11 trasfusioni con sangue infetto, e poi la morte. L'ospedale è responsabile

Configura una condotta omissiva colposa del personale sanitario il mancato controllo sul sangue utilizzato durante gli interventi, rivelatosi poi infetto.

di Attilio Ievolella Ricovero in ospedale e undici trasfusioni per affrontare una emergenza medica estrema. Con sangue rivelatosi infetto, purtroppo. E con conseguenze drammatiche infezione da 'epatite C', epatite cronica, cirrosi epatica e anemia emolitica. Poi la morte. La tragedia si abbatte su una intera famiglia, che perde marito e padre una tragedia cominciata a metà degli anni '80 e conclusa solo a marzo del 1994. Logico il dolore, consequenziale il desiderio di conoscere le responsabilità per la morte della persona cara, mettendo sotto accusa il Ministero della Sanità e la struttura che ha ospitato l'uomo. Il dolore senza risposte. La battaglia giudiziaria, però, non è affatto semplice. La richiesta di risarcimento avanzata dalla famiglia viene respinta sia dal Tribunale che dalla Corte d'Appello. Quest'ultima, in particolare, aveva affermato che era necessario prendere atto che nessuna precauzione era adottabile nel contesto scientifico ed operativo in cui la fattispecie si collocava, onde di nessuna cautela in concreto può essere ad alcuno addebitata l'omissione e che era priva di significato concreto l'affermazione dell'obbligo per l'ente ospedaliero di tutelare il fondamentale diritto dell'individuo alla propria salute ponendo in essere tutte le cautele e le misure precauzionali conosciute dalla scienza . Tutto ciò anche tenendo presente la consulenza tecnica d'ufficio. Per la famiglia, coinvolta, suo malgrado, in questa vicenda, l'unica soluzione è, secondo la Corte d'Appello, accettare il destino, piuttosto che provare a cercare responsabili e responsabilità . Battaglia a tutto campo. L'opzione possibile, invece, per la famiglia, è quella di proseguire nella propria battaglia. Come? Scegliendo di arrivare sino a Roma, sino alla Corte di Cassazione, per provare a rimettere in discussione la questione e per vedere riconosciuto il proprio desiderio di verità e di chiarezza. Così, ai giudici di piazza Cavour vengono posti quesiti rilevanti, che mirano a minare la pronuncia dell'appello. E il nodo principale, quello da cui far partire, a catena, la rivisitazione della vicenda, è quello temporale Ante e post 1990 nessuna differenza. Secondo il 'Palazzaccio' non è ipotizzabile pensare che prima della normativa introdotta dal Ministero della Sanità, datata 21 luglio 1990, non si possano individuare responsabilità per eventi come quello che è argomento in questo caso. Per la Corte d'Appello all'epoca dei fatti, non solo non erano previsti controlli obbligatori sugli emoderivati, al fine di prevenire il contagio da epatite Hcv , introdotto solo da luglio 1990, ma non era ancora avvenuta nemmeno la individuazione, dal punto di vista sierologico, del virus responsabile dell'epatite C . Quindi, non può risultare accertata la sussistenza di estremi di devianza, da parte del personale sanitario operante, dai criteri di diligenza, prudenza e perizia . Di tenore completamente diverso, invece, il pensiero dei giudici di piazza Cavour. Innanzitutto, sul fronte delle patologie conseguite a causa di assunzione di emotrasfusioni o di emoderivati con sangue infetto, esiste un unico evento lesivo, cioè la lesione dell'integrità fisica in conseguenza dell'assunzione di sangue infetto , e quindi la responsabilità del Ministero esiste anche per il contagio degli altri due virus, che costituiscono forme di manifestazioni patogene dello stesso evento lesivo . Poi, in secondo luogo, la responsabilità extracontrattuale del Ministero, in ordine ai compiti di controllo, direzione e vigilanza, non esclude affatto quella a carico della struttura e dei medici . A quest'ultimo proposito, non può escludersi la mancanza di diligenza da parte del personale sanitario che ha dato luogo a dette trasfusioni ante 1990 , perché esiste la rilevante circostanza che, indipendentemente dalla specifica conoscenza sulla base dei dati scientifici dell'epoca , del virus Hcv, ben poteva, detto personale, sulla base di più datati parametri scientifici, rilevare comunque la non idoneità del sangue ad essere oggetto di trasfusione . Esiste, quindi, secondo la Cassazione, un comportamento omissivo colposo, già anteriormente alla legge numero 107 del 1990 avente ad oggetto la disciplina delle attività trasfusionali in ordine al dovere istituzionale in forza di varie fonti normative di direzione, autorizzazione e sorveglianza sul sangue importato, al fine dell'accertamento che il sangue immesso nel circuito delle emotrasfusioni e in quello della produzione di emoderivati fosse infetto . E, allargando il discorso, anche prima dell'entrata in vigore della legge numero 107 del 1990, doveva esistere un obbligo di controllo e di vigilanza in materia di sangue umano , obbligo a carico del Ministero della Sanità , alla luce di precise e dettagliate disposizioni normative in materia di sangue umano e del relativo uso terapeutico e alla luce di una semplice considerazione la raccolta, il frazionamento e la distribuzione del sangue umano costituivano materia di interesse nazionale . Danni e responsabilità da definire concretamente. Scontato il passaggio conclusivo delle valutazioni espresse dalla Corte di Cassazione, che rimette in gioco completamente la pronunzia della Corte d'Appello. A quest'ultima, difatti, viene affidato, dai giudici di piazza Cavour, il compito delicato di valutare la responsabilità del personale che eseguì le trasfusioni e di prendere attentamente in considerazione le domande risarcitorie avanzate dalla famiglia. Sempre tenendo ben in mente che non si può soltanto prendere come riferimento quanto stabilito legislativamente nel 1990 e che sussiste la configurabilità di una condotta omissiva colposa quale causa dei danni inferti alla salute del paziente .