Il dovere di cooperazione istruttoria del giudice di merito di fronte ad un richiedente vittima di violenze

Posto che, in materia di protezione internazionale, la violenza di genere, al pari di quella contro l'infanzia, non può essere ricondotta alla categoria del fatto meramente privato, poichè essa costituisce una delle fattispecie espressamente previste dal d.lgs. n. 251/2007, art. 7, comma 2 ai fini del riconoscimento dello status di rifugiato, sia con riferimento agli atti di violenza fisica o psichica, compresa la violenza sessuale cfr. lett. a , che con riguardo, in generale, agli atti specificamente diretti contro un genere sessuale o contro l'infanzia cfr. lett. f , il dovere di cooperazione istruttoria del giudice di merito dev'essere svolto con modalità idonee a preservare, quanto più possibile, l'integrità psicologica della vittima. Solo in caso di una mancata risposta alle specifiche domande a chiarimento della storia, si può accertare la scarsa attendibilità del narrato, non potendosi, in caso contrario, richiedere alla vittima stessa un onere di specificazione che finirebbe per tradursi in una sua ulteriore sottoposizione ad una forma di violenza psicologica.

Sul tema la Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 29943/20, depositata il 30 dicembre. Il Tribunale di Catanzaro aveva rigettato il ricorso avverso la pronuncia con cui la Commissione Territoriale aveva rigettato la domanda per il riconoscimento della protezione internazionale avanzata da una cittadina straniera. La Corte d’Appello ha confermato la decisione e la richiedente ha dunque proposto ricorso in Cassazione. Secondo la ricorrente, i Giudici di merito avrebbero sottovalutato gli elementi salienti del suo racconto ritenendolo inammissibile. Il ricorso ripercorre infatti la vicenda personale della richiedente e le violenze subite nel proprio Paese, dolendosi della violazione degli artt. 3, d.lgs. n. 251/2007, 8 d.lgs. n. 25/2008 e 5 d.lgs. n. 286/1998. Il Collegio afferma che in materia di protezione internazionale, la violenza di genere , al pari di quella contro l'infanzia, non può essere ricondotta alla categoria del fatto meramente privato, poichè essa costituisce una delle fattispecie espressamente previste dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 7, comma 2 ai fini del riconoscimento dello status di rifugiato , sia con riferimento agli atti di violenza fisica o psichica, compresa la violenza sessuale cfr. lett. a , che con riguardo, in generale, agli atti specificamente diretti contro un genere sessuale o contro l'infanzia cfr. lett. f . Di fronte ad una storia personale caratterizzata da violenza di genere, per poter attribuire rilievo al fatto che la donna, o il minore, non abbiano riferito il nome del proprio aguzzino o i dettagli delle violenze subite il giudice di merito deve dare atto, in motivazione, di aver posto specifiche domande a chiarimento della storia, da contenere negli stretti limiti delle esigenze istruttorie , alle quali la vittima non sia stata in grado di rispondere, poichè solo in tal caso la mancata risposta si può tradurre in un indizio di scarsa attendibilità del narrato, non potendosi, in caso contrario, richiedere alla vittima stessa un onere di specificazione che finirebbe per tradursi in una sua ulteriore sottoposizione ad una forma di violenza psicologica. L' approfondimento istruttorio demandato al giudice di merito dev'essere svolto con modalità idonee a preservare, quanto più possibile, l'integrità psicologica della vittima, in quanto persona da presumere fragile a fronte del vissuto di violenza cui è stata esposta, soprattutto nel caso di esposizione della donna, o del minore, a violenze reiterate e prolungate nel tempo . Essendosi la pronuncia conformata a tali principi, il ricorso viene dichiarato inammissibile.

Corte di Cassazione, sez. I Civile, ordinanza 29 ottobre – 30 dicembre 2020, n. 29943 Presidente Campanile – Relatore Oliva Fatti di causa Con ordinanza del 4.5.2017 il Tribunale di Catanzaro rigettava il ricorso avverso il provvedimento del 13.5.2016, notificato il 9.6.2016, con il quale la Commissione Territoriale per il Riconoscimento della Protezione Internazionale aveva respinto la domanda di S.U. volta al riconoscimento della protezione, internazionale o umanitaria. Interponeva appello la S. e la Corte di Appello di Catanzaro, con la sentenza oggi impugnata, n. 189 del 2019, rigettava il gravame. Propone ricorso per la cassazione di tale decisione S.U. affidandosi a tre motivi. Il Ministero dell’Interno, intimato, ha depositato memoria ai fini della partecipazione all’udienza. Il P.G. ha concluso per l’accoglimento del ricorso. Ragioni della decisione Con il primo motivo la ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 4 e art. 7 in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5 perché la Corte di Appello avrebbe ritenuto non credibile la storia personale della S. , sottovalutandone gli elementi salienti. La ricorrente aveva infatti narrato di essere rimasta orfana di padre quando aveva tredici anni e di aver perso la madre due anni dopo di aver poi subito, quando aveva diciassette anni, violenza sessuale ad opera di un ragazzo, all’epoca trentenne, parente del marito di una zia di esser stata costretta a sposare il suo violentatore, che si era rivelato violento, dedito all’uso di stupefacenti, e le aveva inflitto violenze fisiche e morali, procurandole due aborti e lasciandola in condizioni di indigenza i suoi tre figli erano stati quindi affidati alla prima moglie del marito, che li adibiva a mansioni domestiche. Nel 2015 la ricorrente si era alfine risolta, dopo il secondo aborto, a recarsi con i figli presso una cugina, alla quale aveva affidato la sua prole per espatriare. La Corte di Appello ha ritenuto questa storia non credibile, sia per la genericità del racconto, sia in considerazione del fatto che tutti i protagonisti sono rimasti anonimi, sia in vista dell’incapacità della donna di descrivere il proprio persecutore, che - secondo il racconto - le avrebbe usato violenza per 17 anni, se non mediante un generico riferimento agli aspetti morali del suo carattere. La ricorrente contesta la valutazione del giudice di merito, affermando che la Corte territoriale avrebbe dovuto diversamente apprezzare i gravi fatti contenuti nel racconto. La censura, così come essa è formulata, è inammissibile. La ricorrente infatti avrebbe dovuto meglio circostanziare lo svolgimento dell’audizione, al fine di evidenziare le domande che la Commissione territoriale le aveva posto e le risposte che ella aveva fornito. Sotto questo profilo, infatti, la semplice affermazione che i protagonisti della storia siano rimasti anonima non appare di per sé indicativa dell’inattendibilità del racconto, poiché la donna che sia stata sottoposta a violenze e denigrazioni protratte per lungo tempo potrebbe nutrire una naturale ritrosia a riferire i dettagli del proprio vissuto. Allo stesso modo, la vittima potrebbe essere portata a tacere i particolari più scabrosi delle violenze patite, ed in questo senso potrebbe giustificarsi una certa genericità del racconto. La mancata indicazione del nome del persecutore, o l’omessa precisazione delle caratteristiche delle violenze, dunque, potrebbero rilevare solo a fronte di specifiche domande, alle quali l’interessata non abbia saputo rispondere, evidenziando in tal modo una scarsa padronanza del racconto. Ovvero, sotto altra prospettiva, qualora le risposte fossero state fornite in termini asettici , a dimostrazione di una sostanziale non partecipazione alla storia. Tuttavia la censura non presenta il necessario livello di specificità, poiché la ricorrente si è limitata ad una generica riaffermazione delle sofferenze subite, senza in alcun modo attingere la motivazione resa dalla Corte territoriale e contestarne i singoli passaggi, come invece sarebbe stato onere della S. fare. Dal che discende l’inammissibilità del primo motivo. Con il secondo motivo, la ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8 perché la Corte calabrese avrebbe deciso in violazione del dovere di cooperazione istruttoria. Da un lato, infatti, il giudice di merito avrebbe riconosciuto la presenza, in XXXXXXX Paese di provenienza della S. , di un contesto caratterizzato da violenze contro le donne e matrimoni forzati, ma dall’altro lato avrebbe confermato la valutazione di non credibilità della storia, sostanzialmente svuotandola del suo contenuto. Anche questa censura, nei termini in cui essa è proposta, risulta inammissibile. Va invero precisato che la Corte territoriale ha ritenuto non credibile il fatto che la S. abbia dichiarato di essersi allontanata dal proprio domicilio insieme ai figli, nella speranza di poter vivere con loro dandogli una educazione, ma si sia poi risolta a lasciarli presso la cugina, espatriando da sola ha poi ulteriormente ritenuto non credibile il fatto che la donna avesse dichiarato di non essersi rivolta alla polizia ed all’autorità giudiziaria per mancanza di denaro. Tale motivazione non appare del tutto appagante, posto che sia la prima scelta che la seconda potrebbero, in linea teorica, essere state causate da contingenze che la S. non aveva previsto, o non aveva correttamente valutato, all’atto dell’allontanamento dal proprio domicilio. Sotto questo profilo, non può non essere valutato anche lo stato di verosimile prostrazione e disperazione in cui la donna, vittima di violenza, si viene a trovare, a fronte di un pericolo per sé e per i propri figli nè può essere ignorato il fatto che la stessa, molto probabilmente, è spinta a fuggire dal pericolo, mettendo in salvo sé stessa e la sua prole, senza considerare appieno le conseguenze della propria decisione. Del pari, può essere verosimile immaginare che la donna, esposta a prolungate violenze e vessazioni, sia anche priva degli strumenti economici occorrenti per far valere in sede giudiziaria le proprie ragioni. Tuttavia anche in questo caso la doglianza in esame non raggiunge il necessario livello di specificità, poiché la S. si limita a lamentare che la Corte di Appello non ha tenuto conto del fatto che il XXXXXXX è interessato da numerose problematiche, legate alla violenza sulle donne, come indicato nei documenti allegati nel fascicolo di primo e secondo grado e dai rapporti internazionali cfr. pag. 7 del ricorso , senza in alcun modo confrontarsi con i passaggi salienti della motivazione resa dal giudice di merito e senza contestarli in maniera puntuale, evidenziandone gli intrinseci profili di contraddittorietà logica. Dal che deriva l’inammissibilità anche del secondo motivo di ricorso. Con il terzo motivo, la ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, in relazione all’art. 360 c.p.c., perché la Corte catanzarese avrebbe omesso di compiere l’apprezzamento comparativo tra la condizione di vita della S. in Italia e nel Paese di origine, in caso di rimpatrio. La censura è inammissibile. La Corte di Appello ha infatti apprezzato la situazione esistente in XXXXXXX, Paese di origine della richiedente, la sua condizione individuale e la sua integrazione in Italia, escludendo la sussistenza di profili di vulnerabilità e di rischi di compromissione dei suoi diritti fondamentali in caso di rimpatrio, a fronte della mancata allegazione, da parte della richiedente stessa, di una specifica situazione di vulnerabilità soggettiva. La S. contesta tale valutazione, senza tuttavia allegare alcun elemento concreto che il giudice di merito non avrebbe considerato, o avrebbe valutato in modo non corretto, e senza confrontarsi con la motivazione resa dal giudice di merito, nè indicare alcun profilo di effettiva integrazione sociolavorativa in Italia. Nel suo complesso, quindi, il ricorso va dichiarato inammissibile. Ciò posto, il Collegio ritiene che sussistano le condizioni per l’affermazione del principio di diritto, ai sensi dell’art. 363 c.p.c., comma 3, stante la particolare rilevanza della questione decisa. Va infatti ribadito che la violenza di genere non può mai essere ridotta a fatto meramente privato, posto che essa è una delle fattispecie espressamente previste dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 7, comma 2, ai fini del riconoscimento dello status di rifugiato cfr. in particolare lett. a , che contempla gli atti di violenza fisica o psichica, compresa la violenza sessuale e lett. f , che si riferisce invece agli atti specificamente diretti contro un genere sessuale o contro l’infanzia . Di fronte all’espressa previsione normativa della violenza predetta come fatto rilevante ai fini del riconoscimento della protezione internazionale, financo nella sua forma maggiore del rifugio, il giudice di merito non può non considerare il contesto socio-ambientale in cui la violenza stessa si sviluppa e dal quale, solitamente, è alimentata. Sotto questo profilo, affermare che la storia non sia credibile perché la donna non ha sporto denuncia equivale a disconoscere l’effetto intimidatorio che l’esposizione alla violenza, o alle condizioni di privazione della libertà di movimento o autodeterminazione, o alla denigrazione, che sovente si accompagnano alla violenza stessa, possono avere sulla psicologia indebolita della vittima. Allo stesso modo, affermare che la storia di sopraffazione non sia credibile perché la vittima non si è allontanata subito dal proprio aguzzino, mettendo a riparo la prole, può risolversi in una sottovalutazione, da un lato, degli aspetti di sudditanza psicologica che l’esposizione ad atti violenti può causare nella vittima, e, dall’altro lato, delle implicazioni psicologiche almeno potenzialmente connesse all’assunzione di una responsabilità familiare nei confronti della persona dalla quale l’atto violento proviene. Inoltre, occorre tener conto che di fronte a vicende di violenza domestica, o di genere, o rivolta contro fanciulli, l’ascolto della vittima va condotto tenendo conto della sua condizione di debolezza psicologica, e con modalità tali da prevenire il rischio che si possa verificare un’illecita inversione dei ruoli. Sotto questo profilo, per poter attribuire rilevanza al fatto che la donna non abbia riferito i dettagli delle violenze subite occorre che il giudice dia atto, in motivazione, di aver posto specifiche domande a chiarimento della storia, e che la vittima non sia stata in grado di rispondere, poiché solo in tal caso la mancata risposta si può tradurre in un indizio di scarsa attendibilità del narrato. Non si può, infatti, pretendere che la vittima sia comunque tenuta a riferire i dettagli delle violenze patite, anche in assenza di domanda specifica sul punto, poiché questo si risolverebbe in una sua ulteriore, inutile, esposizione a violenza psicologica. Allo stesso modo, occorre tener conto che le domande a chiarimento non possono trasmodare i limiti delle strette necessità istruttorie, poiché solo all’interno di questi rigorosi confini si ravvisa l’interesse del giudice all’approfondimento di determinati fatti, dovendosi escludere qualsiasi approccio inutilmente morboso alla vicenda. Identico atteggiamento va osservato con riguardo all’individuazione del responsabile della violenza di genere anche in questo caso, infatti, la vittima può presentare specifici profili di debolezza ed essere portata a tacere, almeno in un momento iniziale, il nome del proprio aguzzino. Anche in questo caso, dunque, spetta al giudice la responsabilità di porre domande a chiarimento, con modalità tali da preservare, quanto più possibile, l’integrità psicologica di una persona che merita di essere considerata fragile, a fronte del vissuto di violenza cui è stata esposta. Tutto quanto sin qui esposto è ancor più valido di fronte ad ipotesi di esposizione della donna, o del minore, a violenze reiterate e prolungate nel tempo, come è accaduto nel caso specifico. In definitiva, va affermato il seguente principio di diritto In materia di protezione internazionale, la violenza di genere, al pari di quella contro l’infanzia, non può essere ricondotta alla categoria del fatto meramente privato, poiché essa costituisce una delle fattispecie espressamente previste dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 7, comma 2 ai fini del riconoscimento dello status di rifugiato, sia con riferimento agli atti di violenza fisica o psichica, compresa la violenza sessuale cfr. lett. a , che con riguardo, in generale, agli atti specificamente diretti contro un genere sessuale o contro l’infanzia cfr. lett. f . Di fronte ad una storia personale caratterizzata da violenza di genere, per poter attribuire rilievo al fatto che la donna, o il minore, non abbiano riferito il nome del proprio aguzzino o i dettagli delle violenze subite il giudice di merito deve dare atto, in motivazione, di aver posto specifiche domande a chiarimento della storia, da contenere negli stretti limiti delle esigenze istruttorie, alle quali la vittima non sia stata in grado di rispondere, poiché solo in tal caso la mancata risposta si può tradurre in un indizio di scarsa attendibilità del narrato, non potendosi, in caso contrario, richiedere alla vittima stessa un onere di specificazione che finirebbe per tradursi in una sua ulteriore sottoposizione ad una forma di violenza psicologica. L’approfondimento istruttorio demandato al giudice di merito dev’essere svolto con modalità idonee a preservare, quanto più possibile, l’integrità psicologica della vittima, in quanto persona da presumere fragile a fronte del vissuto di violenza cui è stata esposta, soprattutto nel caso di esposizione della donna, o del minore, a violenze reiterate e prolungate nel tempo . Nulla per le spese, in assenza di notificazione di controricorso da parte del Ministero intimato nel presente giudizio di legittimità. Stante il tenore della pronuncia, va dato atto - ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater - della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento di un ulteriore importo a titolo contributo unificato, pari a quello previsto per la proposizione dell’impugnazione, se dovuto. P.Q.M. la Corte dichiara inammissibile il ricorso. Ai sensi di quanto previsto dall’art. 363 c.p.c., comma 3, la Corte afferma il seguente principio di diritto In materia di protezione internazionale, la violenza di genere, al pari di quella contro l’infanzia, non può essere ricondotta alla categoria del fatto meramente privato, poiché essa costituisce una delle fattispecie espressamente previste dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 7, comma 2 ai fini del riconoscimento dello status di rifugiato, sia con riferimento agli atti di violenza fisica o psichica, compresa la violenza sessuale cfr. lett. a , che con riguardo, in generale, agli atti specificamente diretti contro un genere sessuale o contro l’infanzia cfr. lett. f . Di fronte ad una storia personale caratterizzata da violenza di genere, per poter attribuire rilievo al fatto che la donna, o il minore, non abbiano riferito il nome del proprio aguzzino o i dettagli delle violenze subite il giudice di merito deve dare atto, in motivazione, di aver posto specifiche domande a chiarimento della storia, da contenere negli stretti limiti delle esigenze istruttorie, alle quali la vittima non sia stata in grado di rispondere, poiché solo in tal caso la mancata risposta si può tradurre in un indizio di scarsa attendibilità del narrato, non potendosi, in caso contrario, richiedere alla vittima stessa un onere di specificazione che finirebbe per tradursi in una sua ulteriore sottoposizione ad una forma di violenza psicologica. L’approfondimento istruttorio demandato al giudice di merito dev’essere svolto con modalità idonee a preservare, quanto più possibile, l’integrità psicologica della vittima, in quanto persona da presumere fragile a fronte del vissuto di violenza cui è stata esposta, soprattutto nel caso di esposizione della donna, o del minore, a violenze reiterate e prolungate nel tempo . Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis se dovuto.