 - riguardano la medesima questione di diritto. Occorre, invero, osservare che nell’impugnata sentenza risulta omessa la valutazione del fatto - potenzialmente decisivo - relativo alla considerazione che gli immobili dedotti in controversia ricadevano nel centro storico , donde si sarebbe dovuta applicare come ritenuto, del resto, dal giudice di primo grado la normativa specifica di cui all’art. 5 paragrafo A delle NTA del PRG e non anche quella di cui alle disposizioni dello stesso articolo riguardanti le costruzioni le altre zone , che consentivano la realizzazione di costruzioni in aderenza mentre la normativa per il centro storico prevedeva apposite distanze tra fabbricati e dal confine , con la conseguente violazione delle norme indicate specificamente nel quarto motivo. In altri termini, la Corte marchigiana ha dato per scontato che, nel caso di specie, trovasse applicazione l’art. 5, lett. b delle N. T.A Comune di Ancona, il cui disposto consentiva l’esecuzione di costruzioni sul confine in deroga alle distanze minime e, quindi, in aderenza ai sensi dell’art. 877 c.c., senza dar minimamente conto sul se, invece, nella fattispecie dovessero o meno applicarsi le disposizioni più rigorose in materia di edilizia stabilite dall’art. 5 paragrafo A delle NTA del PRG per gli interventi da realizzare in centro storico ambito nel quale si assume ricadere OMISSIS , in cui erano vietate le costruzioni in aderenza, invece possibili in altre zone diverse per come risultante dal testo delle previsioni del citato strumento urbanistico specificamente riportate in ricorso . Ciò rinviene il suo presupposto nel principio generale - stabilito dall’art. 873 c.c. - della derogabilità alle distanze legali mediante la previsione di distanze maggiori nei regolamenti locali validamente approvati ed efficaci. Del resto è risaputo, in via generale, che la legittimità della costruzione in aderenza sussiste solo se la possibilità di costruire sul confine è contemplata dal regolamento edilizio, mentre è da escludere ove questo - pur se nulla dispone per lo ius aedificandi in aderenza a preesistenti fabbriche aliene prescriva una determinata distanza dal confine, così impedendo l’operatività del principio della prevenzione. Era, quindi, necessario che la Corte territoriale accertasse compiutamente la disciplina regolamentare edilizia locale - tenendo conto della zona in cui ricadevano gli immobili di proprietà delle parti in causa e delle loro caratteristiche sul piano strutturale, logistico e temporale - per rilevare l’effettiva fondatezza o meno delle ragioni delle controparti del C. . L’accoglimento del quarto e quinto motivo implica l’assorbimento del sesto siccome relativo a questione dipendente dal riesame di quelli ritenuti fondati e valutabile, in sede di rinvio, solo nel caso in cui si escluda l’applicazione delle norme edilizie stabilite dall’art. 5 paragrafo A delle NTA del PRG, con la conseguente possibile applicabilità della disciplina in tema di costruzioni in aderenza. 5. Ad avviso del collegio va ritenuto fondato anche il settimo motivo. Il giudice di appello è, invero, incorso nelle dedotte violazioni poiché ha ritenuto legittima la nuova apertura realizzata da Ac.Ca. , modificativa della facciata condominiale, facendo erroneamente applicazione dell’art. 1120 c.c. concernente, però, le innovazioni deliberabili con le prescritte maggioranze in ambito condominiale , anziché applicando correttamente l’art. 1102 c.c., il quale consente al singolo comunista di porre in essere un maggior uso della cosa comune a condizione che non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti alla comunione pari uso. Infatti, nel caso di specie, si sarebbero dovuti considerare difettanti i presupposti contemplati dall’art. 1120 c.c. dal momento che l’apertura sulla parere condominiale aveva messo in collegamento l’edificio condominiale con una diversa unità abitativa, sita in una contigua area non condominiale, donde ne era conseguita la creazione di un nuovo accesso all’unità riaccorpata che aveva determinato la contestuale chiusura della presa d’aria di cui godeva la proprietà del C. , così venendosi a configurare la violazione dell’art. 1102 c.c., poiché era risultato impedito al ricorrente di fruire del pari uso della parete per un caso analogo v. Cass. n. 15024/2013 . A tal proposito va ricordato che, in tema di condominio negli edifici, le innovazioni di cui all’art. 1120 c.c. si distinguono dalle modificazioni disciplinate dall’art. 1102 c.c., sia dal punto di vista oggettivo, che da quello soggettivo sotto il profilo oggettivo, le prime consistono in opere di trasformazione, che incidono sull’essenza della cosa comune, alterandone l’originaria funzione e destinazione, mentre le seconde si inquadrano nelle facoltà riconosciute al condomino, con i limiti indicati nello stesso art. 1102 c.c., per ottenere la migliore, più comoda e razionale utilizzazione della cosa per quanto concerne, poi, l’aspetto soggettivo, nelle innovazioni rileva l’interesse collettivo di una maggioranza qualificata, espresso con una deliberazione dell’assemblea, elemento che invece difetta nelle modificazioni, che non si confrontano con un interesse generale, bensì con quello del singolo condomino, al cui perseguimento sono rivolte. Deve, altresì, riaffermarsi il principio al quale dovrà attenersi il giudice di rinvio secondo cui l’esercizio della facoltà di ogni condomino di servirsi della cosa comune, nei limiti indicati dall’art. 1102 c.c., deve esaurirsi nella sfera giuridica e patrimoniale del diritto di comproprietà sulla cosa stessa e non può essere esteso, quindi, per il vantaggio di altre e diverse proprietà esclusive del medesimo condomino perché, in tal caso, si verrebbe ad imporre una servitù sulla res comune in favore di beni estranei alla comunione, per la cui costituzione è necessario il consenso di tutti i comproprietari cfr. Cass. n. 944 del 2013 e Cass. n. 5132/2019 . 6. In definitiva, alla stregua delle argomentazioni complessivamente svolte, vanno rigettati i primi tre motivi, accolti il quarto, quinto e settimo, nel mentre devono ritenersi assorbiti il sesto per quanto precedentemente chiarito e l’ottavo, siccome riguardante un profilo accessorio involgente una pronuncia sulle spese giudiziali. Di conseguenza, la sentenza va cassata in relazione alle censure ritenute fondate e la causa va rinviata alla Corte di appello di Ancona che, oltre a prendere in esame i fatti potenzialmente decisivi illustrati nell’affrontare il quarto e quinto motivo applicando la conseguente disciplina giuridica e a conformarsi al principio di diritto enunciato in esito all’esame del settimo motivo, provvederà a regolare anche le spese del presente giudizio di legittimità. P.Q.M. La Corte accoglie quarto, quinto e settimo motivo, rigetta i primi tre e dichiara assorbiti il sesto e l’ottavo cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia, anche per le spese del presente giudizio, alla Corte di appello di Ancona, in diversa composizione.