Il credito IVA del professionista non è un credito di massa

di Elisa Ceccarelli

di Elisa Ceccarelli * La fattispecie. Uno studio legale vede ammettere due propri crediti allo stato passivo in via chirografaria un determinato importo oltre IVA e 2% sul riparto ed in via privilegiata una somma a titolo di corrispettivo per prestazioni professionali rese in favore della società poi fallita. Con successivo ricorso, rigettato dal Tribunale e dalla Corte d'appello, lo studio chiede di essere ammesso al passivo in prededuzione per un ulteriore importo a titolo di rivalsa dell'IVA sulla somma ricevuta in esecuzione del piano di riparto. In tale occasione la Corte d'appello chiarisce come il credito IVA non possa essere definito come credito di massa bensì come accessorio del debito assunto dal fallito per il quale l'art. 2758 c.c. accorda solo il privilegio speciale su determinati beni . Esclude altresì la Corte di merito che la partecipazione del credito al concorso possa produrre un ingiustificato arricchimento della massa dei creditori a danno di uno ed infine, osserva come la fonte dell'obbligazione non possa essere individuata nel pagamento ai sensi dell'art. 6 del D.P.R. 26 ottobre 1972 n. 633 in quanto questa disposizione non modifica le regole del concorso in caso di fallimento. Il ricorso per cassazione si basa su 4 motivi. In primo luogo lo studio ricorrente contesta il momento, in termini temporali, in cui sorge il credito alla rivalsa dell'IVA. All'uopo si distingue tra il credito per prestazione professionali che viene ad esistenza nel momento di compimento dell'attività richiesta ed il credito IVA, il quale, invece, può essere vantato solo successivamente all'emissione della fattura, Questa discrasia temporale non permetterebbe al credito de quo di essere considerato rilevante prima di tale momento né di giudicare come inammissibile la domanda tardiva posta a seguito del riparto avendo essa causa petendi differente rispetto a quella presentata in precedenza. Con il secondo motivo il ricorrente contesta la mancata prededucibilità del credito IVA quale debito di massa. Con la registrazione della fattura emessa dal professionista il curatore compie un atto di amministrazione del fallimento il quale produce due effetti da un lato costituisce il fallito debitore d'IVA e dall'altro lo qualifica come creditore d'imposta nei confronti dello Stato. Per quanto concerne il terzo motivo il ricorrente lamenta l'affermazione della Corte d'appello secondo la quale la prededucibilità del credito IVA contrasta con la sua natura di credito privilegiato ai sensi dell'art. 2758 c c. La norma non avrebbe rilevanza poiché essa si limita ad elencare i crediti dello stato per tributi indiretti. Da ultimo il ricorrente esamina sia la posizione del professionista il quale è tenuto a versare l'IVA non riscossa che del fallimento il quale può compensare il relativo importo o chiederne il rimborso avvalendosi così di un credito non pagato. Ciò comporterebbe un significativo squilibrio a danno del professionista ed un ingiustificato arricchimento della massa a danno del singolo creditore. Il credito rientra nei cosiddetti crediti di massa? La Corte di Cassazione, con sentenza n. 8222 depositata l'11 aprile 2011 decide per l'infondatezza del ricorso. Ed infatti, la Corte d'appello si è correttamente uniformata all'orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità secondo il quale l'emissione di fattura in pendenza di fallimento non qualifica il credito IVA come di massa da soddisfare in prededuzione ma come credito assistito da privilegio ex art. 2758 c.c. La Suprema Corte, in proposito, ha avuto sovente occasione di affermare come un'affermazione contraria possa produrre l'anomalia di rendere il creditore arbitro della disciplina applicabile al credito di rivalsa. Anche la doglianza relativa alla dichiarazione tardiva del credito di rivalsa dell'IVA è da considerarsi infondata poiché essa non contiene una nuova causa petendi non avendo il ricorrente addotto ragioni sufficienti ad un nuovo esame delle questione. La Cassazione afferma in proposito che ove il credito relativo al