L’esecutore testamentario deve sempre rendere il conto della sua gestione al momento della cessazione della carica

Anche nel caso in cui l’esecutore testamentario cessi dalla carica, pur nel caso che la gestione cessi prima del decorso di un anno dalla morte del testatore, è tenuto a rendere conto della propria gestione.

Trattasi del principio di diritto stabilito dalla Seconda Sezione della Corte di Cassazione nella sentenza n. 10594/19, emessa nella Camera di consiglio del 27 febbraio 2019 e depositata il successivo 16 aprile. Il ricorso era riferito ad una questione relativa all’eredità devoluta dai genitori in favore dei figli, in cui era stato designato un esecutore testamentario. Questi veniva citato in giudizio dai due fratelli nel lontano anno 2002. Il caso. La vicenda nasce dalla citazione dell’esecutore testamentario da parte dei due originari attori, i quali chiedevano che gli fosse ordinato di rendere il conto della propria gestione, con la contestuale richiesta di condanna alla corresponsione dei frutti civili percepiti, nonché al risarcimento dei danni eventualmente cagionati. Il convenuto resisteva in giudizio, eccependo innanzitutto il proprio difetto di legittimazione passiva, dato che aveva già rinunciato all’incarico, e sostenendo di non aver mai svolto attività di gestione. Il Tribunale, con sentenza dell’aprile del 2005, rigettava tutte le domande attrici. Contro tale sentenza, proponevano appello i due fratelli, soccombenti in primo grado. La Corte d’Appello di Palermo, con sentenza del 30 aprile 2014, in totale riforma della sentenza di primo grado e in accoglimento dell’appello, condannava l’esecutore testamentario al pagamento della somma di € 6.075,11 oltre interessi legali, nonché alle spese legali per entrambi i gradi di giudizio. La Corte d’Appello motivava la sua decisione rilevando che erroneamente non era stato ordinato all’esecutore di rendere il conto della gestione, e che era altrettanto erronea la conclusione del Tribunale secondo cui i documenti in atti, depositati dall’originario convenuto, dimostrassero l’infondatezza della pretesa attrice, poiché solo una volta presentato il conto della gestione, sarebbe stato possibile contestare la correttezza dell’attività dell’esecutore testamentario. Disattesa quindi questa eccezione, sulla base della CTU svolta in grado di appello relativamente ai canoni percepiti per alcune unità immobiliari di proprietà della madre degli appellanti condannava l’esecutore testamentario al pagamento in favore delle attrici dell’ammontare pari ai due terzi dei frutti prodotti dai beni in esame, oltre interessi legali dalla data di scadenza dei canoni al soddisfo, nonché le spese del doppio grado di giudizio, dato che la lite era scaturita dall’inottemperanza dell’appellato all’obbligo di presentare i dovuti rendiconti. Di conseguenza, l’esecutore testamentario ricorreva presso la Suprema Corte, con quattro motivi, onde chiedere la cassazione della sentenza emessa dalla Corte d’appello di Palermo. Quello che più qui interessa è il secondo, relativo alla violazione e falsa applicazione dell’art. 709 c.c., per avere la Corte d’appello di Palermo ordinato al ricorrente di presentare il conto della gestione. Anche se l’esecutore testamentario è cessato dalla carica, e anche nel caso che la gestione cessi prima del decorso di un anno dalla morte del testatore, è tenuto a rendere conto della propria gestione. Sosteneva il ricorrente che secondo l’art. 709 c.c., l’esecutore testamentario sarebbe tenuto alla presentazione del rendiconto della gestione anche trascorso un ano dalla morte del testatore, se la gestione si prolunga oltre tale periodo poiché il ricorrente si era dimesso dopo pochi mesi dalla carica per quanto riguarda il padre degli originari attori, mentre non ne aveva svolta per quel che riguardava la madre, secondo questa ricostruzione non sarebbe stato tenuto a rendere il conto. La Suprema Corte ha rigettato il ricorso, considerando i relativi motivi in parte inammissibili e in parte infondati. Infatti, secondo la sentenza in commento, la Corte d’Appello ha adeguatamente considerato e motivato, in quanto l’interpretazione che il ricorrente offre della norma è smentito già dallo stesso testo di legge, il quale prevede che il rendiconto, dal cui obbligo nemmeno il testatore può esonerare l’esecutore, debba essere reso al termine della gestione, e comunque in ogni caso alla scadenza dell’anno della morte del de cuius , ove la gestione continui. Secondo la Suprema Corte, resta fermo l’obbligo della resa del conto al termine della gestione, e quindi anche prima dell’anno della morte del de cuius , ove l’attività dell’esecutore si esaurisca prima Cass. 2455/1984 , dato che a norma dell’art. 709 c.c., l’esecutore testamentario è tenuto al rendiconto, quando la gestione si protrae oltre l’anno dalla morte del testatore, indipendentemente dal compimento dell’anno di effettiva gestione. Di conseguenza, la Suprema Corte, nel rigettare il ricorso, ha emesso il seguente principio di diritto Ai sensi dell’art. 709 c.c., l’esecutore testamentario è tenuto a rendere il conto della propria gestione ogni volta che quest’ultima cessi, ed anche laddove ciò si verifichi prima del decorso di un anno dalla morte del testatore .

Corte di Cassazione, sez. II Civile, ordinanza 27 febbraio – 16 aprile 2019, n. 10594 Presidente Lombardo – Relatore Criscuolo Ragioni in fatto ed in diritto 1. Con atto di citazione del 26 aprile 2002, D.M. e D.O. convenivano in giudizio C.A. , deducendo che il convenuto era stato designato quale esecutore testamentario dai genitori D.C. e D.C.M.A. , deceduti rispettivamente in data omissis e omissis , e che pertanto gli andava ordinato di rendere il conto della propria gestione, con la condanna alla corresponsione dei frutti civili percetti nonché al risarcimento dei danni eventualmente cagionati. Nella resistenza del convenuto, il quale eccepiva il proprio difetto di legittimazione passiva, avendo nelle more già rinunciato all’incarico di esecutore testamentario, senza che però in precedenza avesse mai svolto attività di gestione, il Tribunale di Palermo con sentenza del 5 aprile 2005 rigettava la domanda attorea. Avverso tale sentenza proponevano appello le originarie parti attrici e la Corte d’Appello di Palermo con la sentenza n. 713 del 30 aprile 2014, in riforma della decisione gravata, condannava il C. al pagamento della somma di Euro 6.075,11, oltre interessi legali, nonché delle spese del doppio grado. Rilevava che erroneamente non era stato ordinato al convenuto di rendere il conto di gestione, e che era altrettanto erronea la conclusione del Tribunale secondo cui i documenti versati in atti dal convenuto dimostrassero l’infondatezza della pretesa attorea, in quanto solo una volta offerto il conto, sarebbe stato possibile contestare la correttezza dell’attività dell’esecutore testamentario. Quindi disattesa l’eccezione di estinzione del giudizio, interrottosi in appello per il decesso del difensore dell’appellato, dovendosi escludere che la riassunzione del processo fosse avvenuta tardivamente, oltre il termine semestrale di legge, la sentenza escludeva altresì che fosse fondata l’eccezione di difetto di legittimazione passiva dell’appellato, per essere stato convenuto in giudizio nella qualità di esecutore testamentario, che ormai aveva perso, e non anche in proprio. Quindi passava ad esaminare le risultanze della CTU esperita in grado di appello, ed osservava che mentre per la successione di D.C. doveva escludersi, anche per la natura dei beni caduti in successione, che l’esecutore fosse tenuto a versare delle somme alle attrici, diversa conclusione doveva essere raggiunta quanto alla successione della D.C. . Infatti, tra i beni relitti vi erano anche alcune unità immobiliari già concesse in locazione, e precisamente degli appartamenti siti in omissis , per i quali, sebbene fossero dovuti dai conduttori i canoni di locazione, non risultavano rendicontati i relativi importi che l’esecutore avrebbe dovuto incassare. Analoga conclusione andava accolta per quanto riguardava l’immobile in omissis e per i terreni agricoli in Monreale, con la conseguenza che il C. andava condannato al pagamento in favore delle attrici dell’ammontare pari ai due terzi dei frutti prodotti dai beni in esame, oltre interessi legali dalla data di scadenza dei canoni al soddisfo. Infine, condannava l’appellato anche al pagamento delle spese del doppio grado, atteso che la lite era scaturita dall’inottemperanza del C. all’obbligo di presentare i dovuti rendiconti. Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso C.A. sulla base di quattro motivi. Le intimate hanno resistito con controricorso. 2. Con il primo motivo di ricorso si denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 305 c.p.c., per avere la sentenza gravata disatteso l’eccezione di estinzione del giudizio di appello, stante la mancata tempestiva riassunzione a seguito di interruzione. Assume la parte che in realtà le appellanti avevano avuto conoscenza, da reputarsi legale, dell’evento interruttivo, costituito dalla morte del difensore del ricorrente, già in data 24/4/2009, allorquando al difensore delle stesse appellanti era stato comunicato con raccomandata AR che sulle somme dovute a titolo di spese legali, per effetto della provvisoria esecutorietà della sentenza di primo grado, non erano dovuti gli accessori fiscali, in quanto le eredi del difensore deceduto non erano titolari di alcuna posizione fiscale e previdenziale. A tale missiva aveva poi risposto il difensore delle stesse D. , prendendo atto del suo contenuto, e dimostrando in tal modo di avere avuto piena contezza dell’evento interruttivo. Ne deriva quindi che deve reputarsi essere intervenuta una conoscenza legale dell’evento de quo, secondo quanto richiesto dalla giurisprudenza formatasi sull’art. 305 c.p.c., dopo gli interventi della Corte Costituzionale, in epoca di gran lunga anteriore al semestre anteriore alla riassunzione, che essendo quindi intempestiva non ha impedito l’avvenuta estinzione del giudizio di appello. Il motivo è inammissibile ex art. 360 bis n. 1 c.p.c I giudici di appello sul punto hanno rilevato che l’art. 305 c.p.c., per effetto della sentenza n. 139/1967 della Corte Costituzionale e della successiva sentenza n. 159 del 1971 della stessa Consulta, deve essere interpretato nel senso che il termine semestrale ratione temporis per la riassunzione decorre solo nel caso in cui la parte interessata alla riassunzione abbia avuto conoscenza legale dell’evento, e cioè attraverso una dichiarazione, notificazione o certificazione, essendo esclusa la conoscenza aliunde acquisita. Andava pertanto escluso che la dichiarazione fatta personalmente dalla parte rappresentata circa la morte del proprio difensore possa avere tale efficacia, con la conseguenza che la missiva invocata dall’appellato, peraltro priva di fede privilegiata, era inidonea a far scattare il termine per la riassunzione del processo. La decisione impugnata non appare censurabile, avendo deciso la controversia in conformità della giurisprudenza di questa Corte, non avendo il ricorso peraltro addotto argomenti idonei a sovvertire tale orientamento, determinando pertanto l’inammissibilità del motivo. Anche di recente è stato, infatti ribadito che cfr. Cass. n. 8640/2018 in caso di interruzione del processo determinata, ipso iure , nella fattispecie dall’apertura del fallimento, giusta la L. Fall., art. 43, comma 3, aggiunto dal D.Lgs. n. 5 del 2006, art. 41 , al fine del decorso del termine trimestrale per la riassunzione è necessaria la conoscenza legale dell’evento interruttivo, acquisita cioè non in via di fatto, ma per il tramite di una dichiarazione, notificazione o certificazione rappresentativa dell’evento che determina l’interruzione del processo, assistita da fede privilegiata nella specie, la Corte ha cassato la sentenza di merito che aveva ritenuto tardiva la riassunzione del processo calcolando il relativo termine dalla notifica della citazione direttamente alla curatela - ciò che, secondo la Corte d’appello, dimostrava la conoscenza del fallimento - anziché dalla dichiarazione in udienza del procuratore della società fallita , aggiungendosi altresì che cfr. Cass. n. 6398/2018 la conoscenza formalmente legale oltre ad essere acquisita per il tramite di atti muniti di fede privilegiata quali dichiarazioni, notificazioni o certificazioni rappresentative dell’evento medesimo, è necessario che abbia specificamente ad oggetto tanto l’evento in se considerato quanto lo specifico processo nel quale esso deve esplicare i suoi effetti conf. Cass. n. 27165/2016 . Ne deriva che non potendo spiegare effetti ai fini della decorrenza del termine per la riassunzione la conoscenza aliunde acquisita dell’evento eventualmente in via di fatto cfr. Cass. n. 2340/1996 Cass. n. 2147/1983 , risulta ineccepibile la decisione gravata, che ha escluso che una missiva, ancorché inviata a mezzo raccomandata AR, ma avente ben diverse finalità quella di regolare sul piano fiscale un adempimento intervenuto in conseguenza della provvisoria esecutorietà della sentenza di primo grado , potesse assicurare la conoscenza legale dell’evento interruttivo, sia perché mancava una specifica indicazione dell’evento stesso, essendo ricavabile la morte del difensore solo ab implicito sulla scorta del tenore della richiesta di rideterminare gli oneri fiscali sulle somme versate, sia perché non munita di fede privilegiata, come sopra inteso. 3. Il secondo motivo lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 709 c.c., per avere la Corte d’Appello ordinato al ricorrente di rendere il conto della gestione delle eredità per le quali era stato nominato esecutore testamentario. Si deduce che la norma invocata prevede che l’esecutore testamentario è tenuto a presentare il conto della gestione anche trascorso un anno dalla morte del testatore, se la gestione si prolunga oltre tale periodo. Poiché il C. si era dimesso, quanto all’eredità di D.C. , dopo pochi mesi dall’assunzione dell’incarico, laddove per la diversa eredità della D.C. , non aveva svolto alcuna attività di amministrazione dei beni relitti, non poteva essergli ordinato di rendere il conto. Anche a tale motivo deve essere disatteso. L’interpretazione della norma che offre il ricorrente risulta evidentemente smentita dallo stesso testo di legge, il quale prevede che il rendiconto, dal cui obbligo nemmeno il testatore può esonerare l’esecutore, debba essere reso al termine della gestione e comunque in ogni caso alla scadenza dell’anno dalla morte del de cuius , ove la gestione continui. La previsione che, secondo l’interpretazione offertane in dottrina, impone all’esecutore, nel caso in cui la gestione dei beni si prolunghi oltre l’anno dalla morte del de cuius ipotesi che appare ben delineata da Cass. n. 12241/2016, che ha appunto chiarito che in tema di funzioni dell’esecutore testamentario, il termine annuale previsto dall’art. 703 c.c., riguarda solo il possesso dei beni ereditari, non anche l’amministrazione degli stessi, la cui gestione l’esecutore deve proseguire finché non siano esattamente attuate le disposizioni testamentarie, salvo contraria volontà del testatore o esonero giudiziale ex art. 710 c.c. , la redazione di un duplice rendiconto, ribadisce che resta fermo l’obbligo della resa del conto al termine della gestione, e quindi anche prima dell’anno dalla morte del de cuius , ove l’attività dell’esecutore si esaurisca prima, come si ricava ab implicito da Cass. n. 2455/1984, la cui massima recita che a norma dell’art. 709 c.c., l’esecutore testamentario è tenuto al rendiconto, quando la gestione si protrae oltre l’anno dalla morte del testatore, indipendentemente dal compimento dell’anno di effettiva gestione. Va quindi affermato il seguente principio di diritto Ai sensi dell’art. 709 c.c., l’esecutore testamentario è tenuto a rendere il conto della propria gestione ogni volta che quest’ultima cessi, ed anche laddove ciò si verifichi prima del decorso di un anno dalla morte del testatore . Ne deriva che risulta priva di rilevanza la circostanza che la gestione dei beni si sia arrestata prima della maturazione del termine annuale, rilevando unicamente che il C. fosse cessato dall’incarico di esecutore e ciò anche a tacere del fatto che secondo la preferibile opinione della dottrina, l’obbligo di rendiconto è legato alla gestione che è un termine che copre tutto il campo delle attività che l’esecutore è chiamato a porre in essere, essendo sinonimo di incarico in senso lato, più che di sola amministrazione . 4. Il terzo motivo lamenta la nullità della sentenza per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti nonché omessa motivazione. Assume il ricorrente che la Corte d’Appello avrebbe condannato il C. ala restituzione di somme alle attrici, in relazione all’incasso di affitti per alcuni degli immobili caduti nella successione della D.C. . Nel pervenire a tale conclusione ha però trascurato il contenuto della missiva del 4 ottobre 2002, con la quale, a pochi giorni dalla morte della de cuius , le stesse attrici avevano diffidato i conduttori degli immobili caduti in successione a versare i canoni a persona diversa dalle stesse eredi. Ciò ha quindi determinato una violazione dell’art. 112 c.p.c., in quanto sarebbe stata adottata una pronuncia di condanna in relazione a somme che sono state in realtà incassate direttamente da parte delle attrici, trascurandosi altresì che per il ricorrente, dopo la detta missiva, sarebbe stato impossibile incassare i canoni di locazione. Il motivo è inammissibile. In disparte l’erroneità del riferimento alla violazione dell’art. 112 c.p.c., avendo il giudice di appello esattamente deciso sulla domanda proposta, vertendo la censura piuttosto sulla valutazione di fatto circa la ricorrenza dei fatti costitutivi della pretesa creditoria azionata, reputa il Collegio che, ancorché della missiva menzionata in ricorso non se ne faccia menzione in sentenza, la stessa non costituisce un fatto connotato da decisività ai fini dell’accoglimento del motivo. In tal senso rileva la considerazione che il solo invio da parte delle attrici di una diffida ai conduttori dal versare i canoni a persone diverse dalla stesse eredi, non assume di per sé efficacia vincolante per i conduttori né tanto meno esimeva l’esecutore testamentario dal dover reagire avverso il rifiuto illegittimo eventualmente opposto dai conduttori alle richieste di pagamento provenienti dal soggetto effettivamente tenuto a curare l’incasso dei canoni in ragione della carica di esecutore testamentario ricoperta. La sentenza impugnata ha ravvisato la responsabilità del C. , ritenendolo in colpa, per non avere dato contezza delle somme rappresentate dai frutti dei beni caduti in successione, e della cui amministrazione era stato incaricato durante il periodo nel quale ha rivestito tale qualità, essendo quindi suo onere, al fine di andare esente da responsabilità, quello di documentare che i canoni di locazione erano stati incassati da altri ovvero che i conduttori si erano rifiutati di corrisponderli, e che a tale rifiuto avesse fatto conseguire le iniziative più opportune al fine di dare piena attuazione agli obblighi derivanti dal mandato di fonte testamentaria. 5. Il quarto motivo lamenta, infine, la violazione e falsa applicazione dell’art. 91 c.p.c., quanto alla condanna alle spese di lite, ma trattasi di censura che appare logicamente fondata sul convincimento della fondatezza dei precedenti motivi di ricorso, assumendosi che la certa riforma della sentenza gravata imporrebbe di rivedere anche la decisione circa il carico delle spese di lite. Tuttavia il riscontro dell’inammissibilità del primo e del terzo motivo di ricorso e dell’infondatezza del secondo, impone il rigetto anche di quello in esame. 6. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo. 7. Poiché il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto - ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - Legge di stabilità 2013 , che ha aggiunto l’art. 13, comma 1 quater, del testo unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 - della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione. P.Q.M. Rigetta il ricorso Condanna il ricorrente al rimborso delle spese del presente giudizio in favore delle controricorrenti che liquida in complessivi Euro 3.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali pari al 15 % sui compensi, ed accessori di legge Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente del contributo unificato dovuto per il ricorso a norma dell’art. 1 bis, dello stesso art. 13.