L’avvocato va pagato anche se ha violato il codice deontologico

La violazione dell’obbligo di astenersi dal prestare attività professionale da parte del professionista quando lo svolgimento di un precedente incarico limiti la sua indipendenza nello svolgimento del nuovo incarico o comunque determini una situazione di conflitto di interessi col rappresentato integra, a sua volta, la violazione delle regole generali di comportarsi secondo correttezza e buona fede e confluisce nell’ipotesi tipica di contratto stipulato in conflitto di interessi la cui conseguenza può essere, qualora la parte pregiudicata proponga la relativa azione, l’annullamento del contratto ex art. 1394 cod. civ., non già la nullità.

È quanto affermato dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 23186/18 depositata il 27 settembre. Il fatto. Due coniugi convenivano innanzi al Giudice di Pace territorialmente competente il proprio legale al quale avevano conferito dei mandati per i quali vi erano motivi di incompatibilità chiedendo la risoluzione dei mandati e la restituzione della somma pagata allo stesso a titolo di acconto su onorari e spese. In particolare, il professionista, nonostante i propri assistiti gli avessero richiesto espressamente se sussistessero per i predetti mandati motivi di incompatibilità, assunse i mandati in violazione delle norme del codice deontologico. Il Giudice respinse le domande dei coniugi condannandoli alla refusione delle spese di giudizio. Proposto appello dinanzi al Tribunale, che aveva provveduto a rigettarlo, i coniugi decidono di adire la Corte di Cassazione. Violazione deontologica. Gli Ermellini rigettano, tra l’altro, il motivo di ricorso con il quale i coniugi hanno denunciato violazione e falsa applicazione di norme di legge per non aver il Giudice di merito accolto la loro domanda di risoluzione dei mandati per violazione di norme di deontologia. In particolare, i Giudici di legittimità affermano che la violazione deontologica, oltre alla rilevanza disciplinare, ed a prescindere dalla proposizione di azioni atte ad incidere sul momento genetico del contratto e sulla validità del vincolo contrattuale, può avere in ogni caso una rilevanza civilistica sotto il profilo dell’inadempimento contrattuale e dei conseguenti obblighi risarcitori, ove si accerti l’esistenza di un danno risarcibile. In questi termini, essa è stata correttamente resa in esame e tenuta in conto dal Giudice di merito che ha accertato la presenza dell’inadempimento anche se non è giunto a pronunciare la risoluzione dell’intero contratto, implicitamente ritenendo l’inadempimento non di portata tale da travolgere tutto il rapporto e tutte le prestazioni eseguite. Attività professionale retribuile. Il giudice, prosegue la Corte, ha ritenuto retribuitile la redazione dell’atto giudiziario, della cui qualità non si è mai discusso nel corso del giudizio di merito solo l’attività utilmente prestata in quanto la residua attività professionale lo studio della controversia avrebbe dovuto essere rinnovata da parte del nuovo professionista che i coniugi avrebbero dovuto incaricare della prosecuzione del giudizio e quindi implicitamente qualificando il danno subito dai coniugi nelle spese che avrebbero dovuto sostenere per rivolgersi ad altro professionista il quale avrebbe dovuto a sua volta essere remunerato – in misura similare al corrispettivo riconosciuto al Longo, per studiare la causa e poter proseguire il giudizio.