compenso della prestazione professionale sia già stato ammesso al passivo l'emissione di fattura non da luogo a nuova causa petendi idonea a giustificare la dichiarazione tardiva del credito di rivalsa dell'IVA, laddove, come nella specie, quest'ultimo abbia costituito anch'esso oggetto della precedente istanza di ammissione al passivo. Anche il riferimento all'art. 6 del D.P.R. n. 633/1972 è privo di fondamento la ratio della norma è quella di individuare il momento in cui l'operazione può essere assoggettata ad imposta, nonché il momento in cui può essere emessa la fattura . Questo non produce un mutamento del soggetto nei confronti del quale deve essere emessa la fattura poiché il fatto produttivo del credito resta la prestazione professionale che si è conclusa prima del fallimento. Profili temporali e profili funzionali. Il credito IVA non può, secondo la Cassazione essere considerato come credito di massa e ciò perché il profilo determinante da prendere in considerazione non è quello temporale, bensì l'aspetto funzionale e cioè il riferimento a costi assunti nell'interesse dei creditori concorsuali per il conseguimento degli scopi dell'esecuzione collettiva restando necessariamente esclusi da tale nozione i crediti pur fatti valere nei confronti del fallimento che non siano sorti in occasione e per le finalità della procedura ma siano geneticamente riconducibili all'attività del fallito . In senso ampio dovrà trattarsi di crediti sorti nei confronti della gestione fallimentare come spesa o come credito di amministrazione o ancora, come credito inerente l'esercizio provvisorio dell'impresa. La Suprema Corte non manca di notare come l'acconsentire che il credito del professionista venga soddisfatto in prededuzione allorquando la fattura sia emessa ex post alla dichiarazione di fallimento produrrebbe una ingiustificata disparità di trattamento avuto riguardo all'anteriorità della prestazione professionale rispetto all'apertura del fallimento che costituisce il presupposto di fatto comune ad entrambe le situazioni . Per quanto riguarda, infine, il supposto vantaggio derivante al fallimento conseguente alla possibilità di portare in detrazione l'IVA la Cassazione inquadra l'operazione come il risultato del sistema di contabilizzazione dell'imposta e non come un ingiustificato arricchimento ai sensi dell'art. 2041 c.c. * Dottoranda di ricerca in diritto dell'economia nell'Università di Pisa

Corte di Cassazione, sez. I Civile, sentenza 3 febbraio - 11 aprile 2011, n. 8222 Presidente Proto - Relatore Mercolino Svolgimento del processo 1. - Nel fallimento della Co.Ve.S. - Cooperativa Vendita Stampa S.c.a.r.l. il Giudice delegato ammise al passivo un credito fatto valere dallo Studio Legale A. C. & C, in via chirografaria per l'importo di Lire 20.000.000 oltre IVA e 2% sul ripartito, ed in via privilegiata per l'importo di Lire 200.000.000. a titolo di corrispettivo per prestazioni professionali rese in favore della società poi fallita. A seguito dell'approvazione di un piano di riparto parziale, il curatore rimise al creditore la somma di Lire 200.000.000, a saldo del credito ammesso in via privilegiata. 2. - Con successivo ricorso ai sensi dell'art. 101 della legge fall., lo Studio Legale chiese di essere ammesso al passivo in prededuzione per l'ulteriore importo di Lire 40.800.000. a titolo di rivalsa dell'IVA sulla somma ricevuta in esecuzione del piano di riparto. 3. - La domanda fu rigettata dal Tribunale di Milano con sentenza del 20 settembre 2002, confermata dalla Corte d'Appello con sentenza del 18 aprile 2005. Premesso che la questione relativa alla collocazione del credito IVA era stata già definita con il provvedimento di ammissione al passivo, emesso a seguito di transazione intervenuta tra il creditore ed il curatore, la Corte ha escluso che il credito fosse pagabile in prededuzione quale debito di massa, non trattandosi di debito contratto dal curatore per l'amministrazione dei beni fallimentari o per spese di procedura, ma di un accessorio di un debito assunto dal fallito, per il quale l'art. 2758 c.c. accorda solo il privilegio speciale su determinati