Un cortile è condominiale solo se vi è un collegamento funzionale tra lo stesso e le proprietà private contigue

In caso due abitazioni di due proprietà distinte dividano un cortile comune, ma non sia ravvisabile l’esistenza di una situazione di condominio, allora uno dei due partecipanti non è libero di aprire delle vedute sul cortile comune, non dovendosi applicare la disciplina condominiale in materia di utilizzo del bene comune, bensì l’ordinaria disciplina in materia di distanze tra proprietà contigue.

Il caso. Una proprietaria conveniva in giudizio i due vicini di casa lamentando come questi, comproprietari insieme ad ella di un cortile comune frapposto alle due abitazioni private separate, avessero realizzato delle strutture in violazione delle normative edilizie e sulle distanze. Nel dettaglio, a detta dell’attrice, i vicini avrebbero realizzato una sopraelevazione, una finestra, una antenna e un balcone in modo del tutto illegittimo, ragione in virtù della quale ella domandava la riduzione in pristino delle citate opere e il risarcimento del danno. Si costituivano in giudizio i convenuti negando le asserzioni attoree, affermando la legittimità delle proprie opere e domandando in via riconvenzionale la riduzione in pristino del tetto e del solaio della vicina, a detta loro costruiti in modo abusivo e in violazione della normativa sulle distanze. Il giudice di prime cure, all’esito del processo, accoglieva la domanda dell’attrice, condannando i convenuti al ripristino delle opere nello status quo ante e accogliendo, tuttavia, anche la domanda riconvenzionale, di conseguenza imponendo il ripristino dei luoghi anche con riguardo alla proprietà della attrice. I convenuti appellavano quindi la decisione, ma la Corte d’Appello confermava l’esito del giudizio di prime cure. In virtù della duplice soccombenza i convenuti agivano in sede di Cassazione. La Cassazione si pronuncia in materia di distanze, distinguendo la disciplina a seconda della condominialità o meno dei luoghi. Stante la sconfitta nel giudizio di appello, i proprietari convenuti redigevano e depositavano ricorso in Cassazione, con il quale sostenevano l’illegittimità della decisione d’appello per svariate ragioni. Il lungo ricorso, incentrato su sei doglianze, veniva integralmente rigettato dalla Corte di Cassazione con la sentenza Cass. Sez. Seconda, 21 ottobre 2019, n. 26807. La lunga e articolata decisione della Corte analizzava tutti i singoli motivi e ne spiegava con dovizia di particolari le ragioni dei rigetti, molte delle quali erano legate a inammissibili richieste di valutazioni di fatto in sede di legittimità. Nel presente commento, per ragioni di sintesi, si tratterà, però solamente l’interessante argomentazione a corredo del rigetto della sesta doglianza del ricorso. Al fine di articolare quanto sopra significato occorre prendere le mosse dal motivo di ricorso in sé. I ricorrenti, infatti, affermavano l’invalidità della decisione d’appello nella parte in cui non aveva fatto corretta applicazione della disciplina in materia di condominio e utilizzo delle parti comuni. A detta dei ricorrenti, difatti, i luoghi oggetto di causa sarebbero stati categorizzabili come un condominio. Le due case proprietà individuali sarebbero infatti state unite al cortile condiviso parte comune da un rapporto di strumentalità che avrebbe consentito, in ossequio ai principi di cui agli artt. 1117 e 1117 bis c.c., di identificare l’esistenza di un condominio. In particolare, si ricorda, sussiste il condominio laddove vi sia una situazione ove parti di proprietà private siano legati a parti comuni da un rapporto di strumentalità e funzionalità. Stante tale qualificazione – proseguivano i ricorrenti – la Corte d’Appello avrebbe dovuto applicare il principio di cui all’art. 1102 c.c. Tale norma afferma al primo comma che Ciascun partecipante può servirsi della cosa comune, purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto. A tal fine può apportare a proprie spese le modificazioni necessarie per il