Attività commerciale in ballo, accordo congelato e lungo contenzioso. Risarcimento alla compratrice per i mancati incassi

Salta la cessione di una tabaccheria, si apre la battaglia giudiziaria per il contratto. Alla fine i quasi quattro anni di stop vengono conteggiati nel quantum dei danni subiti dalla compratrice, pronta da subito a prendere possesso del negozio. Escluso, però, il periodo dell’esercizio provvisorio dell’attività esercitato dalla compratrice sufficienti gli introiti registrati.

Lunghe trattative per concludere la cessione di un’attività commerciale, trattative che, però, non arrivano a dama, e ‘bloccano’ la parte acquirente, pronta a prendere subito possesso del negozio. Conseguenze? Evidente il pregiudizio economico subito e legittimo il risarcimento danni, a carico della compratrice, da fissare, però, tenendo conto dell’esercizio provvisorio e dei relativi incassi Cassazione, ordinanza numero 5264, sezione Sesta Civile, depositata oggi . Tabacchi in stand by Primo step completato il contratto preliminare è definito. Secondo step ‘congelato’ nessun ufficializzazione del contratto definitivo. Oggetto della trattativa è una tabaccheria. A scatenare il contenzioso è una presunta interposizione fittizia, da parte dell’acquirente, denunciata dalla venditrice, che per questo chiede o la nullità del contratto preliminare o la risoluzione per inadempimento della compratrice. Ma, invece, è la compratrice a vedere riconosciuto il proprio diritto a un risarcimento per i danni subiti per la mancata stipula del contratto definitivo e per i potenziali incassi perduti. Quantum. Su questo punto, ovvero la ‘riparazione’ per la lesione economica subita dalla compratrice, concordano sia i giudici del Tribunale che quelli della Corte d’Appello, che divergono solo sulla cifra 40mila euro in primo grado, oltre 83mila in secondo grado. Da considerare acclarato, secondo i giudici, il pregiudizio economico per avere impedito alla compratrice di iniziare a svolgere la propria attività lavorativa , alla luce della imposibilità di gestire l’azienda per quarantacinque mesi . Anche se, viene sottolineato, il periodo preso in esame va ridotto di undici mesi, in considerazione del fatto che la compratrice aveva avuto in gestione provvisoria l’esercizio commerciale, facendo propri i ricavi da esso derivanti, a seguito dell’accoglimento del ricorso per sequestro giudiziario . Tutto ciò, comunque, senza affidarsi alla valutazione di un consulente tecnico. Ma è proprio questa ‘limitazione’ ad accendere ulteriormente la battaglia giudiziaria Riconteggio? Difatti, è la compratrice danneggiata a presentare ricorso per cassazione, contestando il quantum stabilito per il risarcimento. Inaccettabile, innanzitutto, secondo la ricorrente, non tener conto delle conclusioni del consulente di parte , il quale aveva affermato che il reddito medio mensile, ricavabile dall’esercizio commerciale, avrebbe potuto quantificarsi in euro 8.780 e non 2.500 euro come da sentenza. Allo stesso tempo, viene criticato anche il range temporale valutato dai giudici, perché ignorato il periodo relativo all’ esercizio provisorio in cui avrebbe percepito minori redditi . Nell’ottica della ricorrente, sarebbe stato molto più sensato ricorrere ad una consulenza tecnica, per fare chiarezza. La visuale dei giudici, però, è completamente diversa. Difatti, viene considerata legittima la scelta di non ricorrere ad una consulenza d’ufficio sulla redditività dell’esercizio commerciale . Perché gli elementi di fatto a disposizione, come ricavi effettivamente tratti dall’attività commerciale in relazione alle spese e agli esborsi sostenuti , offrono una chiave di lettura chiarissima. Legittima, quindi, la decisione pronunciata in Appello, dove è stato riconosciuto sì il risarcimento del danno alla compratrice, ma non tenendo conto dei mesi di esercizio provvisorio.

