Cessione del credito e rispetto della privacy: la comunicazione dei dati personali è lecita purché rispetti il principio di minimizzazione

Il trattamento dei dati personali effettuato nell’ambito dell’attività di recupero crediti è lecito purché avvenga nel rispetto del principio di minimizzazione dovendo essere utilizzati solo i dati indispensabili, pertinenti e limitati a quanto necessario per il perseguimento delle finalità per cui sono raccolti potendo essere comunicate informazioni riguardanti il debitore persona fisica funzionali alla cessione del credito, quali la situazione debitoria e l’ubicazione dell’immobile.

Così la Cassazione con ordinanza n. 34113/19, depositata il 19 dicembre. La vicenda. Il Tribunale di Napoli condannava un istituto di credito al pagamento in favore della signora M. della somma di 254.960 euro a titolo di responsabilità precontrattuale ascritta alla Banca in occasione delle trattative intraprese con l’attrice finalizzate alla conclusione di una transazione, oltre al risarcimento dei danni quantificati nella somma di 5.000 euro per violazione della privacy. Veniva infatti ritenuto responsabile l’istituto di credito che, dopo aver pignorato l’immobile posto a garanzia del contratto di mutuo non adempiuto, cedeva il credito pro soluto per un importo inferiore all’offerta avanzata dalla debitrice. La Corte di Appello di Napoli, a cui ricorreva l’istituto di credito, accoglieva l’appello affermando, tra le altre statuizioni, che il pagamento di una somma inferiore a quella offerta trovava giustificazione nel versamento in un’unica soluzione a fronte di una proposta della debitrice di una dilazione in 24 mensilità e con rischi di insolvenza considerata l’ingente somma. In ordine alla dedotta violazione della legge sulla privacy, la Corte evidenziava come una volta eseguito il pignoramento immobiliare la vicenda debitoria inevitabilmente supererà gli stretti confini del rapporto debitore-creditore coinvolgendo tutti i soggetti interessati all’acquisto del bene pignorato. Il ricorso in Cassazione. La signora M. proponeva quindi ricorso in Cassazione avverso la sentenza della Corte d’Appello di Napoli. Sulla buona fede contrattuale. In particolare, lamentava, tra le altre questioni, l’omessa pronuncia da parte della Corte territoriale sulla legittimità del contegno tenuto dalla Banca che non aveva consentito la liberazione dell’obbligazione a parità di condizioni con il terzo cessionario acquirente del credito per una cifra inferiore a quella offerta dalla ricorrente. In sostanza questo comportamento era contrario alla buona fede non avendo la Banca tratto alcuna utilità dalla cessione del credito al terzo e, piuttosto, danneggiato il debitore consentendo al terzo di lucrare dall’operazione una somma di 254.960 euro. Il motivo è infondato per la Cassazione. Infatti, la somma offerta dalla acquirente del credito era sì inferiore a quella offerta dalla debitrice, tuttavia l’acquisto era avvenuto in un’unica soluzione a fronte di una offerta di pagamento dilazionato in 24 mesi. Sulla violazione della privacy. La ricorrente lamentava come la Banca avesse comunicato i propri dati, anche sensibili, a soggetti privati acquirenti di crediti”. Premesso che il motivo è ritenuto dalla Corte di Cassazione inammissibile in quanto generico perché la ricorrente non ha mai indicato quali dati sensibili fossero stati comunicati in violazione del principio di minimizzazione è comunque utile vedere quali osservazioni vengono argomentate dagli Ermellini. I Giudici osservano come il trattamento dei dati personali effettuato nell’ambito dell’attività di recupero crediti sia lecito purché avvenga nel rispetto del principio di minimizzazione dovendo essere utilizzati solo i dati indispensabili, pertinenti e limitati a quanto necessario per il perseguimento delle finalità per cui sono raccolti e trattati, principio ben espresso nel precedente art. 3, d.lgs. 196/2003 recante il titolo principio di necessità del trattamento dei dati” nonché dall’art. 11, lettera d, richiedente la pertinenza, la completezza e non eccedenza dei dati rispetto alle finalità per cui sono raccolti e trattati recentemente riaffermato con l’art. 5, lett. c , del regolamento 679/2016, GDPR . Su tali presupposti, la Corte di Cassazione ritiene che la Banca non sia incorsa nella violazione della legge sulla privacy solo perché abbia fornito a soggetti acquirenti del credito informazioni riguardanti la debitrice e funzionali alla cessione del credito, quali la situazione debitoria, ubicazione dell’immobile e altre informazioni salvo non venga fornita prova che la comunicazione a terzi sia avvenuta in violazione del principio di minimizzazione.

Corte di Cassazione, sez. I Civile, ordinanza 30 ottobre – 19 dicembre 2019, n. 34113 Presidente De Chiara – Relatore Fidanzia Fatti di causa Con sentenza n. 7605/2012, depositata il 26.6.2012, il Tribunale di Napoli ha condannato il Banco di Napoli s.p.a. al pagamento in favore di M.N.G. della somma di Euro 254.960,00, a titolo di responsabilità pre-contrattuale ascritta alla Banca in occasione delle trattative intraprese con l’attrice finalizzate alla conclusione di una transazione, oltre al risarcimento dei danni quantificati nella somma di Euro 5.000,00 per violazione della privacy. È stato ritenuto dal giudice di primo grado che l’istituto di credito, dopo aver pignorato l’immobile posto a garanzia del contratto di mutuo non adempiuto dall’attrice, nonostante le proposte via via migliorative presentate dalla M. , aveva ingiustificatamente ceduto il proprio credito pro soluto a tale V.A. ad una somma inferiore rispetto a quella offerta dalla stessa debitrice. La Corte d’Appello di Napoli, in riforma della sentenza di primo grado, ha accolto l’appello principale e rigettato l’appello incidentale della M. . Il giudice di secondo grado ha confutato la prospettazione della debitrice, secondo cui il cessionario del credito aveva versato alla Banca un anticipo del corrispettivo pattuito per la cessione in data OMISSIS , ovvero in epoca addirittura anteriore all’instaurazione delle trattative con la M. , osservando che si era trattato di un palese errore materiale presente nella scrittura privata autenticata di cessione del credito, come si evinceva dal rilievo che il relativo assegno era stato tratto, in realtà, in data 28.6.2007. Inoltre, è stato evidenziato nella sentenza impugnata che se era pur vero che la cessionaria aveva pagato una somma inferiore a quella offerta dalla debitrice, tuttavia, l’acquisto del credito era avvenuto in un’unica soluzione e non a fronte di un pagamento dilazionato di 24 mesi, come proposto dalla debitrice, nei cui confronti erano ben comprensibili dubbi di solvibilità, data l’ingente somma debitoria rimasta insoddisfatta. In ordine alla dedotta violazione della legge sulla privacy, il giudice d’appello ha evidenziato che, una volta eseguito il pignoramento immobiliare, è del tutto evidente che la vicenda debitoria travalichi gli stretti ambiti del rapporto debitore-creditore, coinvolgendo tutti i possibili soggetto interessati all’acquisto del bene staggito. Avverso la predetta sentenza ha proposto ricorso per cassazione M.N.G. affidandolo a tre motivi. Il Banco di Napoli s.p.a. si è costituito in giudizio con controricorso. Entrambe le parti hanno depositato le memorie ex art. 380 bis.1 c.p.c Ragioni della decisione 1. Con il primo motivo è stata dedotta la violazione e falsa applicazione dell’art. 116 c.p.c. e art. 2702 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Lamenta la ricorrente che la Corte d’Appello non ha riconosciuto l’efficacia probatoria privilegiata della scrittura privata autenticata per notaio L.O.R. e, in particolare, della dichiarazione in essa contenuta, proveniente dal Banco di Napoli, secondo cui il prezzo della cessione di credito era stato parzialmente corrisposto a mezzo di assegno bancario dell’importo di Euro 50.000,00, datato OMISSIS . Tale fatto era stato documentato con una prova avente valore legale e non poteva essere quindi disatteso dal giudice di secondo grado facendo ricorso alle presunzioni, con conseguente violazione dell’art. 116 c.p.c Peraltro, il giudice di secondo grado ha aderito acriticamente alla tesi del Banco di Napoli, che ha offerto come elemento di riscontro copie fotostatiche di un assegno non conformi, contestate tempestivamente e dettagliatamente. 2. Il motivo è infondato. Va preliminarmente osservato che, a norma dell’art. 2702 c.c., la scrittura privata autenticata o riconosciuta fa piena prova fino a querela di falso, della sola provenienza della stessa da chi ne appare come sottoscrittore, con la conseguenza che la fede privilegiata non si estende di certo anche alla veridicità delle dichiarazioni in essa rappresentate, sicché il contenuto di queste ultime può essere contestato dal sottoscrittore con ogni mezzo di prova, entro i limiti di ammissibilità propri di ciascuno di essi. Cass. n. 13321 del 30/06/2015 . Ne consegue che, nel caso di specie, la fede privilegiata non investe anche la dichiarazione, contenuta nella scrittura privata autenticata dal notaio, con cui il funzionario del Banco di Napoli ha riferito che il prezzo della cessione di credito di cui è causa era stato parzialmente corrisposto a mezzo di assegno bancario dell’importo di Euro 50.000,00, datato OMISSIS . Il contenuto di tale dichiarazione poteva essere confutato con ogni mezzo di prova. In proposito, il giudice d’appello, con un percorso argomentativo immune da vizi logici, ha evidenziato che la data del OMISSIS , riportata sulla scrittura privata autenticata, era frutto di mero errore materiale sulla base di elementi gravi, precisi e concordanti, rappresentati dalla copia dell’assegno bancario prodotta in atti che indicava come data di negoziazione del titolo, mediante stampigliatura meccanica, quella dell’11.7.2007 il che renderebbe estremamente improbabile un’emissione avvenuta oltre due anni prima nonché dalla copia di un estratto di conto corrente del soggetto emittente il titolo, da cui era risultato che l’addebito sul conto era avvenuto con valuta OMISSIS . È peraltro inammissibile la censura con cui la ricorrente ha evidenziato nel ricorso di aver contestato tempestivamente e in dettaglio la conformità all’originale dei documenti prodotti in copia in giudizio dalla controparte. Sul punto, dall’esame della sentenza impugnata emerge che il giudice d’appello non fatto alcun cenno al disconoscimento delle riproduzione meccaniche asseritamente effettuato dalla ricorrente a norma dell’art. 2712 c.c. e quindi ai profili giuridici conseguenti a tale dedotta contestazione . Orbene, essendo principio consolidato di questa Corte che i motivi del ricorso per cassazione devono investire, a pena di inammissibilità, questioni che siano già comprese nel thema decidendum del precedente grado del giudizio - non essendo prospettabili per la prima volta in sede di legittimità questioni nuove o nuovi temi di contestazione non trattati nella fase di merito, tranne che non si tratti di questioni rilevabili d’ufficio Cass., 17/01/2018, n. 907 Cass., 09/07/2013, n. 17041 - ne consegue che, ove nel ricorso per cassazione siano prospettate, come nel caso di specie, questioni di cui non vi sia cenno nella sentenza impugnata, è onere della parte ricorrente, al fine di evitarne una statuizione di inammissibilità per novità della censura, non solo di allegare l’avvenuta loro deduzione innanzi al giudice di merito, ma anche, in ossequio al principio di specificità del motivo, di indicare in quale atto del giudizio precedente lo abbia fatto, nonché il luogo e modo di deduzione, onde consentire alla S.C. di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione prima di esaminare il merito della suddetta questione Cass., 13/06/2018, n. 15430 . La ricorrente non ha assolto a tale onere di allegazione, limitandosi a sostenere di aver contestato tempestivamente la conformità delle copie agli originali, ma senza neppure dedurre di aver specificamente investito di tale questione il giudice d’appello. In ogni caso, è comunque principio consolidato di questa Corte che il disconoscimento della conformità di una copia fotostatica all’originale di una scrittura non ha gli stessi effetti del disconoscimento previsto dall’art. 215 c.p.c., comma 2. Infatti, mentre quest’ultimo, in mancanza di richiesta di verificazione e di esito positivo di questa, preclude l’utilizzazione della scrittura, il primo non impedisce che il giudice possa accertare la conformità all’originale anche attraverso altri mezzi di prova, comprese le presunzioni. Ne consegue che l’avvenuta produzione in giudizio della copia fotostatica di un documento, se impegna la parte contro la quale il documento è prodotto a prendere posizione sulla conformità della copia all’originale, tuttavia, non vincola il giudice all’avvenuto disconoscimento della riproduzione, potendo egli apprezzarne l’efficacia rappresentativa Cass. n. 12737 del 23/05/2018 . 3. Con il secondo motivo è stata dedotta la violazione e falsa applicazione degli dell’art. 132 c.p.c., n. 4, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, nonché la motivazione apparente . Lamenta la ricorrente che la sentenza impugnata è carente nell’esame delle circostanze dedotte con l’appello incidentale, non consentendo di comprendere le ragioni poste a fondamento della decisione. In particolare, è stato omesso ogni controllo e consequenziale motivazione in ordine alla sussistenza della buona fede della Banca nell’esercizio dell’autonomia contrattuale. In particolare, la Corte d’appello ha omesso di pronunciarsi sulla legittimità del contegno tenuto dalla Banca, la quale non aveva consentito la liberazione dell’obbligazione della sua debitrice a parità di condizioni con il terzo cessionario, il quale aveva acquistato il credito per una cifra addirittura inferiore a quella offerta dalla ricorrente. Si lamenta, in sostanza, l’apparenza della motivazione del giudice di secondo grado in ordine al dedotto abuso di diritto della Banca, che aveva posto in essere un comportamento contrario a buona fede, non avendo tratto alcuna utilità dalla cessione del credito al terzo, danneggiando il debitore e consentendo che il terzo lucrasse dall’operazione la somma di Euro 254.960,900. 4. Il motivo è infondato. Va osservato che, come già evidenziato nella parte narrativa, la sentenza impugnata, pur dando atto che la cessionaria aveva pagato una somma inferiore a quella offerta dalla debitrice, ha, tuttavia, precisato che l’acquisto del credito era avvenuto in un’unica soluzione, e non a fronte di un pagamento dilazionato di 24 mesi, come proposto dalla debitrice, nei cui confronti erano peraltro ben comprensibili dubbi di solvibilità, data l’ingente somma debitoria rimasta insoddisfatta. La Corte d’Appello ha, inoltre, evidenziato che dopo che l’istituto di credito, nel maggio 2006, rifiutò la proposta transattiva della M. prevedente una dilazione di pagamento in ben 24 rate mensili , quest’ultima contestò tale rifiuto e nessuna altra comunicazione intervenne tra le parti fino a quando, nel successivo luglio 2007 , la Banca cedette il proprio credito ad V.A. . Non vi è dubbio che un tale percorso argomentativo del giudice di secondo grado soddisfi pienamente il minimo costituzionale secondo i parametri elaborati da questa Corte a partire dalla sentenza delle S.U. n. 8053/2014. Dunque, il giudice di secondo grado, con un ragionamento assolutamente immune da vizi logici, ha indicato specificamente le ragioni per cui la Banca non è incorsa nella violazione dei principi di buona fede e correttezza nel rifiutare la proposta transattiva della debitrice. L’offerta da parte della M. di una somma leggermente superiore a quella di cessione 408.000,00 a fronte di 400.000,00 del corrispettivo pattuito con il terzo - non aumentata neppure in minima parte dopo l’immediato netto rifiuto dell’istituto di credito non era tale da dover indurre la Banca a preferire la debitrice nella definizione della pratica, in conseguenza della richiesta di dilazione di pagamento per un tempo assai prolungato da parte di un soggetto che già in passato non aveva onorato i propri impegni, maturando un’esposizione debitoria davvero ingente. Il giudice ha quindi indicato i motivi della convenienza economica dell’offerta formulata dal terzo, così confutando il dedotto abuso del diritto. 5. Con il terzo motivo è stata dedotta la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 196 del 2003, artt. 15 e segg Lamenta la ricorrente che vi è stata violazione della normativa sulla privacy al momento della cessione del credito della Banca ad un privato. In particolare, la Banca ha segnalato la debitrice a soggetti privati acquirenti di crediti fornendo loro dati sensibili in ordine alla persona del debitore, alla situazione debitoria e all’abitazione della debitrice 6. Il motivo è inammissibile per genericità. Va preliminarmente osservato che non vi è dubbio che il trattamento delle informazioni personali effettuato nell’ambito dell’attività di recupero crediti sia lecito purché, avvenga nel rispetto del criterio di minimizzazione nell’uso dei dati personali, dovendo essere utilizzati solo i dati indispensabili, pertinenti e limitati a quanto necessario per il perseguimento delle finalità per cui sono raccolti e trattati. Tale principio era ben espresso dal D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 3, recante il titolo principio di necessità nel trattamento dei dati , e dall’art. 11, lett. d legge cit., richiedente la pertinenza, la completezza e non eccedenza dei dati rispetto alle finalità per cui sono raccolti e trattati tali articoli sono stati recentemente abrogati a seguito dell’entrata in vigore del D.Lgs. 10 agosto 2018, n. 101 ed è stato recentemente riaffermato con l’entrata in vigore dell’art. 5, lett. c del regolamento Europeo sulla protezione dei dati personali 2016/679. Non può quindi ritenersi che la Banca sia incorsa nella violazione della legge sulla privacy solo perché abbia fornito ai soggetti acquirenti del credito informazioni riguardanti la debitrice funzionali alla cessione del credito, quali la situazione debitoria, ubicazione dell’immobile vincolato alla garanzia del credito, etc., ove non venga fornita prova che la comunicazione a terzi sia avvenuta in violazione del principio sopra enunciato di minimizzazione nell’uso dei dati personali . Nel caso di specie, la ricorrente lamenta la rivelazione da parte della Banca di dati c.d. sensibili concernenti la sua persona senza neppure avere indicato quali, nonostante che già nel giudizio di merito fosse suo preciso onere specificare i dati sensibili propalati in violazione del criterio della minimalizzazione nell’uso dei dati personali . La censura si appalesa quindi generica. Il rigetto del ricorso comporta la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali, che si liquidano come in dispositivo. P.Q.M. Rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali che liquida in Euro 12.200,00 di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese forfettarie nella misura del 15% ed accessori di legge. Dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello del ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.