Sanzione per l’avvocato in conflitto di interesse anche se non determina danno al cliente

L’art. 24 del codice deontologico attualmente in vigore mira ad evitare situazioni che possano far dubitare della correttezza dell’operato dell’avvocato e, quindi, perché si verifichi l’illecito, è sufficiente che potenzialmente l’opera del professionista possa essere condizionata da rapporti di interesse con la controparte.

Peraltro, facendo riferimento alle categorie del diritto penale, l’illecito contestato all’avvocato è un illecito di pericolo, quindi l’asserita mancanza di danno è irrilevante perché il danno effettivo non è elemento costitutivo dell’illecito contestato. Con la pronuncia a Sezioni Unite dell’11 marzo 2019, n. 6961, il S.C. conferma la decisione del Consiglio Nazionale Forense rigettando, quindi, il ricorso dell’istante, precisando che il codice deontologico definisce come illecito disciplinare la condotta del legale nella quale può riscontarsi un conflitto di interesse anche solo potenziale, a prescindere dall’effettivo verificarsi di un danno a carico del cliente. Il caso. La sentenza in questione, resa dalla Cassazione a Sezioni Unite all’esito di una impugnazione avverso una pronuncia del Consiglio Nazionale Forense, concerne la sussistenza o meno di un conflitto di interesse da parte di un avvocato nel caso di specie, il legale aveva dapprima reso un parere anche relativo ad una serie di rapporti di lavoro in favore di una propria cliente società successivamente, ha svolto attività di sostituto di udienza in un giudizio di lavoro promosso da una dipendente della società – e verso la stessa società - in favore della quale aveva redatto il parere di cui sopra. Il S.C. afferma, richiamando i precedenti in materia, che il conflitto di interesse dell’avvocato sussiste anche in ipotesi di danno potenziale, non essendo necessario il verificarsi di un danno per l’integrazione della fattispecie dell’illecito. Addebito correlazione formale e sostanziale. In primo luogo, ed a respingere uno dei motivi di doglianza, il S.C. precisa che, in tema di procedimento disciplinare a carico di avvocato, la necessaria correlazione tra addebito contestato e decisione disciplinare non rileva in termini puramente formali, rispondendo tale regola all'esigenza di garantire pienezza ed effettività del contraddittorio sul contenuto dell'accusa e ad evitare che l'incolpato sia condannato per un fatto rispetto al quale non abbia potuto esplicare difesa. Ne consegue che la modifica o l’erronea indicazione della disposizione normativa oggetto di non determina alcuna lesione del diritto di difesa ove siano rimasti immutati gli elementi essenziali della materialità del fatto addebitato. Conflitto di interessi potenziale o effettivo? Entrando nel merito, nella pronuncia in esame, richiamando le pregresse decisioni in tema di deontologia forense, si precisa che il canone deontologico posto dall’art. 24 del nuovo codice deontologico già art. 37 codice previgente sancisce non solo la terzietà dell’avvocato, ma che è altresì necessario che in alcun modo possano esservi situazioni o atteggiamenti tali da far intendere diversamente. La suddetta norma, invero, tutela la condizione astratta di imparzialità e di indipendenza dell’avvocato - e quindi anche la sola apparenza del conflitto - per il significato anche sociale che essa incorpora e trasmette alla collettività. Conflitto di interessi la posizione del codice deontologico. Il codice deontologico illustra anche alcune situazioni nelle quali sussiste l’obbligo di astensione dell’avvocato per evitare, appunto, il verificarsi di un caso - anche solo potenziale - di conflitto di interesse. Ad esempio, ai sensi dell’art. 37, comma 3, sussiste l'obbligo previsto per l'avvocato che abbia assistito congiuntamente i coniugi in controversie familiari, di astenersi dal prestare la propria assistenza in controversie successive tra i medesimi in favore di uno di essi. Tale divieto, peraltro, va inteso in senso assoluto e prescinde da qualsiasi valutazione circa il conflitto, reale o solo potenziale, di interessi posto che nella materia del diritto di famiglia la valutazione è stata