La responsabilità processuale scaturente dalla proposizione della domanda infondata e dall’imprudente utilizzo di strumenti processuali

La responsabilità processuale aggravata, di cui al comma 2 dell’art. 96 c.p.c., si fonda su due presupposti l’infondatezza della domanda giudiziale e l’utilizzo di strumenti processuali, in violazione del canone di normale prudenza. L’accertamento di tale violazione presuppone che il giudice operi una valutazione ex ante del grado di consapevolezza che l’attore aveva, quando ha fatto ricorso agli strumenti di tutela processuale, della presumibile infondatezza della sua pretesa, rilevando, a tal fine, gli orientamenti giurisprudenziali esistenti, al momento della proposizione della domanda, gli eventuali esiti alterni delle fasi di merito e l’esito di eventuali istanze cautelari o di sospensione dell’esecutività della sentenza.

Questo è il principio affermato dalla Corte Suprema di Cassazione, sez. III Civile, con l’ordinanza n. 26515/17, depositata il 9 novembre 2017. Il fatto. L’origine della vicenda risiede nell’instaurazione, da parte degli acquirenti di un immobile, di un procedimento volto ad accertare l’illegittimità di un atto di frazionamento catastale, successivo ad una concessione in sanatoria e a costituire una servitù di passaggio. A tale pretesa si opponeva la società convenuta che, in via riconvenzionale, chiedeva l’accertamento, a carico degli attori, della responsabilità processuale aggravata, di cui al comma 2 dell’art. 96 c.p.c., con condanna al risarcimento dei danni derivanti dalla trascrizione della domanda giudiziale. In primo grado, il Tribunale accoglieva la domanda attorea, dichiarando costituita la servitù ed ordinando la trascrizione della sentenza al conservatore dei registri immobiliari. Tale pronuncia veniva impugnata innanzi alla Corte d’Appello, che la riformava completamente, accogliendo la domanda riconvenzionale della convenuta e condannando gli attori al risarcimento, ex art. 96, comma 2, c.p.c Avverso tale decisione, veniva proposto ricorso per Cassazione. I presupposti di questo tipo di responsabilità processuale aggravata. La Corte di Cassazione, con la pronuncia esaminata, ha inteso chiarire i presupposti della responsabilità processuale, disciplinata dal secondo comma dell’art. 96 c.p.c. e la differenza fra questo tipo di responsabilità e quella di cui al primo comma. Mentre in quest’ultimo caso, infatti, la responsabilità, a carico dell’attore, si configura solo ove esso abbia agito con dolo o colpa grave, nel caso contemplato dal secondo comma della citata norma, invece, la responsabilità dell’attore si fonda su un duplice presupposto la proposizione di una domanda oggettivamente infondata e la violazione dei canoni di normale prudenza, nell’ utilizzo di strumenti processuali. Non è sufficiente la sola infondatezza della domanda. Secondo la Suprema Corte, la proposizione in giudizio di una domanda infondata non è di per sé condizione sufficiente per configurare una responsabilità a carico dell’attore, perché altrimenti si finirebbe per sanzionare una condotta di per sé non censurabile l’aver agito in giudizio per far valere una pretesa, poi rivelatasi infondata. Quello che determina l’insorgere della responsabilità non è l’agire in giudizio in sé, ma piuttosto l’agire in giudizio che abbia provocato un danno ingiusto alla controparte. É quindi necessario che l’attore, oltre ad aver proposto una domanda giudiziale di cui venga accertata l’infondatezza, abbia anche imprudentemente fatto ricorso a strumenti di tutela giudiziaria, di per sé leciti, ma idonei ad incidere, in modo diretto e negativo, sulla sfera giuridica altrui e a pregiudicarne gli interessi. La Corte precisa il concetto facendo esplicito riferimento ai casi in cui, la proposizione di una domanda infondata è accompagnata dal ricorso, in violazione del canone di normale prudenza, all’esecuzione di un provvedimento cautelare, alla trascrizione di domanda giudiziale, all’iscrizione di ipoteca giudiziale oppure all’esecuzione forzata. L’accertamento della violazione del canone di prudenza. L’accertamento della violazione del suddetto canone presuppone che il giudice operi una valutazione prognostica del grado di consapevolezza che l’attore aveva, nel momento in cui ha fatto ricorso agli indicati strumenti di tutela processuale, della presumibile infondatezza della propria pretesa. Il giudice, in sostanza, deve valutare se l’attore, utilizzando la normale diligenza, poteva essere a conoscenza del fatto che le sue possibilità di successo, nel merito, fossero ridotte, cosa che avrebbe dovuto dissuaderlo sia dal proporre la domanda che dal far ricorso agli strumenti di tutela idonei ad arrecar danno ad altri. Tale valutazione dovrà tener conto di alcuni elementi gli orientamenti giurisprudenziali esistenti, al momento della proposizione della domanda, gli eventuali esiti alterni delle fasi di merito e l’esito di eventuali istanze cautelari o di sospensione dell’esecutività della sentenza.