miglior godimento della cosa . In ossequio a tale normativa, quindi, l’apertura di una veduta che si affacciava sul cortile sarebbe stata un normale utilizzo della cosa comune, a tutti gli effetti consentito. Di diversa opinione, tuttavia, era la Cassazione. A detta degli Ermellini, difatti, i luoghi in questione non potevano essere considerati come un condominio, ma piuttosto come abitazioni separate con un cortile comune, non essendo in alcun modo ravvisabile un collegamento strutturale, materiale o funzionale, o quella relazione di accessorio a principale che costituisce il fondamento della condominialità dell’area scoperta, ai sensi dell’art. 1117 c.c. . In ragione a tale principio, l’apertura delle vedute non poteva considerarsi legittima nell’alveo dell’art. 1102 c.c., dovendosi invece applicare la disciplina ordinaria di cui all’art. 905 c.c. ossia Non si possono aprire vedute dirette verso il fondo chiuso o non chiuso e neppure sopra il tetto del vicino, se tra il fondo di questo e la faccia esteriore del muro in cui si aprono le vedute dirette non vi è la distanza di un metro e mezzo. Non si possono parimenti costruire balconi o altri sporti, terrazze, lastrici solari e simili, muniti di parapetto che permetta di affacciarsi sul fondo del vicino, se non vi è la distanza di un metro e mezzo tra questo fondo e la linea esteriore di dette opere [] . In considerazione di tale principio, la Cassazione rigettava il motivo di ricorso in oggetto affermando che il partecipante alla comunione del cortile non può, in sostanza, aprire una veduta verso la cosa comune a vantaggio dell’immobile di sua esclusiva proprietà, finendo altrimenti per imporre di fatto una servitù a carico della cosa comune, senza che operi, al riguardo, il principio dell’art. 1102 c.c. il quale non è applicabile a rapporti tra proprietà individuali e beni comuni finitimi, che sono piuttosto disciplinati dalle norme che regolano i rapporti tra proprietà contigue od asservite sul punto si veda altresì Cass. Sez. II, n. 17480/2018 Cass. Sez. II, n. 12989/2008 Cass. Sez. II, n. 8397/2000 .

Corte di Cassazione, sez. II Civile, sentenza 19 giugno – 21 ottobre 2019, n. 26807 Presidente Manna – Relatore Scarpa Fatti di causa C.S. e B.C. propongono ricorso articolato in sei motivi avverso la sentenza n. 1073/2015 della Corte d’Appello di Torino depositata il 3 giugno 2015. Resiste con controricorso L.C. , che ha anche presentato memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c L.C. , con citazione del 24 ottobre 2009, convenne davanti al Tribunale di Torino, sezione distaccata di Susa, C.S. e B.C. , proprietari di immobile confinante a quello dell’attrice in vicolo omissis , domandandone la condanna alla riduzione in pristino di una serie di costruzioni una sopraelevazione, una finestra, un’antenna, un balcone realizzate in violazione delle distanze legali, nonché alla cessazione di immissioni moleste ed infiltrazioni ed al risarcimento dei danni. I convenuti C.S. e B.C. , oltre a contestare la fondatezza delle pretese di L.C. , ne domandarono in riconvenzionale la condanna alla riduzione di pristino del tetto e del solaio modificati, di due lucernai, di una copertura del balcone, nonché al risarcimento dei danni per altre opere eseguite. Il Tribunale di Torino, sezione distaccata di Susa, con sentenza del 2 dicembre 2013 condannò C.S. e B.C. al ripristino dell’apertura al servizio del bagno, al ripristino del balcone ed al risarcimento dei danni subiti dall’attrice, mentre condannò L.C. all’eliminazione dello sconfinamento del solaio, alla rimozione del cemento tra il pilastrino del balcone ed il muro di proprietà dei convenuti, ed infine al risarcimento dei danni subiti da questi ultimi. Pronunciando sull’appello principale di C.S. e B.C. e sull’appello incidentale di L.C. , la Corte d’Appello di Torino, con la sentenza n. 1073/2015 del 3 giugno 2015, ha condannato C.S. e B.C. a ripristinare lo stato del loro fabbricato nelle condizioni antecedenti agli interventi compiuti nell’anno 2009, nonché a trasformare la veduta del bagno in luce regolare, rigettando ogni altra pretesa delle parti e confermando per il resto la sentenza di primo grado. Ragioni della decisione Va premesso come C.S. e B.C. abbiano allegato in ricorso che l’impugnata sentenza della Corte di Appello di Torino n. 1073/2015 gli è stata notificata a mezzo PEC in data 15 ottobre 2015. Le copie cartacee del messaggio di posta elettronica certificata, pervenuto il 15 ottobre 2015 dall’avvocato Ripa, difensore di L.C. , della relazione di notifica e del provvedimento impugnato sono state prodotte dai difensori dei ricorrenti all’atto del deposito del ricorso, i quali non avevano, però, altresì adempiuto all’ulteriore onere di attestare con sottoscrizione autografa la conformità agli originali digitali della copia del messaggio e dei suoi allegati formata su supporto analogico, ai sensi della L. n. 53 del 1994, art. 9, commi 1 bis e 1 ter. Essendo gli attuali difensori di C.S. e B.C. avvocati Bellino e Nicoletti diversi dal difensore che assisteva le stesse parti nel giudizio di appello avvocato Davi , deve precisarsi come la L. n. 53 del 1994, art. 9 cit., non prescrive che l’attestazione di conformità debba essere sottoscritta dal medesimo difensore che assiste le parti nel grado di giudizio nel quale la copia analogica del documento digitale viene prodotta. Il potere di certificare la conformità della stampa cartacea all’originale digitale presenti nei registri telematici di cancelleria va ravvisato, infatti, in capo al difensore che è munito di procura alle liti al momento in cui l’attestazione viene redatta cfr. Cass. Sez. 6 - 3, 08/05/2018, n. 10941 . All’udienza di discussione del 26 febbraio 2019, fu posto rilievo della questione e la causa venne rinviata a nuovo ruolo in attesa del pronunciamento delle Sezioni Unite di questa Corte, investite dalla ordinanza interlocutoria 09/11/2018, n. 28844, della Sesta - 3 Sezione. È così intervenuta la sentenza Cass., Sez. U, 25/03/2019, n. 8312, la quale ha affermato che il deposito in cancelleria, nel termine di venti giorni dall’ultima notifica, di copia analogica della decisione impugnata predisposta in originale telematico e notificata a mezzo PEC, come anche il deposito di copia della relata della notificazione telematica della decisione impugnata e del corrispondente messaggio PEC con annesse ricevute senza attestazione di conformità del difensore L. n. 53 del 1994, ex art. 9, commi 1 bis e 1 ter, o con attestazione priva di sottoscrizione autografa, non comportano l’improcedibilità, agli effetti dell’art. 369 c.p.c., comma 2, ove l’unico controricorrente o uno dei controricorrenti anche tardivamente costituitosi depositi copia analogica della decisione stessa ritualmente autenticata ovvero non abbia disconosciuto la conformità della copia informale all’originale notificatogli D.Lgs. n. 82 del 2005, ex art. 23, comma 2. Viceversa, nell’ipotesi in cui l’unico destinatario della notificazione del ricorso rimanga solo intimato oppure tali rimangono alcuni o anche uno solo tra i molteplici destinatari della notifica del ricorso ovvero disconosca la conformità all’originale della copia analogica non autenticata della decisione tempestivamente depositata, per evitare di incorrere nella dichiarazione di improcedibilità sarà onere del ricorrente depositare l’asseverazione di conformità all’originale della copia analogica sino all’udienza di discussione o all’adunanza in camera di consiglio. I.Il primo motivo del ricorso di C.S. e B.C. numerato come III a deduce la violazione dell’art. 112 c.p.c. per omessa pronuncia sulla domanda di eliminazione dello sconfinamento del tetto e sul rigetto dell’eccezione di usucapione del tetto della L. , nonché per ultrapetizione quanto alla domanda di eliminazione dello sconfinamento della veduta. Questa censura evidenzia che C.S. e B.C. avevano domandato in riconvenzionale la condanna di L.C. alla riduzione in pristino della porzione di tetto sul lato nord, della porzione di tetto sul lato sud e di parte del