fatta una volta per tutte dalla norma, onde l'interprete è tenuto soltanto ad accertare il fatto che costituisce il presupposto di quell'effetto, senza indagare se il conflitto abbia carattere reale o meramente potenziale. Conflitto di interessi e rinuncia al mandato. Come visto, quindi, la norma in esame in tema di conflitto di interessi mira ad assicurare che il mandato professionale sia svolto in assoluta libertà ed indipendenza da ogni vincolo, ossia in piena autonomia prerogative, queste, funzionali a rendere effettivo e concreto il diritto di difesa. Per evitare l’insorgere di un conflitto anche solo potenziale, il legale può certamente rinunciare al mandato ma in tale ipotesi, la rinuncia al mandato - che pure non deve necessariamente realizzarsi ad horas o comunque con assoluta immediatezza - certo non può essere procrastinata per mesi ed intervenire dopo una considerevole attività professionale, e ciò a prescindere che il conflitto stesso non abbia in concreto recato pregiudizio ai clienti, circostanza – questa - che vale esclusivamente ad attenuare la portata lesiva della violazione, ma non a scriminarla, riverberandosi sulla misura della sanzione. Conflitto di interessi e domiciliazione. La regola in tema di conflitto di interessi, nelle sue declinazioni fin qui illustrate, trova piena applicazione anche al domiciliatario. Il domiciliatario, infatti, deve uniformarsi ai doveri di lealtà, correttezza, imparzialità ed indipendenza di conseguenza, non può accettare incarichi contro propri clienti, a nulla rilevando che si tratti di procedimenti celebrati telematicamente mediante PCT e PEC ovvero con potenziale attività diretta del dominus . Tale attività, infatti non elide né scrimina il conflitto, anche solo potenziale, di interessi in quanto, più che la forma giuridica nella quale viene svolta la collaborazione fra colleghi, assume rilevanza il rapporto stesso di collaborazione continuativa e pubblica, tale da indurre chiunque a dubitare dell’autonomia di determinazione dei professionisti partecipi al sodalizio che si trovino a tutelare soggetti con posizioni opposte. In un caso, peraltro, era stato sanzionato l’avvocato che, in una causa contro un proprio cliente, ritenendo che l’attività richiestagli fosse puramente materiale e passiva , nonché del tutto marginale in ragione dell’uso diretto di PCT e PEC da parte del dominus , tuttavia aveva sostituito in un’udienza il dominus stesso.

Corte di Cassazione, sez. Unite Civili, sentenza 15 gennaio – 11 marzo 2019, n. 6961 Presidente Cappabianca – Relatore Rubino Fatti di causa Nel dicembre del 2011 la Esselte S.r.l. propose un esposto nei confronti dell’avv. G.A. dinanzi al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di , in cui lamentava la violazione dell’art. 37 del codice deontologico forense in ragione di un conflitto di interessi, rappresentando in particolare che - nel gennaio 2011 l’esponente aveva interpellato l’avv. G. in ordine a una vicenda riguardante Ga.Ro. , già presidente del consiglio di amministrazione di Esselte e la compagna di questi, S.S. , dipendente della Società il G. aveva fornito un parere legale concernente, tra l’altro, la natura del rapporto di lavoro della S. e le inadempienze della stessa alle conseguenti obbligazioni, prospettando la possibilità di un licenziamento della stessa, qualora i sospetti della datrice di lavoro si fossero rivelati fondati - intervenuto il licenziamento, la S. lo aveva impugnato dinanzi al Tribunale di Milano, assistita dall’avv. Sm. di Roma, il quale aveva indicato quale domicilio in l’indirizzo di studio dell’avv. G. in viale omissis - alla prima udienza dinanzi al Giudice del lavoro, la S. era personalmente comparsa, assistita, in qualità di sostituto dell’avv. Sm. per delega contestualmente depositata, dall’Avv. G. , per aver avuto il dominus un impedimento improvviso a comparire. Il COA di ravvisò la responsabilità del ricorrente, comminandogli la sanzione della sospensione dall’esercizio dell’attività professionale per quattro mesi. L’avv. G.A. propone ricorso per cassazione, articolato in tre motivi ed illustrato da memoria, avverso la decisione del 14 luglio 2016 del