Corte di Cassazione, sez. VI Civile, ordinanza 2 marzo – 2 aprile 2012, n. 5264 Presidente Goldoni – Relatore Bianchini In fatto e diritto Rilevato che il consigliere designato ha ritenuto d’avviare la trattazione del ricorso in Camera di consiglio sulla base della relazione appresso riportata I.F. citò innanzi al Tribunale di Savona F.Z. e A.C. consorte della seconda ma non partecipe alle trattative negoziali che invece avevano interessato il convivente della Z., L.G., indi chiamato in giudizio chiedendo che fosse accertata e dichiarata la nullità per interposizione fittizia - dapprima del C. e, poi, scopertosi l’equivoco nell’identificazione dell’accompagnatore della convenuta, del G., in luogo della formale stipulante Z. - il contratto preliminare - stipulato il 27 luglio 2006 - di cessione dell’azienda commerciale adibita a tabaccheria sita in Albissola in subordine chiese che il contratto venisse risolto per inadempimento della promissaria acquirente per non aver quest’ultima versato parte del prezzo le parti convenute resisterebbero alla domanda. La Z. iniziò autonomo giudizio al fine di far emettere sentenza che tenesse luogo del contratto definitivo non stipulato e perché controparte fosse condannata al risarcimento dei danni. L’adito Tribunale, riuniti i giudizi - per quello che ancora interessa al fine della presente relazione - respinse le domande della F. ed emise pronunzia ex art 2932 cod. civ., condannando la F. medesima al risarcimento dei danni, nella misura di euro 40.000. La Corte di Appello di Genova, pronunziando il 1°/23 grugno 2010 sentenza n. 788/2010 - per la parte di residuo interesse in questa sede - quantificò in euro 83.750,00 il danno sofferito dalla Z., condannando la F. al relativo pagamento in particolare ritenne la Corte distrettuale che l’inadempimento della promittente venditrice avrebbe cagionato a controporre un pregiudizio economico consistito nell’averle impedito di iniziare a svolgere la propria attività lavorativa sin dal settembre 2006, con la conseguente impossibilità di gestire l’azienda per 45 mesi sino cioè alla pubblicazione della sentenza di secondo grado , pur riducendo di undici mesi siffatto periodo, in considerazione che la stessa Z. aveva avuto in gestione provvisoria l’esercizio commerciale - facendo propri i ricavi da esso derivanti – a seguito dell’accoglimento del ricorso per sequestro giudiziario autorizzato il 30 agosto 2006 e della concessione in affitto della tabaccheria da parte del custode giudiziario nel giugno 2007, sino al 16 maggio 2008, data della pubblicazione della sentenza di primo grado. Ritenne poi il giudice di appello che per la quantificazione del danno non sarebbe stato necessario il ricorso all’opera - pur richiesta - di un consulente tecnico, essendo già presenti in atti sufficienti elementi al fine di pervenire ad una valutazione equitativa. Per la cessazione di tale statuizione, ritenuta riduttiva rispetto all’effettivo pregiudizio subito, la Z. ha proposto ricorso, articolato in due motivi la F. ha resistito con controricorso. I - Con il primo motivo la ricorrente assume che la Corte territoriale sarebbe incorsa in una violazione e falsa applicazione dell’art. 116, comma II, cpc, in relazione al vizio illustrato dell’art. 360, I comma, n. 3 cpc, dal momento che non avrebbe valutato la domanda risarcitoria nella sua completezza né avrebbe tenuto conto dei documenti allegati e delle emergenze di causa in particolare la ricorrente si duole della non condivisione da parte della Corte genovese delle conclusioni del consulente di parte che, nella propria relazione, aveva affermato che il reddito medio mensile ricavabile dall’escrcizio commerciale avrebbe potuto quantificarsi in euro 8.780,00 in luogo di quello di euro 2.500,00 indicato in sentenza. I/a – Sotto diverso ma concorrente profilo la ricorrente censura anche l’ambito temporale della perdita reddituale, non condividendo il mancato computo del periodo in cui avrebbe percepito, in sede di esercizio provvisorio, minori redditi giugno 2007-marzo 2008 , come pure il periodo intercorrente tra la fine dell’esercizio provvisorio alla data di pubblicazione della sentenza di primo grado. II - Con il secondo motivo la Z. deduce che la Cotre genovese sarebbe incorsa in un vizio di insufficiente e contradditoria motivazione, ponendo a base della propria decisione criteri - quale quello della necessità di non far prolungare oltremodo il giudizio, quindi non ammettendo la richiesta consulenza tecnica – che avrebbero resa incompleta la motivazione. III - I due motivi vanno esaminati in modo unitario, in quanto concernono due censure logicamente connesse. III/a - Il convincimento del relatore che il primo motivo non sfugga alla censura di inammissibilità, atteso che la violazione o falsa applicazione dell’art. 116 cpc si configura solo allorquando il giudice abbia posto a base del suo convincimento fatti non dedotti dalle parti od abbia ritenuto esistente un fatto notorio senza che ve ne fossero gli estremi diversamente, la scelta di scegliere un mezzo di prova piuttosto che un altro o di dar ingresso, o negarlo, a richieste istruttorie, non è sussumibile nel vizio in esame ma, semmai, in quello attinente alla motivazione. III/b – Per quanto riguarda la censura attinente alla motivazione del diniego di effettuazione una consulenza tecnica contabile, la stessa, del pari, non rispetta i parametri imposti dall’art. 360, I comma, n. 5 cpc dal momento che v. Cass. 9 dicembre 1996, n. 10938, e Cass. 9 maggio 2002, n. 6641 la mancata nomina di un consulente tecnico di ufficio, regolarmente sollecitata dalla parte, è censurabile in cassazione sotto il profilo della omessa od insufficiente motivazione su un punto decisivo della controversia solo quando la consulenza sia l’unico possibile mezzo di accertamento di un fatto determinante per la decisione, a condizione, in ogni caso, che sussistano i presupposti per disporla e che, inoltre, l’esito dell’accertamento peritale sia idoneo ad incidere sulla risoluzione della controversia. III/c - Nel caso oggetto di censura occorre evidenziare che non viene chiarito in alcun modo perché la Corte avrebbe fatto cattivo uso dei suoi poteri delibativi nel non ammettere la consulenza di ufficio sulla redditività dell’esercizio commerciale, tenuto conto che compido dell’ausiliare è quello di fornire al giudicante un apporto di cognizioni tecniche per la soluzione della controversia e non già quello di ricercare gli elementi di fatto nella specie ricavi effettivamente tratti dall’attività commerciale durante i 45 mesi dell’esercizio messi in relazione alle spese e degli esborsi, anche per sanzioni amministrative, sostenute nello stesso periodo necessari ad esprimere un giudizio sulla perdita reddituale. III/d – Da ciò emerge la sostenibilità logica della mancata nomina del consulente tecnico, attesa l’articolata motivazione punto i della ricordata sentenza posta dalla Corte territoriale a giustificazione della ritenuta sufficienza valutativa degli elementi di fatto già esistenti”. Rilevato che la memoria illustrativa della parte ricorrente datata 23 gennaio 2012, non apporta elementi di valutazione diversi da quelli evidenziati nel ricorso ed esaminati nella relazione sopra riportata, né svolge specifiche critiche alle argomentazioni in essa svolte Ritenuta la condivisibilità della relazione e delle conclusioni in essa contenute che determina il rigetto del ricorso e la condanna della ricorrente al pagamento delle spese del presente procedimento, liquidate come esposto in dispositivo, tenuto conto del valore della causa, della relativa difficoltà interpretativa della medesima e delle parzialmente divergenti decisioni a cui erano pervenuti i giudici di merito. P.Q.M. La Corte di Cassazione rígetta il ricorso e condanna parte ricorrente al pagamento delle spese di liquida in € 3.200,00 di cui € 200,00 per esborsi, oltre IVA, CAP e spese generali come per legge.