La Cassazione sui presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato

La situazione socio-politica o normativa del Paese di provenienza può assumere rilievo, ai fini del riconoscimento dello status di rifugiato, soltanto se correlata alla specifica posizione del richiedente e al suo fondato timore di una persecuzione personale e diretta, in ragione dell’appartenenza ad un’etnia, associazione, credo politico o religioso, ovvero delle proprie tendenze e stili di vita, e quindi alla sua personale esposizione al rischio di specifiche misure sanzionatorie a danno della sua integrità psico-fisica.

Lo ha chiarito la Cassazione, con ordinanza n. 16967/20 depositata il 12 agosto. Il Tribunale di Bari rigettava la domanda di riconoscimento dello status di rifugiato , della protezione sussidiaria e del permesso di soggiorno avanzata dal cittadino straniero e gli revocava l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato. Avverso tale decisione, il richiedente propone ricorso per cassazione deducendo la violazione dell’art. 14, lett. b , d.lgs. n. 251/2007, per aver escluso che la vicenda allegata fosse riconducibile a tale disposizione e all’art. 7 del medesimo decreto. In particolare, il ricorrente lamenta l’omesso adempimento da parte del Tribunale del dovere di cooperazione per l’accertamento dei fatti rilevanti. Secondo la Cassazione, il Tribunale ha correttamente escluso la sussistenza dei presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato, in quanto il ricorrente ha mancato di allegare, a sostegno della domanda, i fatti diversi dalla generale condizione d’instabilità del suo Paese d’origine , quale il Senegal, i cui effetti sono considerati come ricadenti sull’intera collettività di quell’aerea e, pertanto, non riconducibili all’art. 7 d.lgs. n. 251/2007. A tal proposito, la Corte chiarisce che la situazione socio-politica o normativa del Paese di provenienza può infatti assumere rilievo, ai fini del riconoscimento di tale forma di protezione, soltanto se correlata alla specifica posizione del richiedente , e segnatamente al suo fondato timore di una persecuzione personale e diretta, in ragione dell’appartenenza ad un’etnia, associazione, credo politico o religioso, ovvero delle proprie tendenze e stili di vita, e quindi alla sua personale esposizione al rischio di specifiche misure sanzionatorie a danno della sua integrità psico-fisica . Ai fini del riconoscimento dello status di rifugiato è dunque richiesta la prova dell’esposizione specifica del soggetto al rischio di un danno particolare , e quindi di un grado di individualizzazione della minaccia non inferiore a quello occorrente per gli atti di persecuzione . La necessità di tale prova, aggiunge la Cassazione, viene meno soltanto nell’ipotesi di cui alla lett. c dell’art. 14, ovverosia in presenza di una situazione di violenza indiscriminata derivante da un conflitto armato interno o internazionale, la quale può giustificare il riconoscimento della protezione sussidiaria, a condizione che gli scontri armati abbiano raggiunto un livello d’intensità così elevato da indurre a ritenere che, in caso di rientro nel Paese o nella regione di origine, lo straniero resterebbe esposto, per la sua sola presenza sul territorio, al rischio di un danno grave alla vita o alla persona .

Corte di Cassazione, sez. I Civile, ordinanza 1° luglio – 12 agosto 2020, n. 16967 Presidente Genovese – Relatore Mercolino Fatti di causa 1. Con decreto del 1 dicembre 2018, il Tribunale di Bari ha rigettato la domanda di riconoscimento dello status di rifugiato e, in subordine, della protezione sussidiaria o del permesso di soggiorno per motivi umanitari proposta da D.S. , cittadino del Senegal, revocando l’ammissione del ricorrente al patrocinio a spese dello Stato. A fondamento della decisione, il Tribunale ha innanzitutto escluso la necessità dell’audizione personale del ricorrente, dando atto della produzione in giudizio del verbale del colloquio svoltosi dinanzi alla Commissione territoriale, recante dichiarazioni sufficientemente ampie ed adeguatamente illustrative dei motivi dell’istanza. Ritenuto inoltre che dalle predette dichiarazioni non emergessero atti di persecuzione riconducibili al D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 7, nè circostanze tali da giustificare il timore di un danno grave, nel senso previsto dall’art. 14, lett. a e b del medesimo decreto, ha escluso anche che nel Paese e nella regione di origine del ricorrente fosse in atto un conflitto armato d’intensità tale da generare una situazione di violenza indiscriminata, come prescritto dalla lett. c dell’art. 14 cit. Ha ritenuto infine insussistenti i presupposti per il riconoscimento della protezione umanitaria, rilevando che il ricorrente non aveva fatto valere una lesione di diritti fondamentali o una specifica situazione di vulnerabilità personale. 2. Avverso il predetto decreto il D. ha proposto ricorso per cassazione, articolato in due motivi. Il Ministero dell’interno non ha svolto attività difensiva. Ragioni della decisione 1. Con il primo motivo d’impugnazione, il ricorrente denuncia la violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. b , nonché l’omesso esame di un fatto controverso e decisivo per il giudizio, censurando il decreto impugnato per aver escluso che la vicenda personale da lui allegata fosse riconducibile alla predetta disposizione ed all’art. 7 del D.Lgs. n. 251 cit., senza tener conto della situazione d’instabilità esistente nel Paese di origine di esso ricorrente, a causa di scontri armati determinati dalla presenza di ribelli, e dell’incapacità delle autorità statali di fornire adeguata protezione. Aggiunge che il Tribunale ha omesso di adempiere il proprio dovere di cooperazione, non avendo valutato se egli avesse compiuto ogni ragionevole sforzo per circostanziare la domanda ed avesse prodotto tutti gli elementi pertinenti in suo possesso, e non avendo esercitato i propri poteri ufficiosi per l’accertamento dei fatti rilevanti. 1.1. Il motivo è infondato. Correttamente, infatti, il decreto impugnato ha escluso la sussistenza dei presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato, non avendo il ricorrente allegato, a sostegno della relativa domanda, fatti diversi da una generale condizione d’instabilità del Senegal ed in particolare della regione di Casamance, i cui effetti, ricadenti sull’intera collettività residente in quella area, non sono riconducibili al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 7 la situazione socio-politica o normativa del Paese di provenienza può infatti assumere rilievo, ai fini del riconoscimento di tale forma di protezione, soltanto se correlata alla specifica posizione del richiedente, e segnatamente al suo fondato timore di una persecuzione personale e diretta, in ragione dell’appartenenza ad un’etnia, associazione, credo politico o religioso, ovvero delle proprie tendenze e stili di vita, e quindi alla sua personale esposizione al rischio di specifiche misure sanzionatorie a danno della sua integrità psico-fisica cfr. Cass., Sez. I, 21/11/2018, n. 30105 Cass., Sez. VI, 10/05/2011, n. 10177 . I rischi derivanti dalla predetta situazione non possono essere inquadrati neppure nella nozione di danno grave cui fa riferimento l’art. 14, lett. b , del D.Lgs. n. 251, non costituendo una forma di tortura o di trattamento inumano o degradante, per la cui configurabilità si richiede la prova dell’esposizione specifica del soggetto al rischio di un danno particolare, e quindi un grado di individualizzazione della minaccia non inferiore a quello occorrente per gli atti di persecuzione cfr. Corte di Giustizia UE, sent. 17/02/ 2009, in causa C-465/07, Elgafaji . La necessità della predetta prova viene meno soltanto nell’ipotesi di cui alla lett. c dell’art. 14, ovverosia in presenza di una situazione di violenza indiscriminata derivante da un conflitto armato interno o internazionale, la quale può giustificare il riconoscimento della protezione sussidiaria, a condizione che gli scontri armati abbiano raggiunto un livello d’intensità così elevato da indurre a ritenere che, in caso di rientro nel Paese o nella regione di origine, lo straniero resterebbe esposto, per la sua sola presenza sul territorio, al rischio di un danno grave alla vita o alla persona Cass., Sez. VI, 23/10/2017, n. 25083 21/07/2017, n. 18130 . L’affermazione dell’insussistenza dei presupposti richiesti dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 7 e art. 14, lett. b , sulla base della mera narrazione dei fatti contenuta nel verbale del colloquio sostenuto dinanzi alla Commissione territoriale, risultando di per sé sufficiente a giustificare il rigetto della domanda di riconoscimento dello status di rifugiato e della protezione sussidiaria, indipendentemente dalla credibilità della vicenda personale riferita dal ricorrente, consente infine di ritenere irrilevante il mancato ricorso da parte del Tribunale ai poteri istruttori ufficiosi previsti dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, e dal D.Lgs. 28 gennaio 2008, n. 25, art. 8, comma 3, il cui esercizio sarebbe risultato superfluo, in mancanza dell’allegazione di fatti idonei a legittimare, finanche in astratto, la concessione delle misure invocate. È noto infatti che, in tema di protezione internazionale, l’attenuazione del principio dispositivo derivante dalla previsione del dovere di cooperazione istruttoria posto a carico del giudice dalle citate disposizioni opera esclusivamente sul piano della prova, senza investire il profilo dell’allegazione dei fatti, la cui introduzione spetta al richiedente, con la conseguenza che quest’ultimo non può invocare l’esercizio dei poteri d’integrazione officiosa attribuiti al giudice per sottrarsi alle conseguenze dell’inadempimento dell’onere posto a suo carico cfr. Cass., Sez. I, 31/01/2019, n. 3016 Cass., Sez. VI, 29/10/2018, n. 27336 28/09/2015, n. 19197 . 2. Con il secondo motivo, il ricorrente deduce la violazione dell’art. 1 della Convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951, dell’art. 10 Cost., del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 3, 7, 14 e 17, del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8 e art. 32, comma 3, e del D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 5, comma 6, nonché l’apparenza della motivazione, censurando il decreto impugnato per non aver valutato compiutamente la documentazione prodotta, comprovante la situazione d’instabilità in atto nel Senegal ed il rischio di persecuzione per motivi di religione. Aggiunge che il Tribunale ha omesso di acquisire informazioni aggiornate sul Paese di origine di esso ricorrente, nonché di verificare la sua esposizione a rischio per l’incolumità fisica e di accertare la sussistenza dei presupposti necessari per il riconoscimento della protezione umanitaria, il cui diniego è stato automaticamente ricollegato a quello delle altre forme di protezione. Lamenta infine l’ingiustificata revoca del beneficio dell’ammissione al patrocinio a stese dello Stato, nonostante la fondatezza della domanda. 2.1. Il motivo è infondato. Nell’escludere la configurabilità della fattispecie di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c , il decreto impugnato ha infatti richiamato le informazioni fornite da fonti nazionali ed internazionali accreditate ed aggiornate, puntualmente indicate in motivazione, dalle quali ha desunto che, nonostante la persistenza degli effetti del trentennale conflitto armato svoltosi tra le forze governative del Senegal ed il movimento indipendentista sviluppatosi nella regione di Casamance, la situazione generale del Paese di origine del ricorrente e quella specifica della predetta regione è ormai caratterizzata da un sufficiente grado di stabilità e sicurezza, tale da far apparire infondato il timore di danni alla popolazione civile. Tale apprezzamento, censurabile in sede di legittimità soltanto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per omesso esame di un fatto decisivo che abbia costituito oggetto del dibattito processuale, ovvero ai sensi dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, per insussistenza materiale, mera apparenza o manifesta illogicità della motivazione cfr. Cass., Sez. VI, 12/12/2018, n. 32064 Cass., Sez. I, 21/11/2018, n. 30105 , resiste alle critiche mosse dal ricorrente, il quale, nel dolersi del diniego della protezione sussidiaria, si limita ad insistere sul valore probatorio della documentazione prodotta, in tal modo sollecitando una nuova valutazione dei fatti, non consentita a questa Corte, alla quale non spetta il compito di riesaminare il merito della controversia, ma solo quello di verificare la correttezza giuridica delle argomentazioni contenute nel provvedimento impugnato, nonché la coerenza logico-formale delle stesse, nei limiti in cui le relative anomalie sono ancora deducibili come motivo di ricorso per cassazione, ai sensi delle citate disposizioni cfr. ex plurimis, Cass., Sez. Un., 7/04/2014, n. 8053 e 8054 Cass., Sez. VI, 8/10/2014, n. 21257 . Quanto al riconoscimento della protezione umanitaria, il rigetto della relativa domanda non costituisce affatto una conseguenza automatica del diniego delle altre forme di protezione, non essendosi il Tribunale limitato a richiamare le ragioni esposte in relazione a queste ultime, ma avendo altresì rilevato la mancata prospettazione di una vicenda personale che denotasse un’effettiva lesione dei diritti fondamentali o comunque una specifica condizione di vulnerabilità del ricorrente, e ciò in conformità del consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, secondo cui, nel regime anteriore all’entrata in vigore della L. 14 luglio 2017, n. 110, art. 3, comma 1, che ha aggiunto il D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 19, comma 1.1, il rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari presuppone l’esistenza di situazioni non tipizzate di vulnerabilità dello straniero, risultanti da obblighi internazionali o costituzionali conseguenti al rischio del richiedente di essere immesso, in esito al rimpatrio, in un contesto sociale, politico ed ambientale idoneo a determinare una significativa ed effettiva compromissione dei suoi diritti fondamentali cfr. Cass., Sez. I, 16/12/2019, n. 33187 22/02/2019, n. 5358 Cass., Sez. VI, 21/12/2016, n. 26641 . Non possono infine trovare ingresso, in questa sede, le censure riguardanti la revoca dell’ammissione al patrocinio a spese dello Stato, trattandosi di una statuizione che, anche se adottata con il provvedimento che ha definito il giudizio di merito, anziché con separato decreto, come prescritto dal D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 136, non comporta mutamenti nel regime impugnatorio, che resta quello, ordinario e generale, dell’opposizione prevista dall’art. 170 del medesimo decreto cfr. Cass., Sez. I, 11/12/ 2018, n. 32028 Cass., Sez. III, 8/02/2018, n. 3028 Cass., Sez. II, 6/12/ 2017, n. 29228 . 3. Il ricorso va pertanto rigettato, senza che occorra provvedere al regolamento delle spese processuali, avuto riguardo alla mancata costituzione dell’intimato. P.Q.M. rigetta il ricorso. Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso dal comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.