Consiglio Nazionale Forense, depositata il 31.12.2016, che, rigettando l’impugnazione del professionista, confermava la sanzione della sospensione per quattro mesi dall’esercizio della professione inflitta dal COA di Milano per violazione dell’art. 37 del codice deontologico vigente al momento dei fatti. Il Consiglio Nazionale Forense confermava la pronuncia del COA di , ritenendo - che il G. avesse dedicato al rapporto tra la Esselte e la S. uno specifico paragrafo del suo parere, riguardante sia i danni eventualmente subiti dalla società in ragione delle anomalie del rapporto di lavoro, sia le ipotetiche e dirette responsabilità del Ga. e della S. stessa - che il parere espresso sulla licenziabilità di quest’ultima fosse stato il frutto di una puntuale argomentazione, e non invece un’osservazione marginale - che il ruolo di domiciliatario si inquadra nell’ambito dell’attività professionale, e che pertanto anche in tale veste l’avvocato debba uniformarsi ai doveri di lealtà e correttezza, nonché di imparzialità e indipendenza - che il sostituto in udienza non è un mero portavoce del dominus, potendo egli svolgere, senza limiti oggettivi, l’attività che avrebbe svolto il dominus stesso, ed essendo quindi soggetto agli stessi vincoli incombenti sul mandante nella specie, sia quelli di generale ottemperanza ai precetti di cui all’art. 6 c.d.f. previgente, sia, in ragione della prestazione di consulenza precedentemente resa in favore della controparte, quelli contemplati dall’art. 37 c.d.f. previgente in tema di conflitto di interessi - che la violazione sussista anche in presenza di un rischio meramente potenziale di conflitto di interessi - che, infine, poiché l’art. 24 del nuovo c.d.f. colpisce la fattispecie del conflitto di interessi con la sanzione della sospensione dall’esercizio dell’attività professionale da uno a tre anni, la misura della sanzione fosse oggettivamente congrua. Il ricorrente ha presentato istanza di sospensione, che successivamente è stata revocata. Si è dichiarato pertanto non luogo a provvedere in merito. Gli intimati non hanno svolto attività difensiva in questa sede. Ragioni della decisione Con il primo motivo si deduce, ex art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4, la violazione e falsa applicazione dell’art. 38 L.P.F. pro tempore vigente R.D.L. n. 1578 del 1933 e il difetto assoluto di motivazione, in relazione all’art. 6 c.d.f. pro tempore vigente relativo al generale dovere di lealtà e correttezza. Il ricorrente lamenta che tanto i capi di imputazione, quanto la decisione resa in prime cure dal COA di risultino a tal punto ellittici da sfiorare l’incomprensibilità, in quanto si contesterebbero condotte fattuali senza alcun preciso riferimento alle norme e ai canoni deontologici che si assumono violati con conseguente assoluta incertezza circa i criteri di riferimento e di valutazione entro cui inquadrare le contestazioni, e connessa rilevante compromissione delle prerogative di difesa del G. . Deduce, inoltre, che la motivazione della sentenza del CNF, nella parte concernente l’attività di sostituzione in giudizio svolta dal G. , sia meramente apparente e apodittica, in assenza di puntuali riferimenti al caso in esame con conseguente nullità della sentenza o completa indeterminatezza di ogni possibile richiamo al generale dovere di lealtà e correttezza di cui all’art. 6 dell’abrogato c.d.f Con il secondo motivo si deduce, ex art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione e falsa applicazione dell’art. 38 L.P.F. pro tempore vigente R.D.L. n. 1578 del 1933 , in relazione all’art. 37 c.d.f. pro tempore vigente approvato dal CNF il 17 aprile 1997 e successive modifiche in materia di conflitto di interessi. Il ricorrente lamenta che, poiché ogni riferimento al genericissimo art. 6 c.d.f. previgente sarebbe destinato a cadere per le ragioni esposte nel precedente motivo, e l’ancoraggio normativo sarebbe stato rinvenuto dalla sentenza del CNF nell’art. 37 dell’abrogato c.d.f. in tema di conflitto di interessi, ratto di quest’ultima norma sia quella di evitare che l’avvocato assuma incarichi professionali da parte di soggetti in conflitto di interessi