beni. Ha precisato al riguardo che la fonte dell'obbligazione non può essere individuata nel pagamento, ai sensi dell'art. 6 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, in quanto tale disposizione, volta ad agevolare le operazioni e gli accertamenti in sede fiscale, non altera il sistema civilistico dei privilegi né le regole del concorso in caso di fallimento. Ha infine escluso che l'assoggettamento del credito al concorso determini un ingiustificato arricchimento della massa dei creditori a danno di uno di essi, osservando che il fallimento acquisisce il credito verso l'Erario in virtù di un pagamento lecitamente eseguito, e che il sacrificio di singole posizioni è una possibilità insita nel sistema normativo concorsuale. 4. - Avverso la predetta sentenza propone ricorso per cassazione lo Studio Legale A. C. & C per quattro motivi illustrati anche con memoria. Il curatore del fallimento resiste con controricorso. Motivi della decisione 1. - Preliminarmente, va disattesa l'eccezione sollevata dalla difesa del fallimento, secondo cui il ricorso sarebbe inammissibile, al pari dell'appello, per inosservanza da parte del ricorrente del termine dimidiato previsto per le impugnazioni in sede fallimentare. I giudizi introdotti a seguito di dichiarazione tardiva di credito non costituiscono infatti, a differenza di quelli di opposizione allo stato passivo, lo sviluppo in sede contenziosa della precedente fase di verificazione e di accertamento dei crediti, ma presentano i caratteri del normale giudizio di cognizione, da istruirsi a norma degli artt. 175 e ss. cod. proc. civ. e soggetto, in quanto tale, ai principi del rito ordinario, anche con riferimento alle modalità ed ai termini per la proposizione delle impugnazioni rispetto ad essi, pertanto, non trova applicazione la riduzione dei termini prevista dall'art. 99 della legge fall. per i giudizi di opposizione allo stato passivo, trattandosi di norma eccezionale e quindi non estensibile a situazioni processuali diverse da quelle prese in considerazione dal legislatore cfr. Cass. sez. Lav. 2 marzo 2007, n. 4950 Cass., Sez. I, 22 gennaio 1999. n. 555 29 ottobre 1992. n. 11789 . 2. - Con il primo motivo d'impugnazione, il ricorrente denuncia la violazione e/o la falsa applicazione degli artt. 6, 21 e 74-bis del d.P.R. n. 633 del 1972. come modificati dall'art. 1 del d.P.R. 23 dicembre 1974, n. 687, nonché l'omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione della sentenza impugnata, nella parte in cui ha ritenuto che il credito relativo alla rivalsa dell'IVA dovuta sul compenso per prestazioni professionali sorga anteriormente alla dichiarazione di fallimento. Premesso infatti che, in caso di prestazione di servizi, mentre il credilo relativo al compenso sorge al momento del compimento della prestazione, quello relativo alla rivalsa dell'IVA sorge soltanto a seguito dell'emissione della fattura, os-serva che. in caso di fallimento del committente, tale adempimento può aver luogo solo contestualmente all'avvenuto riparto. Ne consegue da un lato che prima di tale momento il credito non può essere preso in considerazione ai fini dell'ammissione al passivo, dall'altro che, nella specie, la domanda di ammissione tardiva proposta a seguito del riparto non poteva considerarsi inammissibile, avendo una causa petendi diversa da quella proposta in precedenza. 3. - Con il secondo motivo, il ricorrente deduce la violazione c/o la falsa applicazione dell'art. 74-bis del d.P.R. n. 633 del 1972, come modificato dall'art. 1 del d.P.R. n. 687 del 1974. e dell'art. 111 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, nonché l'omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione della sentenza impugnata, nella parte in cui ha escluso che il credito relativo alla rivalsa dell'IVA fosse prededucibile quale debito di massa. Sostiene infatti che, attraverso la registrazione della fattura emessa dal professionista ed a lui intestata, il curatore costituisce il fallito debitore dell'IVA nei confronti di quest'ultimo e creditore dell'imposta nei confronti dello Stato, compiendo in tal modo un atto di amministrazione del fallimento, in virtù del quale diviene obbligato al versamento dell'IVA, che può successivamente compensare con quella da lui dovuta o della quale può chiedere il rimborso, ai sensi degli artt. 19 e 30 del d.P.R. n. 633 del 1972. 4. - Con il ter/.o motivo, il ricorrente lamenta la violazione e/o la falsa applicazione dell'art. 2758 cod. civ., nonché l'omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione della sentenza impugnata, nella parte in cui ha ritenuto che la prededucibilità del credito relativo alla rivalsa dell'IVA contrastasse con la sua natura di credilo privilegiato ai sensi dell'art. 2758 c. c Premesso che la natura privilegiata del credito non ne esclude la prededucibilità, ogni qualvolta esso maturi dopo il concorso nei confronti dell'amministrazione fallimentare, sostiene che l'art. 2758 non ha nulla a che vedere con tale problematica, in quanto si limita ad elencare i crediti dello Stato per tributi indiretti. Il credito relativo al compenso per prestazioni professionali è peraltro assistito dal privilegio di cui all'art. 2751-bis cod. civ., il quale trova fondamento nei principi costituzionali di tutela del lavoro e solidarietà sociale, incompatibili con la falcidia derivante dalla collocazione in chirografo del credito relativo alla rivalsa dell'IVA. 5. - Con il quarto ed ultimo motivo, il ricorrente denuncia la violazione e/o la falsa applicazione dell'art. 2041 cod. civ., nonché l'omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione della sentenza impugnata, nella parte in cui ha escluso la configurabilità di un ingiustificato arricchimento della massa a danno del singolo creditore. Osserva infatti che, mentre il professionista è tenuto a versare l'IVA non riscossa, il fallimento può compensare il relativo importo o comunque chiederne il rimborso, avvalendosi ingiustificatamente di un credito non pagato, con l'ulteriore conseguenza che l'imposta viene a gravare su un soggetto diverso da quello istituzionalmente obbligato. 6. - I motivi, da esaminarsi congiuntamente avuto riguardo all'unitarietà della questione cui l'anno riferimento, sono infondati. Nel rigettare la domanda di ammissione al passivo proposta dal ricorrente, la Corte d'Appello si è infatti conformata all'orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità in tema di rivalsa dell'IVA dovuta sul corrispettivo di prestazioni professionali rese in favore di un imprenditore poi dichiarato fallito, secondo cui. ove il professionista emetta la relativa fattura in costanza di fallimento, il credito non è qualificabile come credito di massa, da soddisfare in prededuzione, ma può giovarsi del solo privilegio speciale di cui all'art. 2758, secondo comma cod. civ. nel testo introdotto dall'art. 5 della legge n. 426 del 1975. che. compiutamente regolando la materia, ha abrogato la previsione di un privilegio generale contenuta nell'art. 1 del d.P.R. n. 687 del 1974 , purché sussistano beni, che il creditore ha l'onere di indicare nella domanda di ammissione al passivo, su cui possa esercitarsi la causa di prelazione cfr. Cass., Sez. 1, 12 giugno 2.008. n. 15690 29 ottobre 1998, n. 10799 1 giugno 1995, n. 6149 . In applicazione di tale principio, la Corte territoriale ha ritenuto che l'emissione della fattura non integrasse una nuova causa petendi, idonea a legittimare la dichiarazione tardiva del credito di rivalsa dell'IVA. la cui collocazione era stata già definita nell'ambito della transazione intervenuta tra il ricorrente ed il fallimento in un precedente giudizio di opposizione allo stato passivo avente ad oggetto il credito relativo al compenso professionale. La decisione merita conferma, essendo pacifico che il credito di cui e stata chiesta l'ammissione al passivo si riferisce ad una prestazione professionale resa in favore del fallito in epoca anteriore alla dichiarazione di fallimento, e non avendo il ricorrente addotto, a fondamento dell'impugnazione, ragioni sufficienti a giustificare una rimeditazione della questione. 