Corte di Cassazione, sez. III Civile, sentenza 5 giugno – 27 settembre 2018, n. 23186 Presidente Travaglino – Relatore Rubino I fatti di causa 1. Nel 2013 Erminio e C.M. convennero in giudizio l’Avv. L.F. , rappresentando che nel 2012 il L. aveva assistito i coniugi C.M. e Le.Ma. nella predisposizione, deposito e trattazione del loro ricorso per separazione consensuale davanti al Tribunale di Acqui Terme per tale attività il professionista venne saldato decorsi pochi mesi dalla comparizione presidenziale, la sola C.M. si rivolse nuovamente al L. per conferirgli altri incarichi domanda di risarcimento di danni nei confronti del marito separato in conseguenza dei comportamenti contrari alla morale familiare addebitati al Le. , e restituzione a C.E. , padre di M. , di tutte le somme dallo stesso approntate per la ristrutturazione della casa in favore dei nubendi, successivamente rimasta in godimento al solo Le. prima di conferire detti incarichi, i C. chiesero in maniera esplicita al professionista se ritenesse di poter assumere i nuovi mandati, ovvero se, avendo patrocinato in precedenza entrambi i coniugi durante la separazione consensuale, sussistessero motivi di incompatibilità il L. assunse i nuovi incarichi, negando l’esistenza di ragioni ostative tuttavia, con la sua prima difesa il difensore del Le. contestò al L. l’incompatibilità dello stesso a patrocinare i C. , per espressa violazione dell’art. 37 del Codice di Deontologia Forense, sicché l’Avv. L. dismise i due mandati e le controversie vennero proseguite dal nuovo difensore quando i C. vennero informati dal L. di non poter proseguire, per i motivi indicati, nella gestione degli incarichi, chiesero al Professionista la restituzione della somma di Euro 5.000,00, pagata allo stesso a titolo di acconto su onorari e spese rimaste tali richieste inesaudite, i C. adirono le vie giudiziali, per sentir dichiarare la risoluzione dei mandati professionali e condannare il L. alla restituzione della somma versata. Si costituì in giudizio l’Avv. L. , sostenendo l’assoluta scusabilità dell’errore commesso e svolgendo altresì riconvenzionale per il pagamento della differenza in suo favore tra quanto percepito e quanto dovuto sulla scorta delle tariffe forensi in vigore. 2. Il Giudice di Pace di Genova, con sentenza n. 1316/2015, respinse le domande dei C. e accolse in parte la riconvenzionale del convenuto, condannando gli attori alla rifusione delle spese. 3. Avverso tale sentenza proposero appello i C. , e appello incidentale il L. . Il Tribunale, in parziale riforma della sentenza di primo grado, condannò il L. alla restituzione in favore degli appellanti della somma di Euro 172,03 e rigettò la riconvenzionale proposta dallo stesso nei confronti di C.E. condannò C.M. al pagamento di Euro 652,69 in favore dell’appellato rigettò le domande ex art. 96 c.p.c. in ragione del - seppur parziale - accoglimento delle contrapposte domande compensò integralmente le spese di lite del primo grado tra C.E. e l’appellato in quanto, rispetto alla domanda proposta - pari a Euro 5.000,00 - il C. era risultato vincitore solo per una somma minima , confermando invece la condanna di C.M. al pagamento delle spese di lite di primo grado in quanto rimasta soccombente sulla somma di Euro 652,69 e compensando integralmente per tutte le parti le spese di secondo grado in ragione della soccombenza reciproca tra l’appellante C.M. e l’Avv. L. , e in ragione dell’errore del giudice nella condanna in ordine alla domanda riconvenzionale proposta dal L. anche a carico dell’appellante C.E. , nei cui confronti il convenuto non aveva proposto alcuna domanda . In particolare, il Tribunale affermava - che, essendo le norme deontologiche clausole generali con rango di norme di diritto e contenuto di specificazione della disposizione di legge generica, la violazione di natura deontologica incideva anche sulla obbligazione civile assunta dal professionista, sicché l’Avv. L. avrebbe avuto, anche nell’ambito del rapporto di mandato assunto con i clienti, l’obbligo di rifiutare l’incarico, in ragione degli obblighi di buona fede, diligenza e correttezza che connotano il contratto d’opera professionale che l’obbligo di tenere un comportamento deontologicamente corretto imponeva all’Avvocato di non assumere l’incarico, ed integrava automaticamente il contratto d’opera professionale ex art. 1374 c.c., in base al principio per cui il contratto obbliga le parti non solo a quanto è nel medesimo previsto ma anche