solai sul lato nord la sentenza del Tribunale di Torino, sezione distaccata di Susa, aveva accolto l’eccezione di usucapione solo con riferimento allo sconfinamento del tetto, ed invece negato la maturazione dell’usucapione con riferimento alla soletta gli appellanti C.S. e B.C. avevano così appellato il solo capo di sentenza relativo al tetto, e non anche quello relativo al solaio. Avrebbe così errato la Corte d’Appello di Torino a dichiarare inammissibile il terzo motivo dell’appello C. - B. pagine 39-40 della sentenza impugnata , avendo già il Tribunale escluso l’usucapione con riguardo alla soletta. I.1.Il primo motivo del ricorso di C.S. e B.C. va dichiarato inammissibile. È infatti inammissibile, per difetto di interesse, il motivo di ricorso per cassazione con il quale si censuri la sentenza d’appello riguardo ad un capo sul quale essa si sia comunque uniformata, come avvenuto nella specie, alla pronunzia del giudice di primo grado, passata sul punto in giudicato. Nè rileva che siffatta pronunzia sia stata in appello emessa per errore, avendo il giudice d’appello, come assumono i ricorrenti, malamente inteso la portata di una censura del proposto gravame, come estesa all’usucapione della soletta già negata dal primo giudice , sia pur soltanto al fine di dichiarare inammissibile il motivo per difetto di soccombenza sul punto degli appellanti. Sebbene si sostenga dai ricorrenti che la Corte d’Appello di Torino abbia erroneamente dichiarato l’inammissibilità del gravame relativamente all’impugnazione proposta contro la decisione sull’usucapione del solaio, C.S. e B.C. non hanno comunque interesse ad ottenere la cassazione della sentenza di appello per motivi processuali, restando comunque ferma la statuizione sul merito di primo grado, per la preclusione scaturente dalla mancata impugnazione Cass. Sez. 1, 08/01/1974, n. 36 Cass. Sez. L, 27/06/1980, n. 4058 Cass. Sez. 2, 11/05/1979, n. 2696 . HAI secondo motivo del ricorso di C.S. e B.C. numerato come III b deduce la violazione degli artt. 112 e 115 c.p.c., essendosi il giudice di appello pronunciato sulla inefficacia tra le parti della scrittura privata del 16 giugno 2001, in assenza di eccezione sul punto della L.r. . Il terzo motivo del ricorso di C.S. e B.C. III c allega la violazione dell’art. 101 c.p.c., comma 2, per aver altrimenti la Corte d’Appello rilevato d’ufficio la questione di cui al secondo motivo di ricorso senza assegnare alle parti termini per memorie. Le due censure attengono, quindi, al contratto del 16 giugno 2001 intercorso tra C.S. e L.C. , con esclusione di B.C. , comproprietaria di uno degli immobili in contesa. Con tale accordo, come interpretato dal Tribunale nella sentenza di primo grado, C.S. e L.C. si erano reciprocamente concessi la possibilità di modificare le quote delle falde dei rispettivi tetti, ad altezza inalterata del colmo. La Corte d’Appello di Torino ha invece rilevato che tale contratto non poteva essere opponibile a B.C. nel rapporto con L.C. , non essendo stata la prima parte del contratto del 16 giugno 2001. La Corte di Torino ha comunque ritenuto che anche nei rapporti C. -L. , la prima clausola contrattuale riportata a pagina 41 di sentenza concernesse unicamente il sottotetto L. , mentre la seconda non poteva in ogni caso consentire una sopraelevazione del fabbricato di proprietà C. - B. , essendo limitata a permettere soltanto il sollevamento degli spioventi di qualche decina di centimetri. II.1.Il secondo ed il terzo motivo del ricorso di C.S. e B.C. devono esaminarsi congiuntamente, in quanto connessi, e si rivelano del tutto infondati. Il contratto col quale i proprietari di due immobili limitrofi si concedano reciprocamente il permesso di eseguire modifiche delle quote di altezza delle falde dei rispettivi tetti, come risulta accertato in fatto con riguardo alla convenzione del 16 giugno 2001 tra C.S. e L.C. , dà luogo alla costituzione di una servitù prediale, ex art. 1058 c.c., risolvendosi in una menomazione di carattere reale per ciascuno degli immobili, a vantaggio del fondo contiguo che ne trae il corrispondente beneficio. La Corte di Appello di Torino ha ricostruito il contenuto della dichiarazione scritta da cui risultano i termini precisi del rapporto reale tra i vicini, ed ha così individuato quale fosse la comune intenzione delle parti l’indagine sull’effettiva volontà dei contraenti di una scrittura costitutiva di una servitù prediale costituisce accertamento di fatto insindacabile in sede di legittimità se non nei limiti di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5. È vero, peraltro, che, secondo consolidato orientamento giurisprudenziale, la mancata partecipazione al negozio costitutivo di una servitù di taluno dei comproprietari di un fondo indiviso nel caso in esame, di B.C. non priva l’atto di effetti giuridici Cass. Sez. 2, 18/05/2000, n. 6450 Cass. Sez. 2, 27/01/1992, n. 855 Cass. Sez. 2, 16/07/1981, n. 4643 . Tuttavia, è decisivo osservare come, allorché la Corte d’Appello di Torino ha affermato che l’accordo del 16 giugno 2001 non è opponibile alla, e dalla B. , quanto in particolare al tetto dei C. , essa ha impresso in sentenza una qualificazione giuridica degli effetti di quell’accordo, sulla base di motivazione che va comunque corretta in diritto alla stregua dei richiamati principi. I ricorrenti non si dolgono, con specifico motivo di censura, nè della statuizione che ha privato di effetti la convenzione in conseguenza della mancata partecipazione al negozio costitutivo della servitù di taluno dei comproprietari dell’immobile indiviso, nè dell’interpretazione che di quella scrittura ha fornito la Corte di Torino, ritenendo comunque irrilevanti le due clausole a legittimare la sopraelevazione del fabbricato C. - B. . Viene unicamente posta col secondo motivo una questione sul divieto per il giudice di rilevare d’ufficio la questione dell’efficacia inter partes di quella scrittura costitutiva di servitù, questione che, invece, attenendo agli elementi costitutivi della pretesa reale dedotta in lite, non integra certamente un’eccezione in senso stretto, e può essere rilevata d’ufficio dal giudice, anche nel giudizio di appello, nei limiti in cui la circostanza risulti da elementi di fatto già acquisiti nel giudizio arg. da Cass. Sez. U, 03/06/2015, n. 11377 Cass. Sez. U, 07/05/2013, n. 10531 . Quanto poi al terzo motivo di ricorso, esso si limita a denunciare la violazione dell’art. 101 c.p.c., comma 2. Tale norma, comè noto, introdotta con la L. n. 69 del 2009, art. 45, comma 13, ad applicabile ai giudizi instaurati dopo il 4 luglio 2009, stabilisce l’obbligo del giudice di stimolare il contraddittorio sulle questioni rilevate d’ufficio sempre che si tratti di questioni di fatto o di questioni miste di fatto e di diritto, che richiedono prove dal contenuto diverso rispetto a quelle chieste dalle parti. Non esiste viceversa l’obbligo di ripristinare il contraddittorio allorché il giudice, come avvenuto nel caso in esame, in virtù del principio iura novit curia di cui all’art. 113 c.p.c., comma 1, si avvalga del potere-dovere di assegnare una diversa qualificazione giuridica ai fatti e ai rapporti dedotti in giudizio, nonché all’azione esercitata in causa, oppure pervenga ad una diversa valutazione del materiale probatorio già acquisito, trattandosi di rilievi inidonei a modificare il quadro fattuale ed a determinare nuovi sviluppi della lite non presi in considerazione dai contendenti cfr. indicativamente Cass. Sez. U., 30/09/2009, n. 20935 . Avendo la Corte d’Appello rilevato, a proposito della mancata partecipazione della comproprietaria B. al contratto del 16 giugno 2001, una questione di puro diritto, non sussiste, in realtà, alcuna nullità della pronuncia per un error in procedendo, restando la pronuncia piuttosto impugnabile unicamente per l’eventuale error in iudicando, ovvero per il vizio insito nell’operazione finale della decisione, consistente nella errata sussunzione del fatto nello schema giuridico individuato officiosamente. Neppure, peraltro, i ricorrenti, a fronte della critica rivolta all’esame d’ufficio della questione della opponibilità del contratto del 16 giugno 2001 alla B. , specificano che la violazione del dovere di preventiva segnalazione abbia vulnerato la loro facoltà di chiedere prove, oppure di ottenere un’eventuale rimessione in termini, in maniera da individuare, in ipotesi di cassazione della sentenza con rinvio, quali attività processuali omesse potrebbero essere espletate, in applicazione dell’art. 394 c.p.c., comma 3. III. Il quarto motivo del ricorso di C.S. e B.C. numerato come III d denuncia la violazione dell’art. 112 c.p.c. per l’ultrapetizione relativa alla condanna al ripristino del tetto, avendo L.C. lamentato l’innalzamento del solo colmo del tetto e non delle falde. Si contesta che la Corte d’Appello abbia ordinato in dispositivo la condanna dei ricorrenti al ripristino dello stato del fabbricato di loro proprietà, nelle condizioni di altezza, forma e volumetria, quali aveva anteriormente agli interventi compiuti dai medesimi alla data del 3/4/2009 . Ciò mentre L.C. aveva domandato di riportare la porzione di tetto all’altezza originaria, ovvero al di sotto della linea del tetto del fabbricato di sua proprietà. III.1. Anche il quarto motivo di ricorso è infondato. Il vizio di ultra o extrapetizione si ha, invero, soltanto quando il giudice pronunci oltre i limiti delle domande e delle eccezioni formulate dalle parti, ovvero su questioni estranee al giudizio e non rilevabili d’ufficio. Non incorre perciò in detto vizio il giudice che accoglie una istanza la quale, ancorché non espressamente formulata, possa ritenersi tacitamente proposta e virtualmente contenuta nella domanda dedotta in giudizio, quando l’istanza stessa, con particolare riguardo al petitum e alla causa petendi, si trovi in rapporto di necessaria connessione con l’oggetto della lite e non estende il diritto che l’attore ha voluto tutelare con l’azione proposta. Nella specie, la domanda di L.C. era comunque volta a dichiarare l’illegittimità della sopraelevazione del tetto del fabbricato C. - B. ed ad ottenere la condanna dei vicini alla riduzione in pristino nel rispetto delle altezze originarie . In tal senso, la Corte d’Appello nell’ambito di giudizio di fatto spettante al giudice del merito ha proceduto ad una interpretazione della domanda di L.C. che non può essere censurata in sede di legittimità per vizio di attività del giudice. La Corte di Torino, prescindendo dal tenore meramente letterale degli atti contenenti l’esplicitazione della domanda della L. , ha avuto riguardo al contenuto sostanziale della pretesa fatta valere, come desumibile dalla natura delle vicende dedotte e rappresentate. A fronte di una domanda il cui tenore letterale fa rinvio a nozioni di fatto porzione di tetto , altezze originarie , non può, in generale, censurarsi in sede di legittimità per error in procedendo l’interpretazione che di tale nozione abbia dato il giudice del merito, svolgendo sul punto un suo accertamento logico espresso in una conseguente motivazione certamente fornita delle argomentazioni rilevanti per individuare e comprendere le ragioni della decisione, come prescritto dall’art. 132 c.p.c., n. 4. I ricorrenti auspicano inammissibilmente che questa Corte fornisca una propria diversa interpretazione dell’estensione del riferimento fattuale alla porzione di tetto operato in domanda, rispetto a quello che la Corte d’Appello ha individuato e fatto oggetto di espressa pronuncia. IV.Il quinto motivo di ricorso numerato come III e allega l’omesso esame circa un fatto decisivo, ex art. 360 c.p.c., n. 5, avendo la Corte d’Appello valutato le costruzioni per cui è causa sulla base della descrizione contenuta nella CTU del 2009 e riportata nella CTU del 2012 eseguita in rinnovazione nel giudizio di appello , senza tener conto dello stato attuale. La conseguenza di tale erroneo riferimento si è riverberato sull’ordine di ripristino del fabbricato di proprietà dei ricorrenti nella condizione antecedente agli interventi del 3 aprile 2009, senza tener conto della ricostruzione eseguita nel 2010. IV.1. Il quinto motivo di ricorso è inammissibile. Questa censura è volta a dimostrare le incongruenze della sentenza impugnata rispetto alle emergenze istruttorie, in particolare per avere la Corte d’Appello aderito alle conclusioni contenute nella consulenza tecnica d’ufficio che dai ricorrenti si assumono erronee, perché non avrebbero tenuto conto dello stato dei luoghi esistente al momento della decisione. Ora, questa Corte ha chiarito come l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, riformulato dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, abbia introdotto nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia . Pertanto, l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie Cass. Sez. U, 07/04/2014, n. 8053 . Costituisce, allora, un fatto , agli effetti dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, non una questione o un punto , ma un vero e proprio fatto , in senso storico e normativo, un preciso accadimento ovvero una precisa circostanza naturalistica, un dato materiale, un episodio fenomenico rilevante Cass. Sez. 1, 04/04/2014, n. 7983 Cass. Sez. 1, 08/09/2016, n. 17761 Cass. Sez. 5, 13/12/2017, n. 29883 Cass. Sez. 5, 08/10/2014, n. 21152 Cass. Sez. U., 23/03/2015, n. 5745 Cass. Sez. 1, 05/03/2014, n. 5133 . È quindi inammissibile l’invocazione del vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5 per sostenere genericamente la mancata corrispondenza dell’elaborato peritale allo stato dei luoghi attuale al momento della decisione giudiziale. D’altro canto, nessun rilievo decisivo assumono le opere che C.S. e B.C. evidenziano di aver eseguito con l’intervento di ricostruzione del tetto, nel senso di aver modificato la sopraelevazione del colmo e delle falde del tetto, ove non sia precisato che tali modifiche avrebbero reso del tutto inutile la pronuncia giurisdizionale richiesta da L.C. , essendo accompagnate da un riconoscimento espresso o implicito della integrale fondatezza della domanda avversa arg. da Cass. Sez. 2, 22/03/2002, n. 4127 . V.Il sesto motivo del ricorso di C.S. e B.C. numerato come III f denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 905, 1102 e 1139 c.c., non operando nella fattispecie di causa l’art. 905 c.c., quanto l’art. 1102 c.c. in tema di uso di bene comune in ambito condominiale. Al riguardo, la Corte d’Appello di Torino ha affermato come gli immobili delle parti non dessero luogo ad un condominio edilizio, ma alla mera comunione di un cortile , sicché devono essere rispettate le norme in tema di distanze legali per l’apertura di vedute in particolare, l’art. 905 c.c. . I ricorrenti sostengono l’errore della Corte d’Appello, in quanto l’art. 1102 c.c. è applicabile al condominio, in forza dell’art. 1139 c.c., ed è comunque applicabile alla comunione. V.1.Il sesto motivo del ricorso di C.S. e B.C. è infondato. Deve dapprima precisarsi che l’indagine dei giudici del merito diretta a stabilire se la situazione obbiettiva dia luogo alla presenza di più unità immobiliari o più edifici aventi parti comuni, ai sensi dell’art. 1117 c.c. e dell’art. 1117 bis c.c. se, cioè, sussista la relazione di accessorietà strumentale e funzionale che collega le unità immobiliari di proprietà esclusiva a talune cose, impianti e servizi comuni, i quali siano contestualmente legati, attraverso la relazione di accessorio a principale, con più edifici o immobili, in modo che l’uso del bene comune non sia suscettibile di autonoma utilità, ma solo correlato al godimento del bene individuale si risolve in un apprezzamento di fatto, che esula dal sindacato di legittimità della Corte di cassazione quando sia sorretto da motivazione logica ed immune da errori di diritto. Va allora osservato come sia stato talvolta effettivamente affermato in giurisprudenza che, quando un cortile è comune a distinti corpi di fabbrica e manca una disciplina contrattuale vincolante per i comproprietari al riguardo, il relativo uso è assoggettato alle norme sulla comunione