tra loro e che il conflitto di interessi debba essere effettivo, attuale e concreto e consistere nel conferimento di un mandato professionale laddove invece nel caso di specie si sarebbe trattato di un conflitto meramente potenziale e di una singola, estemporanea, eccezionale e giustificata occasione. Il ricorrente deduce di non aver reso alcun parere ad Esselte sulla specifica posizione della S. , in quanto alla stessa avrebbe fatto solo un breve incidentale accenno in un parere avente un diverso oggetto, e di non aver assunto alcun incarico professionale in relazione alla causa promossa da quest’ultima contro Esselte, avendo svolto unicamente un’estemporanea e trasparente sostituzione all’udienza per l’improvvisa impedimento dell’avv. Sm. . Sostiene, inoltre, che la domiciliazione dello Sm. all’indirizzo del G. non integrasse attività professionale - presupposto di ogni violazione disciplinare - nel senso voluto dall’art. 37, e, ancor meno, dal generico art. 6 c.d.f. abrogato, che esigono un comportamento attivo, personale e intellettuale, trattandosi invece di una mera domiciliazione topografica, priva di ogni requisito oggettivo e soggettivo di professionalità, e superata dal progresso tecnologico a favore esclusivo dell’indirizzo PEC e del telefax, che nel caso di specie erano esclusivamente romani, giusta il luogo in cui è ubicato lo studio dello Sm. . Il ricorrente deduce, pertanto, l’erroneità della sentenza impugnata, nella parte in cui discorre di accettazione di un incarico o di conflitto di interessi a proposito della mera domiciliazione. Con il terzo motivo, si deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 38 previgente L.P.F., in relazione all’art. 37 c.d.f., degli artt. 115 e 116 c.p.c., artt. 2729 e 2727 c.c., nonché la sussistenza di un vizio di motivazione ex art. 360 c.p.c., n. 5, nel suo testo precedente, previa declaratoria di incostituzionalità dell’art. 360 c.p.c., nuovo n. 5 ovvero ex art. 606 c.p.c., lett. d ed e , per motivazione omessa, insufficiente e contraddittoria e/o per omesso esame e mancata assunzione di prove i sull’oggetto del parere reso dall’avv. G. ad Esselte ii sulle ragioni estemporanee ed eccezionali che costrinsero l’avv. Sm. a chiedere all’Avv. G. di sostituirlo all’udienza, indicate e spiegate a Esselte e al difensore di questa, che nell’immediato nulla obiettarono in proposito nonché, in subordine, ex art. 360 c.p.c., n. 5, nuovo testo per omesso esame dei fatti indicati sub ii . Il ricorrente lamenta che la natura afflittiva delle sanzioni irrogate in esito al procedimento disciplinare forense - specie nell’originaria struttura inquisitoria - dovrebbero indurre ad applicare al ricorso per Cassazione in subiecta materia l’art. 606 c.p.p., lett. d o e , a seconda che si diano per pacifici i fatti, come ha ritenuto la sentenza impugnata, ovvero che debbano essere assunte le prove orali richieste, non assunte né dal COA né dal CNF , ma che le censure esposte nel presente motivo valgano a fortiori in relazione al precedente testo dell’art. 360 c.p.c., n. 5, del quale denuncia, nel suo testo attuale, l’illegittimità costituzionale, sia per l’abuso della decretazione d’urgenza l’esplicita previsione di entrata in vigore della norma di cui al D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 1, lett. b , conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134 - con cui è stato novellato l’art. 360, n. 5 - trenta giorni dopo la conversione in legge mostrerebbe ex se l’insussistenza dei presupposti straordinari di necessità e urgenza della forma del D.L. , sia per la manifesta irragionevolezza e l’aperta violazione dei principi del giusto processo e del diritto al ricorso per Cassazione per violazione di legge, ai sensi degli artt. 3, 24 e 111 Cost. non potendosi tollerare l’esclusione di ogni controllo sui dicta dei giudici di merito, che omettano completamente di esaminare fatti decisivi o che motivino il proprio convincimento in modo del tutto insufficiente e in contrasto con le oggettive risultanze documentali . Il ricorrente deduce che, nella maggior parte degli ordinamenti continentali, la violazione delle norme giuridiche contenenti le regole vincolanti per operare la ricostruzione dei fatti secondo una recta ratio sia denunciabile in sede di legittimità. Sostiene che la violazione od omessa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., artt. 2727 e 2729 c.c., integri violazione di norma di legge, denunciabile ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3 e che, diversamente opinando, l’art. 360 c.p.c., nuovo n. 5, tanto più come interpretato nel diritto vivente, sarebbe incostituzionale, violando i canoni del giusto processo, nonché il diritto a ricorrere in Cassazione per violazione di legge ex art. 111 Cost., comma 7, giacché non potrebbe essere impedito denunciare la violazione delle predette norme in sede di legittimità, ogniqualvolta il giudice del merito non si sia attenuto ad esse nel governo dei fatti secondo vincolanti canoni metodologici. Il ricorrente lamenta che - sia che si applichi l’art. 606 c.p.p., lett. e , sia che si applichi l’art. 360 c.p.c., n. 5, nel testo precedente, previa declaratoria d’incostituzionalità del novellato n. 5, ovvero si rilevi la denunciata violazione degli artt. 115, 116 c.p.c., artt. 2727 e 2729 c.c., nel malgoverno della quaestio facti-, in merito all’asserito conflitto di interessi, e quindi alla sussunzione della fattispecie entro il nucleo normativo di cui all’art. 37 c.d.f. abrogato, si riscontrino due profili di grave omissione, insufficienza e contraddittorietà della motivazione del provvedimento impugnato. In primo luogo, non sarebbe stato considerato che il parere rilasciato dal G. a Esselte non abbia avuto a oggetto il rapporto tra Esselte e la S. , bensì il rapporto tra la Società e il suo ex presidente Ga. , compagno della S. né che, con riguardo alle responsabilità concernenti l’assunzione simulata di dipendente e/o la stipulazione di accordi fittizi con prestatori d’opera, la ricostruzione operata dalla sentenza impugnata sia contraria all’evidenza documentale, oltre che al comune buon senso in quanto il parere verteva sulle responsabilità in capo a un componente dell’organo gestorio, non sul rapporto di lavoro subordinato che intercorreva tra la Società e la di lui moglie e sottolinea che le considerazioni concernenti la licenziabilità della S. costituiscano una superfetazione, avulsa dall’oggetto del parere richiesto. Il ricorrente lamenta, in secondo luogo, che non vi sia alcun riferimento, nella motivazione della sentenza impugnata, alle circostanze eccezionali ed improvvise che impedirono all’Avv. Sm. di intervenire all’udienza, costringendolo a farsi sostituire dal G. , né all’autorizzazione rilasciata prima dell’udienza dal difensore e dallo stesso legale rappresentante di Esselte a che, in dette circostanze, l’Avv. Sm. fosse sostituito dall’Avv. G. , così mostrando l’insussistenza nella specie di un reale conflitto di interessi e che la sentenza impugnata abbia invece erroneamente ragionato come se il G. avesse assunto l’incarico di assistere la S. contro Esselte come si evincerebbe dal severo richiamo alle previsioni di cui al comma 3 dell’attuale art. 24 c.d.f. . Deduce infine, in subordine, che il profilo da ultimo evidenziato integri altresì il vizio di omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti , anche alla stregua dell’art. 360 c.p.c., n. 5, così come riformato l’eccezionalità ed estemporaneità della sostituzione all’udienza, l’anticipata, piena e trasparente informativa data a Esselte e al difensore di questa in ordine a tali circostanze prima di svolgere l’attività e la mancanza di obiezioni da parte del potenziale controinteressato costituirebbero fatti decisivi ai fini dell’asserita mancata integrazione dei presupposti applicativi dell’art. 37 c.d.f Il primo motivo e il secondo motivo possono essere esaminati congiuntamente, e sono infondati. Con essi si lamenta l’esistenza di una motivazione meramente apparente, apodittica, sulla effettiva violazione da parte dell’avvocato dei doveri di correttezza professionale, ed una indecifrabilità del percorso motivazionale. Contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente, la motivazione è reale e dettagliata, atta a rendere pienamente conto del percorso che ha portato