in base alle conseguenze che ne derivano secondo la legge che il suo comportamento fosse stato inadempiente e che dall’inadempimento di tale obbligazione discendesse ex art. 1218 c.c. la responsabilità nei confronti del cliente. Riteneva, tuttavia, che la dedotta duplicazione di attività, e quindi di costi, sussistesse solo per la fase di studio, avendo il L. svolto invece validamente la fase relativa alla redazione dell’atto introduttivo in ciascuna delle due cause e che andasse inoltre confermata la statuizione del primo Giudice in ordine alla spettanza in favore del L. della somma di Euro 650,00, chiesta in via riconvenzionale, in relazione all’attività di assistenza stragiudiziale in favore degli appellanti per una vicenda locatizia, estranea al rapporto coniugale. 4. Contro la sentenza n. 2078/16, depositata il 13/06/16, del Tribunale di Genova propongono ricorso per Cassazione, con quattro motivi, C.E. e C.M. . Resiste con controricorso il L. . La causa, avviata dapprima alla trattazione in adunanza camerale non partecipata all’interno della Sesta Sezione, è stata da questa rimessa alla trattazione in pubblica udienza. Le ragioni della decisione Va premesso che l’intero ricorso presenta spiccati e ricorrenti, benché complessivamente superabili profili di inammissibilità, in quanto si limita ad una generica critica della decisione adottata, senza chiaramente spiegare in quali violazioni di legge sarebbe incorso il giudice di merito e senza fornire una propria, chiara qualificazione in termini giuridici degli accadimenti. In particolare non è chiarito, nella ricostruzione prospettata dai ricorrenti, se gli stessi ritenessero l’incarico professionale svolto nonostante l’incompatibilità illecito, e quindi nullo, o se piuttosto ritenessero che la violazione degli obblighi di correttezza ridondasse come inadempimento di non scarsa importanza, causa di risoluzione del contratto. L’unico dato affermato con chiarezza, nelle loro doglianze, è che il tribunale avrebbe dovuto accogliere integralmente la loro domanda di restituzione degli acconti versati. Con il primo motivo , i ricorrenti denunciano, ai sensi dell’art. 360 n. 3 c.p.c., la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 37 del codice deontologico forense precedente e degli artt. 1375, 1175 e 1176 c.c Lamentano che il Tribunale, muovendo dal corretto presupposto del richiamo delle norme relative a correttezza e buona fede contrattuale, giunga però ad un’applicazione errata delle stesse. Osservano infatti che, da un lato, il giudice di merito riconosca la fondatezza dell’appello in ordine alle domande di risoluzione dei mandati difensivi per colpa grave derivante dalla lesione dei principi generali previsti ex lege su cui si fonda l’art. 37 del codice deontologico forense dall’altro, non accolga totalmente la domanda di condanna del L. alla restituzione di quanto versato dagli appellanti a causa di un’errata applicazione delle norme richiamate. Lamentano che, essendo il professionista responsabile nei confronti dei propri clienti per non essersi astenuto dall’acquisire nuovi mandati, dovesse essere restituita l’intera somma, a prescindere dal fatto che le attività iniziali del L. potessero o no avere qualche utilità. Il motivo pone la questione se l’attività professionale svolta dall’avvocato in situazione di incompatibilità sia comunque remunerabile ovvero se la sussistenza di un illecito disciplinare nella specie la violazione, da parte dell’avvocato che abbia già patrocinato le due parti congiuntamente, dell’obbligo di astenersi dall’assumere nuovi incarichi professionali in favore di una delle parti e contro l’altra in capo al professionista faccia venir meno il suo diritto al corrispettivo per l’attività svolta. L’inquadramento della questione da parte dei ricorrenti è piuttosto evanescente essi non affermano mai chiaramente di aver proposto una domanda volta alla declaratoria di nullità del contratto, o all’annullamento dello stesso e risultano piuttosto aver proposto una domanda di risoluzione per inadempimento del contratto stesso, con restituzione del corrispettivo parzialmente pagato. La soluzione data dal giudice d’appello, che accerta la violazione della norma deontologica, afferma che da tale violazione non consegue la nullità del contratto di prestazione d’opera professionale, ma l’inadempimento del professionista per violazione dei propri obblighi deontologici di comportamento secondo correttezza e buona fede nei confronti del cliente, e considera l’attività svolta remunerabile nei limiti in cui sia tornata utile al cliente, appare corretta, con le puntualizzazioni che seguono. In proposito, occorre rilevare che, in linea generale, la violazione di norme deontologiche, se ha sempre un rilievo di tipo disciplinare, non dà luogo di per sé all’illiceità della prestazione o ad altre cause di nullità del contratto di mandato tra professionista e cliente. Diversa può essere la gravità della violazione deontologica e diversa la rilevanza, sia sotto il profilo disciplinare che della validità o meno dell’attività svolta, dell’esistenza di tale violazione. La commissione da parte del professionista di una violazione delle regole di deontologia professionale non comporta in ogni caso la nullità di tutta l’attività svolta e la conseguente non remunerabilità delle relative prestazioni. Occorre verificare se, nel caso concreto, la violazione deontologica, oltre che rilevare sotto il profilo disciplinare, sia di gravità tale da integrare anche una causa di nullità del contratto rilevanza implicitamente esclusa nel caso di specie dal giudice di merito . Nel caso di specie, peraltro, il tipo di violazione deontologica commessa dall’avvocato, consistente nella violazione da parte del professionista dell’obbligo di astenersi dal prestare attività professionale quando lo svolgimento di un precedente incarico limiti la sua indipendenza nello svolgimento del nuovo incarico o comunque determini una situazione di conflitto di interessi col rappresentato rubricata, all’art. 37 del codice deontologico forense vigente all’epoca dei fatti sotto la rubrica conflitto di interessi , integra la violazione delle regole generali di comportarsi secondo correttezza e buona fede e confluisce nell’ipotesi tipica di contratto stipulato in conflitto di interessi, la cui conseguenza può essere, qualora la parte pregiudicata proponga la relativa azione, l’annullamento del contratto ex art. 1394 c.c., e non la nullità. Peraltro, la violazione deontologica, a prescindere ed oltre alla rilevanza disciplinare, ed a prescindere dalla proposizione di azioni atte ad incidere sul momento genetico del contratto e sulla validità del vincolo contrattuale, può avere in ogni caso una rilevanza civilistica sotto il profilo dell’inadempimento contrattuale e dei conseguenti obblighi risarcitori, ove si accerti l’esistenza di un danno risarcibile. In questi termini essa è stato correttamente presa in esame e tenuta in conto dal giudice di merito, che ha accertato la presenza dell’inadempimento, anche se non è giunto a pronunciare la risoluzione dell’intero contratto, implicitamente ritenendo l’inadempimento non di portata tale da travolgere tutto il rapporto e tutte le prestazioni eseguite. Esso ha ritenuto retribuibile solo l’attività utilmente prestata la redazione dell’atto giudiziario, della cui qualità non si è mai discusso nel corso del giudizio di merito , in quanto la residua attività professionale di studio della controversia avrebbe dovuto essere rinnovata da parte del nuovo professionista che i C. avrebbero dovuto incaricare della prosecuzione del giudizio e quindi implicitamente quantificando il danno subito dai C. nelle spese che avrebbero dovuto sostenere per rivolgersi ad altro professionista il quale avrebbe dovuto a sua volta essere remunerato - in misura similare al corrispettivo riconosciuto al L. , per studiare la causa e poter proseguire il giudizio. Per tali ragioni, il motivo è infondato e va rigettato. Con il secondo motivo , i ricorrenti denunciano, ai sensi dell’art. 360 n. 3 c.p.c., la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 37 del codice deontologico forense e conseguentemente degli articoli 1375, 1175 e 1176 c.c., nonché degli arti. 115-116 c.p.c. in relazione alla domanda riconvenzionale accolta già in primo grado. Lamentano che, anche in relazione all’attività di assistenza stragiudiziale svolta dal L. in favore degli appellanti relativamente alla vicenda locatizia, sussistesse l’obbligo di astensione, posto che - già dalla comparsa di primo grado - era stato lo stesso professionista ad ammettere che tale vicenda locatizia riguardava la casa coniugale, con conseguente violazione di legge ed impossibilità di svolgere anche tale incarico. Osservano, peraltro, come C.M. abbia sempre negato che tale attività fosse mai stata svolta da cui l’asserita illogicità ed erroneità dell’accoglimento - anche solo parziale - della domanda riconvenzionale, in mancanza