Corte di Cassazione, sez. III Civile, ordinanza 21 giugno – 9 novembre 2017, n. 26515 Presidente Vivaldi – Relatore Rubino Ragioni in fatto e in diritto della decisione I coniugi G.S. e C.S. acquistarono nel 1988 dalla società Incarex Lipani s.p.a. una porzione individuata di un fabbricato, comprensiva di due posti auto scoperti nel cortile condominiale nonché di alcune parti comuni, tra le quali la quota di comproprietà del medesimo cortile. Nell’atto si faceva riferimento a due diversi elaborati planimetrici, ovvero ad una concessione in sanatoria riguardante i posti auto in cui figuravano 8 posti auto e ad un di poco successivo atto di frazionamento catastale anch’esso relativo ai posti auto in cui figuravano 12 posti auto . Non venivano allegate all’atto di acquisto le planimetrie relative alla concessione di variante in sanatoria e al frazionamento del mappale sul quale insistevano i posti auto. Gli acquirenti evocarono in giudizio la società venditrice sostenendo che l’atto di vendita fosse equivoco, in quanto in esso si faceva riferimento ad un atto di concessione di variante in base ai quale i posti auto avrebbero dovuto essere otto, ma poi anche all’atto di frazionamento in base al quale i posti auto erano stati aumentati a 12, con riduzione della parte comune chiedevano che si dichiarasse l’illegittimità del successivo frazionamento in 12 posti auto non rispettoso neppure delle norme urbanistiche, che imponevano una ampiezza minima di ciascun posto auto , che si accertasse che nell’area cortilizia dovessero essere individuati soltanto otto posti, mentre il resto era di proprietà comune, e che agli attori fosse riconosciuta la servitù di passaggio o di manovra nell’area occupata dai residui quattro posti, in realtà rientranti tra le parti comuni. La società convenuta si costituiva proponendo una domanda riconvenzionale di risarcimento danni derivanti dalla trascrizione della domanda giudiziale, ex art. 96 secondo comma c.p.c Il Tribunale di Bologna accoglieva la domanda degli attori, dichiarando costituita in loro favore la servitù di passaggio sui sub. 3,4 e 5 e ordinava la trascrizione della sentenza al conservatore dei registri immobiliari. La sentenza della Corte d’Appello di Bologna, qui impugnata, sovvertiva completamente l’esito del giudizio di primo grado, rigettando la domanda dei G. , ed accogliendo la riconvenzionale della società convenuta volta ad ottenere il risarcimento dei danni causati dalla trascrizione della domanda giudiziale, liquidando in favore della società venditrice un importo di oltre 50.000 Euro. C.S. G. , G.E. , G.T. e G.D. , tutti nella qualità di eredi di G.S. , e C.S. anche in proprio, propongono ricorso per cassazione articolato in due motivi nei confronti di Incarex Lipani s.p.a., avverso la sentenza n. 1448/2013, depositata dalla Corte d’Appello di Bologna il 22.8.2013. I ricorrenti impugnano solo il capo della sentenza che li ha condannati al risarcimento dei danni ex art. 96 secondo comma c.p.c., evidenziando che la sentenza d’appello li condanna al risarcimento del danno da responsabilità processuale aggravata correlando l’imprudenza nell’effettuare la trascrizione esclusivamente alla infondatezza della domanda principale. Resiste la Incarex Lipani s.p.a. con controricorso. La causa è stata avviata alla trattazione in adunanza camerale non partecipata in data 21.6.2017. La memoria dei ricorrenti è pervenuta in data 15 giugno 2016 e pertanto è tardiva, rispetto al termine di dieci giorni fissato dall’art. 380 bis 1 c.p.c Con il primo motivo, i ricorrenti denunciano la violazione e falsa applicazione dell’art. 96 c.p.c., nonché degli artt. 1362 e 1366 c.c Affermano i ricorrenti che per giustificare una condanna al risarcimento dei danni ex art. 96, secondo comma, c.p.c., è necessario un quid pluris rispetto al solo rigetto della domanda perché si possa fondatamente ritenere che la parte ha agito in giudizio senza la normale prudenza, cioè è necessario che essa emerga ictu oculi come infondata sulla base di una valutazione ex ante, posto che agire in giudizio per una pretesa che si rivela infondata è una condotta non sanzionabile in sé. Evidenziano che la domanda risarcitoria nei loro confronti è stata accolta in riferimento al disposto dell’art. 96, secondo comma c.p.c., e in particolare alla mancanza della normale prudenza nell’agire in giudizio, e che la corte ha stringatamente ed esclusivamente ricondotto tale mancata prudenza esclusivamente alla proposizione di una domanda risultata infondata ed alla trascrizione della domanda medesima. I ricorrenti segnalano che la motivazione della sentenza qualifica la loro tesi quantomeno ardita richiamando, dei due documenti ai quali fa riferimento l’atto di vendita pur non essendo stati allegati ad esso, soltanto il secondo, ovvero l’atto di frazionamento, nel quale era indicato chiaramente che l’area cortilizia scoperta dovesse suddividersi in dodici 12 posti auto, due dei quali venduti ai ricorrenti, e non anche il primo, sulla base del quale avevano fondato le loro argomentazioni. La sentenza implicitamente afferma che, sulla base dell’unico documento ritenuto rilevante tra quelli richiamati nell’atto di vendita, i ricorrenti non avrebbero potuto non essere consapevoli della infondatezza della loro tesi. Con il secondo motivo, i ricorrenti deducono l’omesso esame di un fatto controverso e decisivo della controversia, sottolineando che la corte d’appello non ha preso in considerazione l’irregolarità sotto il profilo urbanistico-edilizio della previsione di posti auto aggiuntivi inseriti nel piano di frazionamento, ritenendo che essa esaurisse la sua rilevanza sotto il profilo pubblicistico, mentre, sostengono i ricorrenti, essa inciderebbe anche sulla commerciabilità del bene e quindi il danno eventualmente subito dai venditori non sarebbe connesso alla sussistenza della trascrizione, ma piuttosto alla attività dagli stessi svolta, culminata nella realizzazione di beni non commerciabili . Il primo motivo è fondato e va accolto, con assorbimento del secondo. Va premesso che l’ipotesi in esame concerne il secondo comma dell’art. 96 c.p.c., che prevede la possibilità che la parte soccombente sia condannata al risarcimento del danno, dal giudice che abbia accertato l’infondatezza della domanda proposta, se ha agito in giudizio senza la normale prudenza, nelle ipotesi in cui alla proposizione della domanda giudiziale si associ il compimento di o che essa sia preceduta da altre attività processuali o accessorie, particolarmente invasive della sfera giuridica della controparte ed astrattamente idonee ad essere fonte di un pregiudizio patrimoniale la trascrizione della domanda, la esecuzione di un provvedimento cautelare, l’iscrizione di ipoteca giudiziale, l’intrapresa di una azione esecutiva. A fronte di queste attività particolarmente invasive della sfera giuridica della controparte e particolarmente idonee a recare danno, i presupposti per la configurazione di una responsabilità in capo all’attore sono diversi e più severi rispetto a quelli previsti dal primo comma, che assoggetta alla condanna risarcitoria l’attore che abbia agito in giudizio in mala fede o colpa grave non è richiesto l’aver agito con dolo o colpa grave, ma soltanto l’aver proposto una domanda oggettivamente infondata, e la proposizione di essa senza la normale prudenza. Costituisce consolidata affermazione della giurisprudenza di legittimità, sul tema della responsabilità da avventata proposizione della domanda giudiziale e dell’avventata trascrizione di essa e delle misure cautelari che In materia di responsabilità aggravata ex art. 96 c.p.c., ai fini della condanna al risarcimento dei danni, l’accertamento dei requisiti costituiti dall’aver agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave, ovvero dal difetto della normale prudenza, implica un apprezzamento di fatto non censurabile in sede di legittimità, salvo per i ricorsi proposti avverso sentenze depositate prima dell’11.9.2012 il controllo di sufficienza della motivazione. Nella specie, la S.C. ha ritenuto congruamente motivata la condanna per responsabilità aggravata del ricorrente che aveva sostenuto circostanze di fatto rivelatasi manifestamente infondate, aveva formulato domande di manleva nei confronti di soggetti palesemente estranei alla vicenda, ed aveva sostenuto tesi giuridiche non già semplicemente infondate, ma palesemente infondate Cass. n. 19298 del 2016 v. anche Cass. n. 3464 del 2017 . L’affermazione contenuta nella massima precedente secondo la quale costituisce giudizio in fatto verificare se la parte abbia agito con mala fede o colpa grave art. 96 primo comma c.p.c. o violato i canoni di comune prudenza per agire in giudizio art. 96 secondo comma c.p.c. , salvo il controllo sulla motivazione non preclude alla Corte, ed anzi implicitamente presuppone che la Corte stessa possa riempire di contenuto i presupposti per la valutazione del giudice di merito, in particolare definendo il contenuto del canone della comune prudenza nell’agire in giudizio, indicando al giudice di merito alcuni parametri che devono essere tenuti in conto ai fini del giudizio di fatto di sua competenza per poter ritenere legittimamente individuare, nel caso concreto, la violazione della regola di prudenza. In generale, la determinazione del contenuto delle clausole generali di comportamento, qual è la clausola dell’agire in giudizio facendo uso della normale prudenza, prevista dall’art. 96, secondo comma c.p.c., non è rimessa alla esclusiva, personale sensibilità del giudice di merito nella sua valutazione della fattispecie concreta, non sindacabile a meno che non incorra negli strettissimi limiti dell’attuale rilevanza del vizio di motivazione, ovvero se la motivazione non sia di fatto inesistente o così illogica da essere sostanzialmente inesistente, ma va effettuata alla stregua di determinati parametri che ne rendano verificabile la correttezza del ragionamento. Diversamente opinando, specie in un momento storico in cui il controllo di legittimità sulla motivazione è ristretto al minimo costituzionale, se non si ritiene di operare colmando a monte di significato il contenuto delle clausole generali, la loro interpretazione può essere tanto variabile quanto arbitraria. Occorre inoltre puntualizzare che, diversamente dalla ipotesi di cui all’art. 96 terzo comma c.p.c., che adesso prevede, per tutti i giudizi iniziati dal 4.7.2009 in poi, la possibilità di una condanna anche d’ufficio del soccombente in favore della parte vincitrice, di natura sanzionatoria v. in proposito Cass. n. 19285 del 2016 , l’ipotesi contemplata dal secondo comma dell’art. 96 c.p.c. è una fattispecie risarcitoria, tipica e ad istanza di parte. Le previsioni dell’art. 96 c.p.c. contemplano tutte le ipotesi di responsabilità per atti o comportamenti processuali, e dettano una disciplina avente carattere di specialità rispetto a quella generale della responsabilità per fatti illeciti, regolata dall’art. 2043 cod. civ., con la conseguenza che la responsabilità processuale aggravata, pur rientrando concettualmente nel genus della responsabilità aquiliana, ricade interamente, in tutte le sue ipotesi, sotto la predetta disciplina cfr. Cass., Sez. Un., 6 febbraio 1984, n. 874 Cass., Sez. I, 23 marzo 2004, n. 5734 Cass., Sez. III, 12 gennaio 1999, n. 253 in questo senso Cass. n. 23271 del 2016, a proposito dell’ipotesi, prevista dal medesimo comma, di responsabilità processuale per iscrizione di ipoteca giudiziale . Si tratta di fattispecie in cui un soggetto qualificato, l’attore, è chiamato a risarcire nei confronti di un terzo individuato, il convenuto, il danno eventualmente derivante dall’esercizio di una facoltà in sé oltre che lecita costituzionalmente protetta e garantita, ovvero dall’agire in giudizio. Va premesso, peraltro, che costituisce affermazione consolidata nella giurisprudenza di legittimità quella secondo la quale agire in giudizio per far valere una pretesa che si riveli infondata non è condotta in sé rimproverabile Cass. n. 21570 del 2012 . Ciò che viene indirettamente sanzionato con la tutela risarcitoria prevista dall’art. 96, primo e secondo comma, non è l’agire in giudizio in sé, ma l’agire in giudizio che abbia provocato a terzi un danno ingiusto. Il legislatore ha in particolare considerato, nell’ipotesi disciplinata dal secondo comma, che il pregiudizio può più facilmente verificarsi ove la proposizione della domanda sia associata all’utilizzo imprudente di mezzi di tutela giudiziaria in sé leciti ma particolarmente suscettibili, per la loro particolare idoneità ad incidere direttamente, e negativamente, sulla sfera giuridica dei terzi, a pregiudicare gli interessi altrui. Essa è connessa alle ipotesi in cui, oltre alla proposizione della domanda giudiziale, vi sia stata la esecuzione di un provvedimento cautelare, la trascrizione di una domanda giudiziale, l’iscrizione di ipoteca giudiziale oppure l’inizio dell’esecuzione forzata, e sanziona i casi in cui la facoltà di agire in giudizio sia stata utilizzata, facendo ricorso a questi strumenti, senza la normale prudenza. Nella previsione disciplinata dall’art. 96, secondo comma c.p.c., l’ipotesi risarcitoria è connessa al verificarsi di un danno per la parte in presenza di due presupposti la proposizione di una domanda giudiziale della quale sia stata accertata l’infondatezza, e l’utilizzo scevro della normale prudenza di uno degli strumenti processuali indicati, di per sé volti a tutelare, incrementare o ripristinare la garanzia patrimoniale dell’attore. Così tracciato, in generale, l’ambito di operatività dell’istituto, occorre procedere alla individuazione dei parametri di legittimo utilizzo. Il rigetto nel merito, all’esito del giudizio, della domanda, è il primo elemento della fattispecie, e come tale costituisce circostanza necessaria ma non sufficiente a giustificare una condanna ex art. 96 secondo comma c.p.c. in quanto esso non necessariamente si associa ad una valutazione di imprudenza nella proposizione della domanda. Ad esso deve necessariamente accompagnarsi, per arrivare ad una condanna al risarcimento del danno, la valutazione della imprudenza della parte, che si sostanzia in una valutazione prognostica ex ante, ovvero ponendosi nelle condizioni della parte nel momento in cui ha agito e considerando gli elementi a conoscenza della parte, o quelli che non avrebbe potuto ignorare usando l’ordinaria diligenza e quindi considerando se, al momento di agire, l’attore fosse a conoscenza che le sue possibilità di aver ragione nel merito erano significativamente ridotte, il che avrebbe dovuto renderlo maggiormente prudente nel proporre la domanda o eventualmente sconsigliarlo dal richiedere o azionare quel particolare tipo di tutela concessione di un provvedimento cautelare o altro che sapeva avrebbe prodotto un presumibile danno per il destinatario, a fronte di una incerta titolarità del diritto per il quale agiva. Quindi, ai fini della valutazione della imprudenza, occorre prendere in considerazione, oltre all’esito della lite, che in sé non è dato sufficientemente univoco diversamente opinando si verrebbe indirettamente a scoraggiare in sé la proposizione delle domande giudiziali , se la tesi giuridica proposta, all’epoca dell’introduzione della domanda, apparisse del tutto infondata o minoritaria, o anche se dalla stessa ricostruzione dei fatti offerta dall’attore emergesse la palese infondatezza della sua domanda. Un elemento estrinseco forte nel senso della palese infondatezza della domanda è costituito dalla c.d. doppia conforme, ovvero dal fatto che la domanda dell’attore sia stata conformemente rigettata all’esito del primo e poi anche del secondo grado del giudizio. L’esistenza di eventuali esiti alterni o difformi nei precedenti gradi di giudizio può essere invece considerato indice, di per sé, di una valutazione prognostica non univoca. Eventuali esiti altalenanti della causa, o eventuali valutazioni favorevoli all’attore nell’ambito di procedimenti incidentali quali il diniego di concessione della sospensione dell’esecutività della sentenza non possono non essere tenute in conto per valutare se chi agisce non ha usato la normale prudenza. In riferimento poi all’ipotesi specifica presa in considerazione nel caso di specie responsabilità aggravata scaturente dall’aver trascritto la domanda giudiziale, con gli inevitabili esiti limitativi per la normale circolabilità del bene che ciò comporta per la controparte , occorre verificare se si sia in presenza di una trascrizione legittima, o obbligatoria, o se la trascrizione sia stata effettuata, strumentalmente o meno, fuori dai casi consentiti o imposti dalla legge, in quanto in ciò può essere ravvisato un sensibile indice di violazione del canone di comune prudenza. Nel caso in esame la domanda era volta alla costituzione di una servitù di passaggio e la trascrizione era quindi obbligatoria, ai sensi dell’art. 2653 primo comma c.c. l’affermazione contenuta nella sentenza impugnata, secondo la quale la trascrizione della domanda non è un obbligo per la parte ma una facoltà al fine di trarne gli effetti favorevoli previsti dalle norme appunto in materia di trascrizione non è condivisibile laddove la legge impone, come nella specie, l’obbligo della trascrizione. In effetti, la trascrizione è necessaria non ai fini dell’ammissibilità della domanda, ma solo per l’opponibilità ai terzi dell’eventuale decisione favorevole. Deve però ritenersi che non sia esigibile, ai fini di evitare una valutazione di violazione del canone id normale prudenza, che l’attore nel proporre la domanda rinunci ad eseguirne la trascrizione ove prevista come obbligatoria ai fini della eventuale opponibilità ai terzi di una pronuncia positiva, perché in tal modo lo si verrebbe preventivamente a privare della possibilità di avvalersi un eventuale esito positivo del giudizio, non potendo opporre ai terzi interessati l’esito favorevole del procedimento e quindi a frustrare il successo di una eventuale iniziativa giudiziaria. Quindi, non costituisce elemento legittimamente apprezzabile ai fini della configurabilità di una responsabilità aggravata ex art. 96 secondo comma c.p.c. il fatto in sé della trascrizione della domanda giudiziale laddove la trascrizione stessa fosse prevista dalla legge come necessaria. Conclusivamente, il primo motivo di ricorso va accolto, in quanto il giudice di merito non ha adeguatamente tenuto in conto i parametri alla stregua dei quali deve accertarsi la violazione della regola di agire in giudizio con ragionevole prudenza. La sentenza impugnata è cassata e la causa rinviata alla Corte d’Appello di Bologna che provvederà nuovamente alla valutazione del merito, liquidando anche le spese del presente giudizio, attenendosi al seguente principio di diritto Ai fini della configurabilità della responsabilità processuale aggravata prevista dall’art. 96 secondo comma c.p.c. è necessario che siano accertate sia l’infondatezza della pretesa fatta valere in giudizio, sia la violazione del canone di normale prudenza nell’agire in giudizio, in relazione alla fattispecie concreta. Ai fini dell’affermazione di tale violazione, il giudice deve verificare, con valutazione ex ante, la consapevolezza dell’interessato della presumibile infondatezza della propria pretesa, dando rilievo, oltre che agli orientamenti giurisprudenziali esistenti al momento della proposizione della domanda, anche ad eventuali esiti alterni delle fasi di merito, e all’esito di eventuali istanze cautelari o volte alla sospensione dell’esecutività della sentenza. In caso di trascrizione della domanda giudiziale, deve accertare se la trascrizione sia stata effettuata fuori dai casi consentiti o imposti dalla legge, o se fosse consentita o obbligatoria, non potendosi considerare violazione dell’obbligo di agire con la normale prudenza l’esclusivo dato della avvenuta trascrizione della domanda giudiziale nel caso in cui essa sia imposta dalla legge allo scopo di rendere opponibile ai terzi l’esito positivo del giudizio . P.Q.M. Accoglie il primo motivo di ricorso, dichiara assorbito il secondo, cassa la sentenza impugnata in relazione e rinvia la causa alla Corte di Appello di Bologna in diversa composizione che deciderà anche sulle spese del presente giudizio.