alla decisione del CNF. Esso muove da una dettagliata ricostruzione della vicenda, e motiva accuratamente reputando che l’attività svolta dal ricorrente sia stata lesiva, in misura significativa, dei doveri di lealtà e correttezza verso il cliente. Il Consiglio Nazionale Forense, con apprezzamento delle circostanze di fatto non rinnovabile in questa sede, ha accertato che il comportamento complessivamente tenuto dall’avv. G. , dipanatosi, come sopra riportato, attraverso dapprima la stesura di un parere in favore della società Esselte, nell’ambito del quale veniva esaminata anche, compiutamente e non con considerazione meramente incidentale, la posizione della S. e prospettata la possibilità - poi messa in pratica dal cliente - del suo eventuale licenziamento, e poi, dopo il licenziamento, nell’assunzione della qualità di domiciliatario dell’avvocato della controparte, ovvero della stessa S. e nello svolgimento dell’attività di patrocinio in udienza della stessa, benché a seguito di un impedimento occasionale dei dominus, determinasse il concreto verificarsi di una di violazione dei canoni di lealtà previsti dall’art. 6 del codice deontologico forense pro tempore vigente, nonché di una ipotesi di conflitto di interessi, di cui all’art. 37, comma 1, del codice deontologico pro tempore vigente, e ne ha ritenuto la gravità complessiva, tradottasi nella irrogazione della sospensione. L’accertamento compiuto non fraziona i singoli passaggi dei rapporti tra il professionista e la società, e quindi non fonda la valutazione di colpevolezza sulla disamina della violazione delle norme deontologiche in relazione ai singoli momenti del rapporto, ma valuta il comportamento complessivo del G. , ovvero considera nella loro interezza i vari momenti di contatto professionale tra il G. e la Esselte, per concludere che il comportamento complessivo tenuto, prima di assistenza nella fase stragiudiziale che ha creato il presupposto il licenziamento per la successiva fase giudiziale e poi, intervenuta la fase contenziosa, esplicatosi nella domiciliazione dell’avvocato della controparte, e nella attività di assistenza in udienza della controparte, in relazione proprio alla controversia impugnativa di licenziamento relativa alla stessa questione sulla quale aveva prestato assistenza, integri una violazione dei doveri di lealtà e correttezza. Non si riscontrano neppure le violazioni di legge ascritte al provvedimento impugnato, laddove esso correttamente afferma, ancorandone poi la valutazione di gravità e rilevanza alla fattispecie concreta, che anche l’attività di domiciliazione deve essere svolta rispettando i canoni di lealtà e correttezza imposti per l’intera attività professionale e che l’attività di sostituzione di udienza non sia paragonabile a quella del mero nuncius, in quanto il sostituto si trova a svolgere, autonomamente, la stessa attività di patrocinio che in quella determinata udienza farebbe carico al dominus, e quindi che anche il sostituto di udienza sia tenuto al rispetto degli obblighi spettanti al mandante, sia sotto il profilo del rispetto del generale canone di comportamento dettato dall’art. 6 sia sotto il profilo della necessità di evitare attività che lo pongano in situazione di conflitto di interesse col rappresentato. L’eccezione di legittimità costituzionale dell’art. 360, comma 1, n. 5, nella sua formulazione attuale, contenuta nel terzo motivo, appare manifestamente infondata e, preliminarmente, difetta di rilevanza, atteso che la motivazione del provvedimento del CNF, per la sua completezza, passerebbe indenne da censure di violazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, anche qualora ne venisse presa in considerazione la precedente formulazione. Nulla sulle spese, non avendo gli intimati svolto attività difensiva in questa sede. Il ricorso per cassazione è stato proposto in tempo posteriore al 30 gennaio 2013, e il ricorrente risulta soccombente, pertanto egli è gravato dall’obbligo di versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 bis, comma 1 quater. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso. Dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale.