La protezione sussidiaria e la tutela umanitaria

Il danno grave” quale requisito necessario ed indispensabile affinché possa concedersi la protezione sussidiaria, è esemplificato tassativamente nell’art. 14 d.lgs. n. 251/2007. Per quanto attiene alla tutela umanitaria, invece, l’allegazione da parte del richiedente che in un Paese di transito si consumi un’ampia violazione dei diritti umani senza evidenziare quale connessione vi sia tra il transito attraverso quel Paese ed il contenuto della domanda, costituisce circostanza irrilevante ai fini del rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari.

È quanto si legge nella sentenza n. 7873/2020 della Prima Sezione Civile della Corte di Cassazione depositata il 16 aprile. Il caso. D.S., cittadino del Bangladesh, chiedeva con apposita istanza il riconoscimento dello status di rifugiato e, in via subordinata, la protezione sussidiaria ovvero il rilascio di un permesso di soggiorno per motivi umanitari. Veniva invocata, quindi, in via principale la protezione sussidiaria e in via subordinata la protezione umanitaria. A sostegno della summenzionata istanza, D.S. deduceva di essere fuggito dal Bangladesh a causa della grave condizione di indigenza nella quale viveva la sua famiglia ed in ragione della generale insicurezza e violenza esistente nel predetto Paese. La Commissione Territoriale competente e la Corte d’Appello di L’Aquila rigettavano la richiesta. Il cittadino del Bangladesh proponeva così ricorso per cassazione affidandosi a due motivi. In particolare, con il primo motivo di doglianza D.S. si lamenta della violazione e falsa applicazione dell’art. 8 d.lgs. n. 25/2008 e degli artt. Da 2 a 6 e dell’art. 14 d.lgs. n. 251/2007 in relazione all’art. 360, comma 3, c.p.c. perché la Corte d’Appello avrebbe erroneamente rigettato la domanda di protezione sussidiaria ritenendo che il richiedente avesse deciso di abbandonare il Bangladesh per motivazioni esclusivamente economiche. Con il secondo motivo D.S. sostiene che siano stati violati gli art. 19 d.lgs. n. 286/1998 e art. 32 d.lgs. 25/2008 in relazione all’art. 360 co. 3 c.p.c. perché la Corte d’Appello di L’Aquila avrebbe erroneamente negato la sussistenza dei presupposti per la concessione della tutela umanitaria senza tener conto dell’attività lavorativa biennale in Libia. La Corte di Cassazione rigetta il ricorso. La protezione sussidiaria. Ai sensi dell’art. 2 lett. g d.lgs. n. 251/2007, può richiedere la protezione sussidiaria il cittadino straniero che non possiede i requisiti per essere riconosciuto come rifugiato ma nei cui confronti sussistono fondati motivi di ritenere che, se ritornasse nel paese di origine, o, nel caso di un apolide, se ritornasse nel paese nel quale aveva precedentemente la dimora abituale, correrebbe un rischio effettivo di subire un grave danno come definito dal presente decreto e il quale non può o, a causa di tale rischio, non vuole avvalersi della protezione di detto paese”. Per una migliore comprensione della protezione sussidiaria è d’uopo ricordare che il rifugiato è un cittadino straniero il quale, per il timore fondato di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o opinione politica, si trova fuori dal territorio del Paese di cui ha la cittadinanza e non può o, a causa di tale timore, non vuole avvalersi della protezione di tale Paese. Premesso ciò, il requisito necessario ed indispensabile affinché possa concedersi la protezione sussidiaria, è la presenza di un danno grave” che l’art. 14 D. Lgs. n. 251/2007 esemplifica in condanna a morte o all’esecuzione della pena di morte tortura o altra forma di pena o trattamento inumano o degradante ai danni del richiedente nel suo paese di origine minaccia grave e individuale alla vita o alla persona di un civile derivante dalla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale. È bene precisare che la giurisprudenza di legittimità nell’ordinanza n. 6880/2011 ha stabilito che il riconoscimento della protezione sussidiaria non richiede, diversamente da quanto previsto per lo status di rifugiato politico, l’accertamento dell’esistenza di una condizione di persecuzione del richiedente, ma è assoggettato solamente ai requisiti diversi, desumibili dall’art. 2 lettera g e dall’art. 14 del d.lgs. n. 250 del 2007. Nel caso di specie la Corte d’Appello dà atto della situazione presente in Bangladesh e sottolinea come il clima ostile espone a rischio concreto ed effettivo l’incolumità solo di una certa categoria di persone quali gli oppositori politici, giornalisti, blogger, studenti, operatori umanitari e stranieri in genere categoria alle quali D.S. non appartiene. Si tratta di un giudizio di merito non inficiato da vizi di illogicità, e per tale ragione sottratto al sindacato di legittimità. La protezione umanitaria e il Paese di transito”. Assieme allo status di rifugiato e alla protezione sussidiaria, la tutela umanitaria è la terza forma di protezione riconosciuta a livello internazionale. Quando si parla di protezione umanitaria” si parla, concretamente, di persone che vivono oggettive e gravi situazioni personali. Si tratta quindi di una protezione alternativa laddove non ci siano i requisiti per poter ottenere il riconoscimento dello status di rifugiato e neppure quelli per ottenere la protezione sussidiaria Cass. n. 4455/2018 . Il permesso di soggiorno per motivi umanitari, nel dettaglio, viene concesso quando ricorrono seri motivi di carattere umanitario”. Suddetti motivi non sono tipizzati dalla norma ciò fa sì che bisognerà fare riferimento ad diritto internazionale ma prima ancora alla Carta Costituzionale al fine di valutare la violazione o il timore della violazione dei diritti umani fondamentali. Ai sensi dell’art. 8 co. 3 d.lgs. n. 25/2008 la domanda di tutela umanitaria è esaminata, ove occorra, tenendo conto altresì dei Paesi nei quali il richiedente è transitato. La locuzione ove occorra” sta a significare che il richiedente ha l’onere di dimostrare ovvero allegare una permanenza nel Paese di transito, idonea a costituire la presunzione di esistenza di un collegamento tra lo straniero e suddetto Paese. Nel caso di specie D.S. si è limitato ad indicare in modo generico una sua permanenza in Libia, non permettendo al giudice di merito di apprezzare il collegamento tra questo Paese e il ricorrente.

Corte di Cassazione, sez. I Civile, sentenza 10 gennaio – 16 aprile 2020, n. 7873 Presidente San Giorgio – Relatore Oliva Fatti di causa Con ricorso del D.Lgs. n. 150 del 2011, ex art. 19 e del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35, D.S. , cittadino del OMISSIS , impugnava il provvedimento della Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale di Ancona con il quale era stata rigettata la sua richiesta volta ad ottenere, in via principale, lo status di rifugiato, in subordine la protezione sussidiaria ed in ulteriore subordine il rilascio di un permesso di soggiorno per motivi umanitari. A sostegno dell’istanza il ricorrente deduceva di essere fuggito dal Bangladesh a causa della grave condizione di indigenza nella quale viveva la sua famiglia ed in ragione della generale situazione di insicurezza e violenza generalizzata esistente nel predetto Paese di origine. Invocava quindi in via principale il riconoscimento della tutela sussidiaria ed in subordine di quella umanitaria. Avverso l’ordinanza di rigetto emessa dal Tribunale di L’Aquila il ricorrente proponeva appello, censurando il provvedimento di primo grado limitatamente alla mancata concessione della protezione sussidiaria ed umanitaria, nonché denunziandone l’eccesso di motivazione per avere il Tribunale pronunciato anche sullo status di rifugiato, pur in assenza di domanda sul punto. Con la sentenza oggi impugnata, n. 2558/2018, la Corte di Appello di L’Aquila respingeva l’impugnazione. Propone ricorso per la cassazione della decisione di rigetto D.S. affidandosi a due motivi. Resiste con controricorso il Ministero dell’Interno. Ragioni della decisione Con il primo motivo il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8 e D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. da 2 a 6 e art. 14, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, perché la Corte di Appello avrebbe erroneamente rigettato la domanda di protezione sussidiaria, ritenendo che il richiedente avesse deciso di abbandonare il Bangladesh per motivazioni esclusivamente economiche. La censura è infondata. La condizione generale del Paese di provenienza del richiedente la protezione, rilevante non soltanto nell’ambito della valutazione della sussistenza dei presupposti per la concessione della protezione sussidiaria, ma anche ai fini del riconoscimento della tutela umanitaria, è infatti stata apprezzata adeguatamente dalla Corte territoriale. La decisione impugnata dà atto che le fonti privilegiate consultate dal giudice di merito informazioni generali sul Bangladesh pubblicate sul sito dell’E.A.S.O. e rapporti Amnesty International 2015-2016 e 2016-2017 confermano l’esistenza, in Bangladesh, di pratiche diffuse di violazione dei diritti umani tra cui arresti arbitrari, sparizioni forzate, uccisioni illegali, torture ed altri maltrattamenti in danno degli attivisti di partiti dell’opposizione e di dissidenti, in un quadro di forte compressione anche della libertà di espressione e di pressante controllo degli organi di informazione indipendenti. Nel paese è ancora praticata la pena di morte, molte persone 198 nell’anno 2015 ed alcune decine nell’anno 2016 sono state condannate a morte ed alcuni condannati sono stati giustiziati. Diffusi sono inoltre la tortura ed altri maltrattamenti in custodia. Quanto alla situazione di insicurezza derivante da disordini ed attentati, negli ultimi anni vi sono stati nelle città del Bangladesh vittime e feriti durante attacchi con bombe molotov diretti contro autobus con passeggeri ed altri mezzi di trasporto, nel contesto di campagne contro il governo condotte dal partito nazionalista del Bangladesh XXX nei mesi di OMISSIS aggressioni ai danni di cittadini stranieri da parte di assalitori non identificati attacchi mirati in parte attribuibili a gruppi che sostengono di agire in nome dell’Islam rivolti contro cittadini stranieri, attivisti politici, persone omosessuali e minoranze religiose azioni che hanno provocato una dura reazione antiterrorismo delle forze di sicurezza interne, tanto che almeno 45 sospetti terroristi hanno perso la vita in sparatorie cfr. pag. 3 e 4 della sentenza impugnata . Da tali elementi la Corte di Appello ha tratto la conclusione che Si tratta, dunque, di una situazione che espone a rischio concreto ed effettivo l’incolumità e le libertà di determinate categorie di persone oppositori politici, giornalisti, blogger, studenti, operatori umanitari e stranieri in genere , a nessuna delle quali appartiene l’odierno appellante e che, ove anche vi si ravvisi un conflitto armato, non ha, almeno sino ad oggi, determinato un grado di violenza indiscriminata tale da mettere a repentaglio la vita o la persona di chiunque si trovi attualmente nel territorio del Bangladesh cfr. ancora pag. 4 della sentenza di appello . In tal modo la Corte abruzzese ha valutato i due profili di rischio evidenziati dalle fonti consultate, ed in particolare quello specificamente riferito a determinate categorie soggettive e quello generale esistente nel Paese, ed ha ritenuto il primo irrilevante a fronte della non appartenenza del richiedente la protezione ad una delle categorie a rischio, ed il secondo inidoneo a raggiungere il livello previsto ai fini del riconoscimento della protezione di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c . Detta duplice valutazione, che si sostanzia in un giudizio di merito e non è inficiata da illogicità manifeste o da irriducibili contrasti logici, è sottratta al sindacato di questa Corte. Con il secondo motivo il ricorrente lamenta la violazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 19 e D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, perché la Corte aquilana avrebbe erroneamente negato anche la sussistenza dei presupposti per la concessione della tutela umanitaria, senza peraltro tener conto della situazione interna della Libia, Paese nel quale il richiedente aveva vissuto e lavorato per oltre due anni prima di imbarcarsi per l’Italia. La censura è infondata. Il D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, prevede che Ciascuna domanda è esaminata alla luce di informazioni precise e aggiornate circa la situazione generale esistente nel Paese di origine dei richiedenti asilo e, ove occorra, dei Paesi per cui questi sono transitati . La locuzione ove occorra implica che la valutazione della condizione del Paese di transito sia necessaria ogni qualvolta il richiedente dimostri, o anche soltanto alleghi, un radicamento in quel Paese ovvero una permanenza temporalmente idonea a costituire la presunzione di esistenza di un collegamento tra lo straniero e il predetto Paese di transito. Occorre tuttavia che il richiedente, nell’ambito del suo dovere generale di circostanziare per quanto possibile l’istanza di protezione internazionale, indichi in modo preciso i motivi per cui il Paese di transito dev’essere considerato ai fini della concessione della tutela invocata, o valorizzando il suo radicamento in detto Paese, o comunque l’ampiezza del periodo di tempo ivi trascorso e le esperienze di vita vissute, o ancora indicando le violenze cui sia stato colà esposto e le conseguenze negative che da esse abbia ricevuto. Detto principio si ricava, a contrario, da Cass. Sez. 6-1, Ordinanza n. 29875 del 20/11/2018, Rv. 651868, secondo la quale Nella domanda di protezione internazionale, l’allegazione da parte del richiedente che in un Paese di transito nella specie la Libia si consumi un’ampia violazione dei diritti umani, senza evidenziare quale connessione vi sia tra il transito attraverso quel Paese ed il contenuto della domanda, costituisce circostanza irrilevante ai fini della decisione . Va pertanto ribadito il principio per cui non può disporsi l’espulsione e deve provvedersi all’accoglienza del richiedente che si trovi in condizioni di vulnerabilità, da valutare caso per caso, anche considerando le violenze subite nel Paese di transito e di temporanea permanenza del richiedente asilo, potenzialmente idonee, quali eventi in grado di ingenerare un forte grado di traumaticità, ad incidere sulla condizione di vulnerabilità della persona Cass. Sez. 1, Ordinanza n. 13096 del 15/05/2019, Rv. 653885 nella specie, si trattava di ripetute violenze sessuali subite da una cittadina nigeriana nella sua biennale permanenza in Libia . Poiché nel caso di specie il ricorrente si è limitato ad indicare in modo generico una sua permanenza in Libia per un certo periodo di tempo, il giudice di merito non era tenuto ad apprezzare anche la situazione concreta esistente nel Paese di transito, poiché il richiedente la protezione non aveva allegato di aver subito torture o maltrattamenti in quel territorio, nè l’esistenza di un collegamento tra la sua storia personale ed il predetto Paese. Ne consegue il rigetto del ricorso. Le spese, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza. Poiché il ricorrente è stato ammesso al beneficio del patrocinio a spese dello Stato, non sussistono i presupposti per il versamento, ai sensi del Testo Unico di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello richiesto per la stessa impugnazione, salvo revoca del beneficio. P.Q.M. la Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento in favore del Ministero controricorrente delle spese del presente giudizio di legittimità, che liquida in Euro 2.100 oltre spese prenotate a debito.