6.1. - L'indirizzo citato trova fondamento nel rilievo per cui l'art. 6 del d.P.R. n. 633 del 1972, nel prevedere che le prestazioni di servizi si considerano effettuate all'atto del pagamento del corrispettivo, non pone una regola generale rilevante in ogni campo del diritto, ma si limita ad individuare il momento in cui l'operazione può essere assoggettata ad imposta, nonché il momento in cui può essere emessa la fattura. L'individuazione di tale momento non comporta d'altronde il mutamento del soggetto nei confronti del quale la fattura dev'essere emessa, ed a carico del quale sorge pertanto il credito di rivalsa, in quanto, dal punto di vista civilistico, l'evento generatore di tale credito rimane pur sempre la prestazione professionale conclusasi prima del fallimento. Ciò impedisce di qualificare il credito in questione come credito di massa, da soddisfare in prededuzione ai sensi dell'art. 111, primo comma, n. 1 della legge fall., nel testo, applicabile ratione temporis, anteriore alle modifiche introdotte dall'art. 99 del d.lgs. 9 gennaio 2006, n. 5 e dall'art. 8 del d.lgs. 12 settembre 2007. n. 169 , essendo a tal fine necessario che il credito sia sorto nei confronti della gestione fallimentare, come spesa o come credito di amministrazione, o ancora come credito inerente all'esercizio provvisorio dell'impresa. Ai fini dell'individuazione dei crediti di massa, infatti, il profilo determinante non è costituito dall'elemento temporale, ma da quello funzionale, e cioè dal loro riferimento a costi assunti nell'interesse dei creditori concorsuali per il conseguimento degli scopi dell'esecuzione collettiva, restando necessariamente esclusi da tale nozione i crediti, pur fatti valere nei confronti del fallimento, che non siano sorti in occasione e per le finalità della procedura, ma siano geneticamente riconducigli all'attività dei fallito cfr. Cass. Sez. 1, 2 febbraio 1995. n. 1227 . 6.2. - Non può quindi condividersi la dissociazione che il ricorrente pretende di introdurre ira la genesi del diritto al corrispettivo e quella del credito di rivalsa dell'IVA, in base all'assunto per cui quest'ultimo sorgerebbe soltanto con l'emissione della fattura, che. dovendo avvenire all'atto del pagamento, potrebbe aver luogo, in caso di fallimento del committente, soltanto a seguito del riparto. L'emissione della fattura all'atto della ricezione del pagamento costituisce infatti una mera facoltà riconosciuta al prestatore di servizi, il quale può anche scegliere di fatturare, registrando la relativa imposta, al momento della prestazione del servizio. L'esercizio di tale facoltà non sposta in avanti il momento genetico del credito di rivalsa, e comunque non lo trasforma in credito di massa, in caso di fallimento del debitore, non potendo ricondursi un siffatto mutamento al mero dato occasionale dell'emissione della fattura in epoca successiva all'apertura della procedura concorsuale. L'adempimento in questione non è neppure configurabile come atto di amministrazione del fallimento, ai sensi dell'art. 111, primo comma, n. 1 della legge fall., in quanto tale disposizione fa riferimento all'attività negoziale posta in essere dal curatore in relazione all'amministrazione della massa attiva. nella quale non può evidentemente ricomprendersi un atto compiuto da un terzo in funzione di un interesse estraneo alla massa. 6.3. - Qualora, pertanto, il credito relativo al compenso sia stato già ammesso al passivo, l'emissione della fattura non da luogo ad una nuova causa petendi. idonea a giustificare la dichiarazione tardiva del credito di rivalsa dell'IVA. laddove, come nella specie, quest'ultimo abbia costituito anch'esso oggetto della precedente istanza di ammissione al passivo. È appena il caso di ricordare, in proposito, che l'ammissione ordinaria e quella tardiva al passivo fallimentare sono altrettante fasi di uno stesso accertamento giurisdizionale, sicché, rispetto alla decisione concernente un'insinuazione tardiva di credito, le pregresse decisioni, riguardanti l'insinuazione ordinaria, hanno valore di giudicato interno, con la conseguenza che un credito, per potere essere insinuato tardivamente, deve essere diverso, in base ai criteri del petitum e della causa petendi da quello fatto valere nella insinuazione ordinaria cfr. Cass. Sez. I, 10 novembre 2006, n. 24049 31 marzo 2006, n. 7661 2 novembre 2001, n. 1 3590 . 6.4. - Ritenere che il eredito del professionista possa essere soddisfatto in prededuzione ove la fattura sia emessa successivamente alla dichiarazione di fallimento, e debba altrimenti concorrere con quelli degli altri creditori, godendo eventualmente del solo privilegio di cui all'art. 2758, secondo comma, c. c. significherebbe d'altronde introdurre un'ingiustificata disparità di trattamento, avuto riguardo all'anteriorità della prestazione professionale rispetto all'apertura del fallimento, che costituisce il presupposto di fatto comune ad entrambe le situazioni. È alla stregua di tale considerazione che dev'essere correttamente intesa l'affermazione della Corte territoriale, secondo cui la natura di eredito di massa del credito di rivalsa dell'IVA è smentita dal privilegio speciale accordato al medesimo credito dall'art. 2758, secondo comma, cod. civ. che, contrariamente a quanto affermato dal ricorrente, si riferisce espressamente ai crediti di rivalsa verso il cessionario ed il committente previsti dalle norme in materia di IVA . In proposito, questa Corte ha già avuto modo di precisare che rendere il creditore arbitro del regime giuridico applicabile al credito di rivalsa costituirebbe un'anomalia difficilmente coordinarle con la tutela dei crediti concorrenti, facendo dipendere l'attribuzione al credito in esame della medesima qualifica di quello per spese della procedura non già dalle iniziative degli organi della procedura, dalle loro decisioni e dalle loro attività, ma semplicemente dall'attività del terzo cfr. Cass. Sez. 1, 1 giugno 1995, n. 6149. cit. . È poi esatto il rilievo del ricorrente, secondo cui l'esclusione della prededucibilità del eredito di rivalsa dell'IVA. posta in relazione con il privilegio accordato dall'art. 2751 -bis cod. civ. al credito del professionista per il corrispettivo della prestazione resa può comportare, in sede di ripartizione dell'attivo, che soltanto quest'ultimo credito riesca a trovare soddisfazione. Non può tuttavia condividersi il corollario che il ricorrente pretende di trame in ordine all'ingiustificata falcidia che ne conseguirebbe per lo stesso compenso dovuto al professionista, in violazione dei principi costituzionali di tutela del lavoro e solidarietà sociale che costituiscono il fondamento del predetto privilegio. Tale affermazione muove infatti dalla premessa di ordine economico secondo cui. in virtù del meccanismo della rivalsa, l'onere dell'imposta è destinato a ricadere, in definitiva, sul committente nel caso di prestazione di servizi, e sul consumatore finale in caso di cessione di beni. Altro è. tuttavia, il risultato economico della rivalsa, altro l'individuazione del contribuente, che l'art. 17 del d.P.R. n. 633 del 1972 identifica nei soggetti che effettuano le cessioni di beni e le prestazioni di servizi imponibili, implicitamente ponendo a loro carico le conseguenze economiche dell'eventuale impossibilità materiale o giuridica di esercitare la rivalsa cfr. al riguardo, Corte cost., sent. n. 25 del 1984 . 6.5. - Quanto infine al vantaggio derivante al fallimento dalla possibilità di portare in detrazione l'IVA o di chiederne il rimborso, ancorché il credito di rivalsa del professionista non abbia trovato soddisfazione in sede di riparto, esso non è configurabile quale ingiustificato arricchimento ai sensi dell'art. 2041 c.c. ma costituisce il risultato del sistema di contabilizzazione dell'imposta, comune anche alle ipotesi in cui il creditore abbia emesso la fattura in epoca anteriore alla dichiarazione di fallimento, e non imputabile ad un'anomalia distorsiva del sistema concorsuale cfr. Cass., Sez. I, 12 giugno 2006. n. 15690, cit. . 7. - Il ricorso va pertanto rigettato, con la conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso, e condanna lo Studio Legale A. C. & C. al pagamento delle spese processuali, che si liquidano in complessivi Euro 2.200.00, ivi compresi Euro 2.000,00 per onorario ed Euro 200.00 per esborsi, oltre alle spese generali ed agli accessori di legge.