dell’espressa indicazione delle ragioni ed in violazione di quanto stabilito dagli artt. 115 e 116 c.p.c. in tema di disponibilità e valutazione delle prove. Il motivo deve considerarsi complessivamente inammissibile, sia perché le critiche attinenti ai profili di legittimità sono formulate in modo talmente generico da non rendere comprensibile quali violazioni di legge si assumano essere state commesse, sia perché esso appare in effetti teso a contestare l’accertamento in fatto compiuto dal Tribunale, che non può essere in questa sede rinnovato. Con il terzo motivo, i ricorrenti denunciano, ai sensi dell’art. 360 n. 3 c.p.c., la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 96 c.p.c. laddove il giudice di merito ha rigettato la loro domanda di condanna dell’avv. L. anche ai sensi dell’art. 96 c.p.c Lamentano che il Giudice abbia in realtà accolto - seppur in parte - tutte le domande proposte dai C. ed osservano che, se il Tribunale avesse voluto respingere la domanda per responsabilità aggravata, avrebbe dovuto motivarne le ragioni. Il motivo è infondato e va rigettato la sentenza impugnata infatti motiva sul punto, in relazione al limitato accoglimento delle domande dei C. ed al parziale accoglimento delle contrapposte pretese del L. . Con il quarto motivo , i ricorrenti denunciano la violazione e falsa applicazione, ai sensi dell’art. 360 n. 3 c.p.c., degli artt. 91 e 92 c.p.c In ordine alle statuizioni sulle spese, lamentano che le domande formulate dagli appellanti siano state accolte, con reformatio della sentenza, e che pertanto né le spese di primo grado, né quelle di secondo grado, avrebbero potuto essere addebitate a nessuno dei Signori C. . Osservano inoltre che, anche qualora tale inquadramento non fosse stato ritenuto applicabile dal Tribunale, in ogni caso il Giudice avrebbe dovuto applicare il secondo comma dell’art. 92 c.p.c. Lamentano infatti che, essendo la soccombenza reciproca stata riconosciuta anche dal Tribunale, lo stesso avrebbe per lo meno dovuto compensare in toto tra le parti anche le spese di primo grado. Il motivo è infondato. Il tribunale ha motivatamente deciso sulle spese considerando, quanto al C.E. , che la riconvenzionale del L. non era rivolta nei suoi confronti, nonché l’esito complessivo della lite nei rapporti tra la C.M. e l’avvocato. Quanto al secondo profilo, con il quale i ricorrenti contestano che il tribunale non si sia avvalso del potere di compensare integralmente le spese di lite di primo e secondo grado, la censura è inammissibile per la parte in cui lamenta la mancata compensazione delle spese dei gradi di merito, ai sensi dell’art. 92 cod. proc. civ., dal momento che, in tema di spese processuali, la facoltà di disporne la compensazione tra le parti rientra nel potere discrezionale del giudice di merito, il quale non è tenuto a dare ragione con una espressa motivazione del mancato uso di tale sua facoltà, con la conseguenza che la pronuncia di condanna alle spese, anche se adottata senza prendere in esame l’eventualità di una compensazione, non può essere censurata in cassazione, neppure sotto il profilo della mancanza di motivazione Cass. S.U. n. 14989/05 e numerose altre . Trattasi di principio applicabile anche dopo le modifiche dell’art. 92, comma secondo, cod. proc. civ., perché l’obbligo di motivazione imposto da questa norma riguarda l’ipotesi in cui la compensazione sia disposta, ma non anche l’ipotesi in cui si segua il principio della soccombenza che l’art. 91 cod. proc. civ. pone come regola in tema di riparto delle spese di lite, essendo la compensazione dell’art. 92, comma secondo, cod. proc. civ. prevista come eccezione . Poiché nella specie il giudice ha osservato l’art. 91 cod. proc. civ., è inammissibile la censura che si basa su norma non applicata, e soltanto discrezionalmente applicabile. Il ricorso va complessivamente rigettato. Le spese di lite del grado, stante il limitato accoglimento delle domande di merito proposte dall’una e dell’altra parte, possono essere integralmente compensate. Il ricorso per cassazione è stato proposto in tempo posteriore al 30 gennaio 2013, e i ricorrenti risultano soccombente, pertanto sono gravati dall’obbligo di versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1 bis dell’art. 13, comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso. Compensa le spese tra le parti. Dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte dei ricorrenti di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale.