Usucapione di parte di comunione ereditaria: i coeredi non sono detentori dei beni ereditari

Se ci sono più eredi, questi non sono detentori dei beni ereditari, in quanto non è ravvisabile un rapporto di natura obbligatoria con i beni della comunione ereditaria e deve essere dimostrata l’avvenuta esclusione degli altri eredi dal compossesso.

Questo è il principio stabilito dalla seconda sezione della Suprema Corte, con la sentenza n. 22444, emessa nella camera di consiglio del 21 febbraio 2019 e depositata il successivo 9 settembre, in un ricorso risalente al 2015, per la cassazione di una sentenza della Corte d’Appello di Napoli del 2014, in una vicenda iniziata addirittura nel 1946 anche se il primo grado è del 2010 . Il caso. I ricorrenti, eredi di un uomo deceduto nel lontano 1946, introducevano il giudizio di primo grado nei confronti degli altri coeredi, chiedendo lo scioglimento della comunione ereditaria. I convenuti, a loro volta, presentavano domanda riconvenzionale in cui chiedevano che il Tribunale dichiarasse l’avvenuta usucapione su un importante complesso di beni facenti parte dell’eredità, poiché il loro de cuius a sua volta erede dell’originario avrebbe maturato tutti i presupposti della suddetta, ipotizzata, usucapione. Il Tribunale di Napoli rigettava la domanda di usucapione, ritenendo che non vi fosse prova di un atto di interversione del possesso da parte del suddetto erede poi diventato de cuius il quale, con atto del 26 settembre 1998, aveva chiesto un contributo per la ristrutturazione del complesso id immobili, oggetto della domanda riconvenzionale, anche a nome degli altri comproprietari. In questo modo, secondo il Tribunale, ne avrebbe riconosciuto implicitamente la comproprietà, escludendo il verificarsi di uno dei presupposti principali dell’usucapione, e cioè l’interversione del possesso. Gli eredi che avevano proposto la domanda di usucapione proponevano quindi appello, cui resistevano le controparti. L’appello veniva rigettato dalla Corte di Appello di Napoli con sentenza del 1° luglio 2014, che escludeva che il dante causa degli appellanti avesse avuto il possesso esclusivo dei beni oggetto della domanda di usucapione. Secondo la sentenza, era emerso dall’istruttoria che, nel 194, al momento dell’apertura della successione, egli occupava l’immobile unitamente alla madre con il suo consenso e quello degli altri coeredi, così come avvenne dopo il suo matrimonio. Dalla documentazione depositata emergeva poi che egli aveva gestito non solo la proprietà immobiliare oggetto della domanda di usucapione, ma anche numerosi altri immobili in Napoli, per conto degli altri fratelli, nonché ulteriori elementi probatori dell’assenza di possesso esclusivo, come la richiesta di contributo per la ristrutturazione dell’immobile, presentata anche a nome degli altri eredi. La Corte d’Appello, inoltre, esaminava il progetto di divisione di comunione ereditaria, in cui era inserito il complesso di beni di cui è causa, ravvisando in tale atto una rinuncia, pur tacita, all’usucapione. Gli allora appellanti hanno impugnato la sentenza della Corte d’Appello di Napoli con ben otto motivi, tra cui la violazione e falsa applicazione degli articoli 714, 1102, 1140 c.c. in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c., per avere la Corte territoriale errato nel qualificare i coeredi come compossessori, sostenendo che fossero detentori dei beni ereditari e che, solo in caso di godimento separato di parte dei beni ereditari, sarebbe stato necessario un atto di interversione del possesso. Le altre parti hanno resistito con distinti controricorsi, chiedendo il rigetto del ricorso principale. I coeredi sono compossessori e non semplici detentori dei beni ereditari, e quindi perché si verifichi l’usucapione di uno o più di essi, il richiedente deve dimostrare l’avvenuta prova del possesso ad excludendum degli altri eredi. La Cassazione ha statuito che diversamente da quanto assunto nel ricorso, i coeredi non sono detentori dei beni ereditari, non essendo ravvisabile un rapporto di natura obbligatoria con i beni della comunione ereditaria. Di conseguenza, non serve la prova di un atto di interversione del possesso, ai fini dell’usucapione di beni ereditari, ma la prova del possesso ad excludendum, cioè la situazione in cui il rapporto materiale dei beni abbia totalmente escluso gli altri eredi dalla possibilità di goderne. Nel caso in esame, non è determinante il fatto che l’erede abbia amministrato il bene, mentre non si può dare per accertata la prova del possesso esclusivo, viste le risultanze dell’istruttoria. La Suprema Corte ha quindi respinto il ricorso, condannando i ricorrenti al rimborso delle spese legali in favore di ciascun gruppo di controricorrenti, nonché al versamento di ulteriore somma pari al contributo unificato.

Corte di Cassazione, sez. II Civile, sentenza 21 febbraio – 9 settembre 2019, n. 22444 Presidente Petitti – Relatore Giannaccari Fatti di causa Il giudizio trae origine dalla domanda di scioglimento della comunione del compendio ereditario di M.A. , che era deceduto il omissis , lasciando come eredi la moglie Me.Vi. ed i figli Gi. , I. , G. , M.A.V. ed An. . Il giudiziO veniva introdotto da B.G. , M.T. ed A. , quali eredi di M.I. , e, per quel che ancora rileva nel presente giudizio, i convenuti V.A.M. , M.A. e M.V. , eredi di Mo.Gi. , chiedevano accertarsi in via riconvenzionale l’usucapione da parte del loro dante causa di un immobile sito in omissis . Il Tribunale di Napoli, con sentenza non definitiva n. 6375/2010, rigettava la domanda di usucapione, ritenendo che non vi fosse prova di un atto di interversione del possesso da parte del coerede Mo.Gi. , il quale, con atto del 26.9.1988, aveva chiesto un contributo per la ristrutturazione dell’immobile in omissis , oggetto della domanda riconvenzionale, anche a nome degli altri comproprietari, in tal modo riconoscendo l’altrui comproprietà. Proponevano appello V.A.M. , M.A. e M.V. , eredi di Mo.Gi. , cui resistevano le controparti. La Corte d’Appello di Napoli, con sentenza dell’1.7.2014, respingeva il gravame. La corte territoriale escludeva che Mo.Gi. avesse avuto il possesso esclusivo dell’abitazione in omissis . Era emerso dall’istruttoria che nel 1946, al momento dell’apertura della successione, egli occupava l’immobile unitamente alla madre e anche quando dopo il suo matrimonio,, nel 1967, lo aveva abitato con la sua famiglia, vi era stato il consenso degli altri coeredi. Era emerso dalla documentazione prodotta in giudizio che il M. aveva gestito non solo la proprietà immobiliare in omissis , oggetto della domanda riconvenzionale di usucapione, ma anche numerosi immobili siti in , per conto degli altri fratelli. Ulteriori elementi probatori, indice dell’assenza di un possesso esclusivo, erano costituiti, secondo il giudice d’appello, dalla richiesta di contributo del 29.6.1998 per la ristrutturazione dell’immobile, che egli aveva sottoscritto anche a nome degli altri coeredi, dalla circostanza che questi coeredi avessero pagato le imposte ed indicato in comproprietà l’immobile in omissis nella dichiarazione di successione. La corte territoriale, pur ritenendo superfluo l’esame del motivo d’appello riguardante la scrittura del luglio 2005, con la quale il complesso di omissis veniva ricompreso nel progetto di divisione della comunione ereditaria, lo esaminava e ravvisava in tale atto una rinuncia tacita all’usucapione. Per la cassazione della sentenza d’appello, hanno proposto ricorso V.A.M. , M.A. e M.V. sulla base di sette motivi, indicati dal numero due al numero otto. Hanno resistito, con distinti controricorsi, B.M.T. , L. ed A. da una parte e M.M.A. , An. e G. , S.A. , E. , La. , L. e F. dall’altra. Il Pubblico Ministero nella persona del Dott. Carmelo Sgroi ha chiesto il rigetto del ricorso. In prossimità dell’udienza, le parti hanno depositato memorie illustrative. Ragioni della decisione Con il secondo motivo di ricorso - che introduce il ricorso per cassazione - si deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 714, 1102, 1140 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, per avere la corte territoriale errato nel qualificare i coeredi come compossessori, sostenendo che fossero detentori dei beni ereditari e che, solo in caso di godimento separato di parte dei beni ereditari, sarebbe necessario un atto di interversione del possesso. Con il terzo motivo di ricorso si deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, oggetto di discussione tra le parti, consistente in fatti e documenti, da cui risulterebbe che il M. non avesse avuto alcun mandato da parte dei coeredi per eseguire opere di ordinaria e straordinaria manutenzione, per richiedere autorizzazioni amministrative e per godere in modo-esclusivo dei relativi frutti. I motivi, da esaminare congiuntamente, sono infondati. Diversamente da quanto assume il ricorrente, i coeredi non sono detentori dei beni ereditari, in quanto non è ravvisabile un rapporto di natura obbligatoria con i beni della comunione ereditaria, sicché non è necessaria la prova di un atto di interversione del possesso ai fini dell’usucapione di beni ereditari, ma la prova del possesso ad excludendum, vale a dire una situazione nella quale il rapporto materiale del coerede con i beni ereditari sia tale da escludere gli altri coeredi dalla possibilità di analogo rapporto. A tale riguardo, non è univocamente significativo che egli abbia utilizzato ed amministrato il bene ereditario, e che i coeredi si siano astenuti da analoghe attività, sussistendo la presunzione iuris tantum che abbia agito nella qualità e operato nell’interesse anche degli altri coeredi Cassazione civile sez. II, 16/01/2019, n. 966 Cass. 04/05/2018, n. 10734 Cass. 25/03/2009, n. 7221 . La corte territoriale ha correttamente ritenuto che i coeredi fossero compossessori e non detentori del bene ereditario e che Mo.Gi. non avesse dato la prova del suo possesso esclusivo. Nè è sussistente il vizio di omessa motivazione, sindacabile in sede di giudizio di legittimità nei limiti consentiti dal novellato art. 360 c.p.c., n. 5, avendo la corte esaminato, con giudizio di fatto insindacabile in questa sede, gli elementi istruttori in base ai quali il M. non aveva provato il possesso esclusivo del bene ereditario Cass. Sez. Un., sent. 7 aprile 2014, n. 8053 . Con accertamento di fatto insindacabile in sede di legittimità, il giudice d’appello ha accertato che nel 1946, al momento dell’apertura della successione, Mo.Gi. abitava l’immobile di OMISSIS unitamente alla madre, che era titolare di usufrutto sui beni ereditari anche quando, dopo il suo matrimonio, aveva ivi vissuto con la sua famiglia, vi era stato il consenso degli altri eredi. Ulteriore conferma del compossesso veniva ravvisata dalla gestione dei beni ereditari per conto degli altri fratelli, e, in particolare, nella richiesta di contributo per la ristrutturazione dell’immobile, anche per conto dei coeredi, nonché nell’indicazione della loro qualità di comproprietari contenuta nella sua denuncia di successione, in tal modo dimostrando di utilizzare ed amministrare il bene comune nell’interesse di altri, con il loro consenso tacito Cass. 7075/99 . Il godimento dei beni ereditari non era, quindi, avvenuto uti dominus, ma con il consenso degli altri coeredi, che avevano delegato al M. la gestione e l’amministrazione dei numerosi beni ereditari, costituiti da circa 53 immobili, ubicati non solo a omissis , ma anche a . Con il quarto motivo di ricorso, si deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 244 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, per avere la corte territoriale rigettato la richiesta di prova testimoniale, volta dimostrare che negli anni 80 Mo.Gi. non avrebbe permesso alla sorella l’utilizzo del complesso di omissis per la celebrazione del matrimonio della figlia e per depositare alcuni mobili. La corte territoriale non aveva, inoltre, ammesso i capitoli di prova riguardanti la circostanza che il M. avrebbe eseguito opere straordinarie sull’immobile ed avrebbe curato un lungo contenzioso amministrativo riguardante l’immobile in questione, circostanze che confermerebbero il riconoscimento da parte degli altri coeredi della sua esclusiva proprietà del complesso di omissis . Con il quinto motivo di ricorso, si deduce l’omesso esame di una serie di documenti, che dimostrerebbero il possesso esclusivo dell’immobile in omissis , come l’esecuzione di opere di ordinaria e straordinaria amministrazione, l’ottenimento di autorizzazioni amministrative e l’acquisto dei frutti. Con il sesto motivo di ricorso, si deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 1158, 1164 e 2944 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, per avere attribuito al documento del 29.6.1988, con il quale Mo.Gi. chiedeva la concessione di un contributo a nome degli altri coeredi, valore di riconoscimento del diritto altrui. I motivi, da esaminare congiuntamente, non sono fondati. I numerosi documenti, richiamati genericamente da pag. 27 a pag. 31 del ricorso, non sono decisivi per dimostrare il possesso ad excludendum degli altri coeredi, ma unicamente l’utilizzo e la gestione dei beni ereditari, che implicava la richiesta di autorizzazioni amministrative, la realizzazione di opere, la stipulazione di contratti di locazione ed il pagamento di sanzioni amministrative. Anche i capitoli dedotti con la prova testimoniale, con l’quali si intendeva provare che il M. si era sempre ritenuto proprietario dell’immobile in omissis e che tale era stato considerato dai coeredi, sono stati correttamente ritenuti inammissibili dalla corte territoriale, perché diretti a provare la gestione dei beni ereditari da parte del M. , irrilevanti ai fini della prova del possesso esclusivo, sia perché implicanti manifestazione di giudizi non consentiti ai testimoni, ai sensi dell’art. 244 c.p.c Anche le richieste di prova formulate nei capitoli 19 e 20, trascritte in ricorso, volte a dimostrare che negli anni 80 Mo.Gi. non avrebbe permesso alla sorella l’utilizzo del complesso di OMISSIS , per la celebrazione del matrimonio della figlia e per depositare alcuni mobili, sono generiche, non solo perché non individuano la data in cui i fatti sarebbero avvenuti, ma anche perché prive di decisività alla stregua della valutazione, da parte del giudice di merito, di altri elementi istruttori che escludevano il possesso esclusivo del bene da parte del M. . La corte ha ritenuto che vi fosse un espresso riconoscimento dell’altrui diritto, attraverso l’interpretazione della richiesta del 29.6.1998, avanzata dal M. , del contributo per la ristrutturazione dell’immobile sito in omissis , da cui evinceva la sua volontà di agire anche per conto dei coeredi, oltre che da altri dati esterni, quali il pagamento delle imposte da parte dei coeredi. Le doglianze del ricorrente censurano l’interpretazione plausibile attribuita dalla corte all’atto del 29.6.1998, senza alcuna deduzione della violazione dei canoni ermeneutici violati. - Con il settimo motivo di ricorso, si. deduce la violaziOne e falsa applicazione degli artt. 1362, 1165 e 2937 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, per aver la corte territoriale erroneamente ravvisato un atto di rinuncia all’usucapione nel progetto di divisione dei beni ereditari del 9.7.2005, che comprendeva il complesso di OMISSIS , sostenendo che tale atto era volto unicamente a comporre in via bonaria la controversia. Con l’ottavo motivo di ricorso, si deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 167 e 183 c.p.c., artt. 1165, 1362, 2937 e 2967 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3 la corte territoriale avrebbe erroneamente ritenuto che fosse tardiva la contestazione, avanzata in grado d’appello, da parte di V.A.M. e M.V. , relativa al potere di rappresentanza del fratello M.A. nella redazione dell’atto del 9.7.2005, mentre, trattandosi di mere difese, non sussisterebbe alcuna preclusione. I motivi, da esaminare congiuntamente per la loro connessione, sono inammissibili per carenza di interesse. Si tratta, infatti, di motivazione ad abundantiam , ovvero di un obiter dicta , in quanto la corte territoriale, pur ritenendo superfluo l’esame del motivo d’appello relativo all’interpretazione della scrittura privata del luglio 2005, lo ha esaminato, ritenendo che l’inclusione del complesso di OMISSIS nel progetto di divisione della comunione ereditaria, integrasse una rinuncia tacita all’usucapione Cassazione civile sez. lav., 22/10/2014, n. 22380, Cass., civ., sez. lav., 22 novembre 2010 n. 23635, Cass. civ., sez. III, 5 giugno 2007 n. 13068 . Il ricorso va pertanto rigettato Le spese seguono la soccombenza e vanno liquidate in dispositivo. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, va dato atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti alle spese del presente giudizio che liquida in Euro 5200,00 in favore di ciascun gruppo di controricorrenti, di cui Euro 200,00 per spese ed Euro 5000,00 per compensi, oltre spese forfettarie, Iva e Cpa come per legge. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.