No al riconoscimento della cittadinanza italiana se il matrimonio viene dichiarato nullo ab origine

Se il matrimonio contratto da un cittadino italiano e da una straniera – che dopo le nozze presenta istanza volta al riconoscimento della cittadinanza italiana - viene dichiarato nullo, ai sensi dell’art. 122, comma 3, n. 1, c.c., per fatti e comportamenti preesistenti al matrimonio, ignoti al marito ma imputabili e conosciuti dalla moglie, la mala fede di quest’ultima, consapevole dell’esistenza di una causa di invalidità, comporta che il matrimonio, rispetto alla richiedente, deve considerarsi nullo fin dalla sua origine. Manca quindi l’elemento indispensabile perché la cittadinanza richiesta possa essere riconosciuta.

Nel 2006 una cittadina russa contraeva matrimonio con un italiano . In virtù del vincolo coniugale, l’anno successivo la donna chiedeva il riconoscimento della cittadinanza italiana che veniva conseguita nell’aprile 2010. Tuttavia, in seguito alla declaratoria di nullità del matrimonio celebrato, pronunziata dal Tribunale di Milano nel febbraio 2010, il Ministero dell’Interno annullava il provvedimento di concessione della cittadinanza italiana alla signora, ritenendo che fosse stata riconosciuta in mancanza dei requisiti richiesti dall’art. 5, l. n. 91/92. La donna adiva il Tribunale di Venezia al fine di veder riconosciuta la propria condizione di cittadina italiana. Il giudice di prima istanza, con sentenza parziale, disapplicava il decreto ministeriale e accertava la cittadinanza italiana, ritenendo che, ai sensi del suddetto art. 5, fosse richiesta l’esistenza del vincolo matrimoniale nel momento in cui la cittadinanza è concessa, essendo invece irrilevante quello che accade in seguito. La decisione veniva impugnata da parte del Ministero dell’Interno dinanzi alla Corte di Appello di Venezia, la quale, nel 2018, prendendo atto dell’intervenuto passaggio in giudicato della sentenza dichiarativa della nullità del matrimonio, accoglieva il gravame rigettando la domanda di accertamento della cittadinanza. Avverso la sentenza la donna proponeva ricorso per Cassazione sulla base di tre motivi. Il Ministero dell’Interno resisteva in giudizio con controricorso. La ricorrente, in particolare, riteneva che la Corte territoriale avesse posto a fondamento della propria decisione la sentenza di nullità matrimoniale , senza però tenere conto della collocazione temporale della stessa rispetto al provvedimento concessorio della cittadinanza alla data della concessione ella era coniuge di un cittadino italiano, essendo la sentenza di nullità matrimoniale passata in giudicato in un momento successivo. Per la donna, inoltre, al momento della revoca della cittadinanza era già integralmente trascorso il termine biennale richiesto dalla legge per la conclusione del procedimento previsto dall’art. 8. L n. 91, nel testo vigente al momento della presentazione dell’istanza, e, pertanto, la cittadinanza doveva ritenersi ormai riconosciuta e non più revocabile. La Suprema Corte richiama alcuni principi e afferma come l’acquisto della cittadinanza per iuris communicatio non si produce come conseguenza automatica del matrimonio con un cittadino italiano, essendo necessario l’intervento espresso formalmente dall’amministrazione per verificare il concorso dei requisiti richiesti dalla legge che vanno non valutati ma semplicemente accertati. L’ autorità amministrativa ha spazi di valutazione discrezionale soltanto rispetto all’esistenza di comprovati motivi di sicurezza che ostino al riconoscimento della cittadinanza. Il decorso inutile del previsto periodo di tempo dalla presentazione dell’istanza non può produrre ipso iure l’acquisto della cittadinanza. Per i Supremi giudici dall’esame diretto della sentenza del Tribunale milanese emerge come il matrimonio fosse stato dichiarato nullo per fatti e comportamenti preesistenti allo stesso, sconosciuti al marito e imputabili alla signora la quale, dunque, era in mala fede, essendo consapevole dell’esistenza di una causa di invalidità. Pertanto, rispetto alla stessa, il matrimonio doveva considerarsi nullo fin dall’origine. La Prima Sezione civile della Corte di Cassazione , con la sentenza in oggetto, rigetta il ricorso , condannando la ricorrente al rimborso delle spese del giudizio di legittimità.

Corte di Cassazione, sez. I Civile, sentenza 14 ottobre – 11 novembre 2020, n. 25441 Presidente Cesare – Relatore Pazzi Fatti di causa 1. B.T. , cittadina russa, contraeva matrimonio con Z.M. , cittadino italiano, in data 2 settembre 2006 la donna domandava poi, in data 17 aprile 2007, il riconoscimento della cittadinanza italiana in ragione di tale vincolo di coniugio, ai sensi della L. 5 febbraio 1992, n. 91, art. 5, che conseguiva il 28 aprile 2010. A seguito della comunicazione da parte del Comune di Cernusco sul Naviglio, dove il rito era stato celebrato, dell’intervenuta declaratoria di nullità del matrimonio contratto fra la B. e lo Z. , pronunziata dal Tribunale di Milano con sentenza del 24 febbraio 2010, il Ministero dell’Interno, con decreto del 2 marzo 2011, disponeva l’annullamento del provvedimento di concessione della cittadina italiana a B.T. , ritenendo che la stessa fosse stata riconosciuta in mancanza dei requisiti richiesti dalla L. n. 91 del 1992, art. 5. 2. Il Tribunale di Venezia, adito dalla B. per veder riconoscere la propria condizione di cittadina italiana, con sentenza parziale del 7 giugno 2016 disapplicava il decreto ministeriale ed accertava la cittadinanza italiana di parte attrice. Il giudice di prima istanza osservava, a giustificazione della propria decisione, che L. n. 91 del 1992, art. 5, richiede che il matrimonio sia in essere nel momento in cui la cittadinanza è concessa, dovendosi perciò verificare rispetto a quel frangente se vi sia scioglimento, annullamento, cessazione degli effetti civili del matrimonio o sussista separazione legale, mentre non viene in rilievo quanto accade in seguito, anche relativamente al vincolo coniugale. 3. La Corte d’appello di Venezia, a seguito dell’impugnazione interposta dal Ministero dell’Interno, una volta preso atto dell’intervenuto passaggio in giudicato della sentenza dichiarativa della nullità del matrimonio fra la B. e lo Z. , riteneva invece che questa statuizione impedisse alla fattispecie di produrre effetti giuridici, indipendentemente dalla motivazione sottostante e, con sentenza pubblicata il 13 febbraio 2018, in accoglimento del gravame presentato rigettava la domanda di accertamento della cittadinanza italiana avanzata da B.T. . 4. Ricorre per cassazione avverso questa pronuncia B.T. al fine di far valere tre motivi di impugnazione. Resiste con controricorso il Ministero dell’Interno. La causa, inizialmente destinata alla trattazione in adunanza camerale, è stata rinviata a nuovo ruolo per il successivo esame in pubblica udienza, in ragione dei profili di novità e rilevanza nomofilattica che il ricorso presenta. Ragioni della decisione 5.1 Il primo motivo di ricorso denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 e 5, l’omesso esame di un fatto decisivo, costituito dal momento di passaggio in giudicato della sentenza di nullità di matrimonio la Corte d’appello - assume la ricorrente - avrebbe erroneamente posto a fondamento della sua decisione la sentenza di nullità del vincolo matrimoniale senza considerare la collocazione nel tempo della stessa rispetto al provvedimento di concessione della cittadinanza. Alla data di concessione della cittadinanza, risalente al 11 marzo 2010, la B. era coniuge di un cittadino italiano, dato che la sentenza di nullità del matrimonio era passata in giudicato soltanto il 1 luglio 2010. Di conseguenza - prosegue la ricorrente - la sentenza di nullità del matrimonio costituiva un fatto sopravvenuto all’acquisto della cittadinanza e come tale inidoneo a incidere sul diritto soggettivo già perfezionatosi in capo alla donna, entrato oramai a far parte del suo patrimonio inviolabile, che non poteva essere perduto o negato se non per i casi espressamente previsti dalla legge, nel cui novero non rientrava il sopravvenuto venir meno dello status di coniuge. 5.2 Il secondo motivo di ricorso lamenta, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, l’omesso esame del fatto che alla data di revoca della cittadinanza 2 marzo 2011 era già maturato il termine biennale per la conclusione del procedimento previsto dalla L. n. 91 del 1992, art. 8, nella formulazione vigente al momento della presentazione della domanda 17 aprile 2007 . Il provvedimento ministeriale di concessione della cittadinanza, di natura dichiarativa e non costitutiva, era quindi - a dire della ricorrente - un atto dovuto nel momento in cui il termine assegnato dalla legge per provvedervi risultava integralmente trascorso, di modo che la cittadinanza oramai riconosciuta, una volta superato tale lasso temporale, non poteva più essere revocata, anche ritenendo che la pronuncia di nullità potesse esplicare effetti ex tunc. 5.3 Il terzo motivo di ricorso censura, a mente dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la mancata valutazione della presunzione di buona fede in capo alla ricorrente, a cui aveva fatto seguito l’errata applicazione dell’art. 128 c.c. la Corte d’appello avrebbe totalmente ignorato che il matrimonio nullo produce effetti fino alla sentenza che pronunzia la nullità, a meno che lo stesso non sia stato contratto in mala fede di questa circostanza, tuttavia, il decreto ministeriale non faceva alcun cenno, dovendosi di conseguenza prendere atto che alla data di emissione del provvedimento di concessione della cittadinanza il matrimonio della B. era valido e la medesima era in possesso di tutti i requisiti per il conferimento della cittadinanza italiana. 6. I motivi, da esaminarsi congiuntamente in ragione del rapporto di connessione e parziale sovrapponibilità fra loro esistente, non sono fondati i primi due o risultano inammissibili il terzo . 6.1 Questa Corte cfr. Cass., Sez. U., 7441/1993, Cass., Sez. U., 1000/1995 - pur riferendosi alla L. 21 aprile 1983, n. 123, ma esprimendo principi applicabili anche alla fattispecie in esame, governata dalla successiva L. 5 febbraio 1992, n. 91, nel testo vigente al momento della presentazione dell’istanza dell’interessata, di contenuto sostanzialmente coincidente -, nel registrare l’intervenuta modifica del previgente principio della iuris communicatio nella trasmissione della cittadinanza da parte di un coniuge all’altro coniuge, ha fissato una serie di principi di cui è opportuno fare memoria - l’acquisto della cittadinanza juris communicatione, in base a tale disciplina, non si produce quale automatica conseguenza del matrimonio accompagnato dalla presenza dei requisiti richiesti dalla legge, poiché è necessario l’intervento formalmente espresso dall’amministrazione per verificare il concorso di tali requisiti, che devono essere non valutati, ma semplicemente accertati - l’autorità amministrativa ha spazi di valutazione discrezionale soltanto rispetto alla sussistenza di comprovati motivi di sicurezza che ostino al riconoscimento della cittadinanza - poiché il decreto ministeriale di diniego della cittadinanza è previsto per le sole cause ostative e non pure per l’insussistenza dei requisiti positivi richiesti, le norme in forza delle quali l’emanazione del decreto di rigetto è preclusa quando sia trascorso un determinato termine dalla presentazione dell’istanza L. n. 91 del 1992, art. 8, comma 2, ora abrogato e di tenore corrispondente al precedente L. n. 123 del 1983, art. 4, comma 2 non riguardano il decreto di accoglimento, di modo che la Pubblica Amministrazione può sempre verificare la mancanza dei requisiti previsti - in questi casi il provvedimento amministrativo, pronunciabile anche ove sia decorso il termine sopra indicato, si limita alla constatazione della mancanza di uno o più elementi costitutivi della fattispecie ipotizzata dalla norma, in difetto del cui completamento neppure può dirsi effettivamente sorto l’obbligo dell’autorità di pronunciarsi entro il termine previsto - l’esercizio del potere discrezionale correlato all’esistenza di comprovati motivi inerenti alla sicurezza dello Stato risulta precluso per effetto dell’inutile decorso del tempo previsto, pur non potendosi discorrere di silenzio-assenso, che sussiste soltanto allorché la legge attribuisca all’inerzia dell’autorità il valore legale tipico di un atto amministrativo, sostituendo alla necessità della formale espressione della volontà della P.A. il silenzio tipizzato dalla norma, principio a cui non si ispira la disciplina in parola va perciò escluso che il decorso inutile del previsto periodo di tempo dalla presentazione dell’istanza possa produrre ipso iure l’acquisto della cittadinanza. 6.2 I provvedimento impugnato riconosce l’intervenuto passaggio in giudicato della sentenza dichiarativa della nullità del matrimonio contratto dalla B. con lo Z. . La portata di tale decisione rileva anche nella fattispecie in esame, in applicazione del principio di validità erga omnes del giudicato nascente dalle decisioni sugli status. In presenza di questo giudicato il giudice di legittimità può direttamente accertarne l’esistenza e la portata, anche attraverso il riesame degli atti del processo e la valutazione ed interpretazione degli atti processuali così, ex plurimis, Cass. 10383/2017, Cass. 21200/2009, Cass., Sez. U., 24664/2007 . L’esame diretto della sentenza del Tribunale di Milano, presente in atti, consente di rilevare che il matrimonio fu dichiarato nullo, ai sensi dell’art. 122 c.c., comma 3, n. 1, per fatti e comportamenti preesistenti al matrimonio, ignoti al marito ma imputabili - e dunque conosciuti - dalla B. . La mala fede di quest’ultima, consapevole dell’esistenza di una causa di invalidità, faceva sì che non operasse la deroga alla regola generale della retroattività della pronuncia di nullità prevista dall’art. 128 c.c., per il caso di matrimonio putativo, dovendosi dunque ritenere che rispetto all’odierna ricorrente il matrimonio dovesse considerarsi nullo fin dalla sua origine. 