in generale, e in particolare alla disciplina di cui all’art. 1102 c.c., comma 1, in base al quale ciascun partecipante alla comunione può servirsi della cosa comune, sempre che non ne alteri la destinazione e non ne impedisca il pari uso agli altri comunisti. In tal senso, l’apertura di vedute su area di proprietà comune ed indivisa tra le parti costituirebbe opera sempre inidonea all’esercizio di un diritto di servitù di veduta, sia per il principio nemini res sua servir, che per la considerazione che i cortili comuni, assolvendo alla precipua finalità di dare aria e luce agli immobili circostanti, sono ben fruibili a tale scopo dai condomini, cui spetta, pertanto, anche la facoltà di praticare aperture che consentano di ricevere aria e luce dal cortile comune o di affacciarsi sullo stesso, senza incontrare le limitazioni prescritte, in tema di luci e vedute, a tutela dei proprietari dei fondi confinanti di proprietà esclusiva, con il solo limite, posto dall’art. 1102 c.c., di non alterare la destinazione del bene comune o di non impedirne l’uso da parte degli altri comproprietari Cass. Sez. 2, 14/06/2019, n. 16069 Cass. Sez. 2, 26/02/2007, n. 4386 Cass. Sez. 2, 19/10/2005, n. 20200 . È tuttavia corretta la diversa interpretazione, cui il Collegio intende dare continuità, secondo cui, ove sia accertata, come nel caso in esame, la comunione di un cortile sito fra edifici appartenenti a proprietari diversi ed allorché, come nella specie accertato in fatto, fra il cortile e le singole unità immobiliari di proprietà esclusiva non sussista quel collegamento strutturale, materiale o funzionale, ovvero quella relazione di accessorio a principale, che costituisce il fondamento della condominialità dell’area scoperta, ai sensi dell’art. 1117 c.c. , l’apertura di una veduta da una parete di proprietà individuale verso lo spazio comune rimane soggetta alle prescrizioni contenute nell’art. 905 c.c Il partecipante alla comunione del cortile non può, in sostanza, aprire una veduta verso la cosa comune a vantaggio dell’immobile di sua esclusiva proprietà, finendo altrimenti per imporre di fatto una servitù a carico della cosa comune, senza che operi, al riguardo, il principio di cui all’art. 1102 c.c., il quale non è applicabile ai rapporti tra proprietà individuali e beni comuni finitimi, che sono piuttosto disciplinati dalle norme che regolano i rapporti tra proprietà contigue od asservite Cass. Sez. 2, 04/07/2018, n. 17480 Cass. Sez. 2, 21/05/2008, n. 12989 Cass. Sez. 2, 20/06/2000, n. 8397 Cass. Sez. 2, 25/08/1994, n. 7511 Cass. Sez. 2, 28/05/1979, n. 3092 . Nè vi è ragione di invocare, al fine di escludere la configurabilità di una servitù di veduta sul cortile di proprietà comune, il principio nemini res sua servit , il quale, in realtà, trova applicazione soltanto quando un unico soggetto è titolare del fondo servente e di quello dominante, e non anche quando il proprietario di uno di essi sia anche comproprietario dell’altro, giacché in tal caso l’intersoggettività del rapporto è data dal concorso di altri titolari del bene comune Cass. Sez. 2, 03/10/2000, n. 13106 Cass. Sez. 2, 02/06/1999, n. 5390 Cass. Sez. 2, 18/02/1987, n. 1755 . VI. Conseguono il rigetto del ricorso e la regolazione secondo soccombenza delle spese del giudizio di cassazione in favore della controricorrente nell’ammontare liquidato in dispositivo. Sussistono le condizioni per dare atto - ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, che ha aggiunto il comma 1-quater all’art. 13 del testo unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 - dell’obbligo di versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione integralmente rigettata. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna in solido i ricorrenti a rimborsare alla controricorrente le spese sostenute nel giudizio di cassazione, che liquida in complessivi Euro 3,200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre a spese generali e ad accessori di legge. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.