6.3 Il provvedimento di riconoscimento della cittadinanza juris communicatione presuppone la verifica di una serie di condizioni che devono essere accertate al momento della sua adozione, come precisa l’attuale testo della norma. Al medesimo momento occorre avere riguardo nel caso in cui la Pubblica Amministrazione proceda all’annullamento in autotutela a causa della mancanza dei requisiti per il riconoscimento della cittadinanza. Rispetto a quel frangente non erra la Corte distrettuale laddove riconosce che il vincolo matrimoniale non esisteva, pur dovendosi aggiungere - a correzione della sentenza impugnata ex art. 384 c.p.c., comma 4, - che ciò era determinato dal particolare contenuto e dai conseguenti effetti ex tunc della decisione, passata in giudicato, assunta sul vincolo coniugale. Mancava così l’elemento indispensabile - costituito dal vincolo matrimoniale con il cittadino italiano - perché la cittadinanza richiesta potesse essere riconosciuta, evenienza che ne imponeva la revoca. Risulta così infondato il primo motivo di ricorso. 6.4 I principi fissati dalla giurisprudenza di questa Corte, in precedenza richiamati, portano a escludere che il decorso del termine previsto dalla L. n. 91 del 1992, art. 8, comma 2, nel testo applicabile ratione temporis, facesse sì che il provvedimento ministeriale di concessione della cittadinanza fosse un atto dovuto e perciò non annullabile. Il maturare del termine aveva certo fatto venire meno il potere discrezionale della Pubblica Amministrazione di rilevare l’esistenza di comprovati motivi inerenti alla sicurezza dello Stato e ostativi alla concessione della cittadinanza, ma persisteva, inalterato, il potere di verifica della mancanza dei requisiti previsti per il riconoscimento della cittadinanza. Allo stesso modo rimaneva immutata la possibilità per la Pubblica Amministrazione di procedere all’annullamento d’ufficio – in autotutela, L. n. 241 del 1990, ex art. 21-nonies, - del decreto che riconosceva la cittadinanza una volta constatata, in epoca successiva, la mancanza dei requisiti originari per l’emissione del provvedimento. Ne discende l’infondatezza del secondo motivo di ricorso. 6.5 Rispetto alla mancata indicazione, all’interno del provvedimento di revoca, della mala fede della B. e dell’inoperatività della disciplina prevista dall’art. 128 c.c. è sufficiente rilevare che la critica manca di autosufficienza. Il ricorrente infatti non ha trascritto il contenuto del documento asseritamente trascurato rispetto alla parte oggetto di doglianza, nè ha fatto un sintetico ma completo resoconto del suo contenuto, così come non ha spiegato dove questo documento ora si rinvelirebbe il che si traduce in una violazione del disposto dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, con la conseguente inammissibilità della censura presentata in merito all’autosufficienza del ricorso ex art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, in caso di riferimento a documenti o atti processuali, i quali devono non solo essere specificamente individuati anche quanto alla loro collocazione, ma essere oggetto pure di integrale trascrizione quanto alle parti che sono investite dalla doglianza ovvero di sintetico ma completo resoconto del contenuto, si vedano Cass. 16900/2015, Cass. 4980/2014, Cass. 5478/2018, Cass. 14784/2015 e Cass. 8569/2013 . Il che esime dal rilevare che il controllo sulla legittimità degli atti amministrativi, devoluto al giudice ordinario sia pure al solo fine della loro disapplicazione, è consentito per accertare non solo se la P.A. da cui l’atto promana avesse in astratto il potere di emetterlo, ma anche se ricorressero i presupposti di legge per la sua emissione, nonché per accertare l’osservanza della legge durante lo svolgimento del procedimento amministrativo, estendendosi così sia alla forma, sia al contenuto del provvedimento Cass. 6391/1986 . La Corte di merito era dunque tenuta alla verifica della legittimità dell’atto, senza rimanere vincolata dall’incompleta esposizione al suo interno dei presupposti dell’iniziativa di autotutela assunta, non essendo annullabile L. n. 241 del 1990, ex art. 21-octies, - e dunque neppure disapplicabile - un provvedimento che, pur presentando vizi di forma, per la sua natura vincolata non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato nel suo contenuto. Va perciò rilevata l’inammissibilità del terzo motivo di ricorso. 7. In conclusione, in forza delle ragioni sopra illustrate, il ricorso deve essere rigettato. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al rimborso delle spese del giudizio di cassazione, che liquida in Euro 6.200, oltre a spese prenotate a debito. Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, ove dovuto.