Avvocato sospeso dall’esercizio della professione: sanzione illegittima

Il nuovo Codice Deontologico Forense prevede una sanzione – quella della censura – inferiore a quella della sospensione dall’esercizio della professione, nella specie per due mesi, applicata dal COA nella vigenza del Codice Deontologico del 2007, e confermata dal CNF con una sentenza deliberata prima del 15 dicembre 2014, ma depositata successivamente.

Così la Corte di Cassazione con la sentenza n. 18395/16, depositata il20 settembre. Il caso. Un avvocato veniva ritenuta responsabile della violazione dell’art. 48 del Codice Deontologico, in quanto, dopo aver acquisito informazioni da una propria cliente in ordine alle condotte del convivente more uxorio , lo riceveva nel proprio studio e, senza avvertirlo della possibilità di farsi assistere da un legale di fiducia, procedeva alla determinazione delle condizioni di separazione con accordi chiaramente sfavorevoli per il convivente, il quale aderiva alla proposta consensuale per il timore delle conseguenze della divulgazione delle notizie acquisite sul suo conto dalla convivente e da queste riferite all’avvocato. A seguito di tale illecito il COA di Monza applicava la sanzione sella sospensione per due mesi. Il CNF rigettava il ricorso, condividendo le valutazioni del COA. Per la cassazione di questa sentenza ricorre l’avvocato. Sanzione applicabile censura. Con il primo motivo di ricorso la ricorrente si duole del fatto che il CNF non abbia applicato le disposizioni del nuovo ordinamento della professione forense, entrato in vigore il 2 febbraio 2013, e quindi prima della discussione del ricorso. Con il secondo motivo contesta, invece, la mancata applicazione del Codice Deontologico entrato in vigore il 15 dicembre 2014, del quale il CNF non ha tenuto conto pur se la decisione è stata depositata successivamente a tale data, rilevando che il nuovo codice prevede una sostanziale tipizzazione degli illeciti e che l’illecito considerato dall’art. 48 del previgente codice deontologico è contenuto nell’art. 65 del nuovo codice che, al comma 4, prevede che la sanzione applicabile sia quella della censura. Con il terzo, lamenta la mancata valutazione dell’elemento soggettivo dell’illecito, atteso che l’unico addebito che poteva essere mosso era quello della mancata informazione scritta della possibilità di farsi assistere da altro difensore. Successione nel tempo delle norme. Per la Suprema Corte i primi due motivi di ricorso sono fondati. La legge n. 247/2012, in vigore dal 2 febbraio 2013, contempla all’art. 65, quinto comma, la seguente disposizione l’entrata in vigore del codice deontologico determina la cessazione di efficacia delle norme previgenti anche se non specificamente abrogate. Le norme contenute nel codice deontologico si applicano anche ai procedimenti disciplinari in corso al momento della sua entrata in vigore, se più favorevoli per l’incolpato . Da qui il rilievo che, nel fissare il momento di transizione dall’operatività del vecchio a quella del nuovo codice deontologico, la nuova legge professionale sancisce che la successione nel tempo delle norme dell’allora vigente e di quelle dell’allora emanando nuovo codice deontologico deve essere improntata al principio del favore rei . Sanzione illegittima. E’ sufficiente dunque rilevare che il nuovo codice deontologico prevede una sanzione – quella della censura – inferiore a quella della sospensione dall’esercizio della professione, nella specie per due mesi, applicata dal COA nella vigenza del codice deontologico del 2007, e confermata dal CNF con una sentenza deliberata prima del 15 dicembre 2014, ma depositata successivamente, per concludere che la sanzione in concreto applicata alla ricorrente si presenta illegittima. In conclusione, i primi due motivi di ricorso devono essere accolti. La sentenza impugnata va cassata in relazione alle censure accolte, con rinvio per un nuovo esame al CNF.

Corte di Cassazione, sez. Unite Civili, sentenza 24 maggio – 20 settembre 2016, n. 18395 Presidente Canzio – Relatore Petitti Svolgimento del processo 1. - L’Avvocato G.R. è stata ritenuta responsabile della violazione dell’art. 48 del codice deontologico 2007 , in quanto, dopo avere acquisito informazioni da una propria cliente in ordine alle condotte del convivente more uxorio, suscettibili anche di rilevanza penale, lo riceveva nel proprio studio e, senza avvertirlo della possibilità di farsi assistere da un legale di fiducia, procedeva alla determinazione delle condizioni di separazione con accordi chiaramente sfavorevoli per il convivente, il quale aderiva alla proposta consensuale per il timore delle conseguenze della divulgazione delle notizie acquisite sul suo conto dalla convivente e da questa riferite all’Avvocato G. . Per tale illecito il COA di XXXXX applicava la sanzione della sospensione per due mesi. Il CNF, con sentenza deliberata nell’aprile 2013 e depositata nel giugno 2015, ha rigettato il ricorso, condividendo le valutazioni del COA sia in ordine alla riconducibilità della condotta contestata nell’ambito dell’art. 48 cod. deon. sia quanto alla valutazione delle risultanze istruttorie, consistenti nelle dichiarazioni dei due interessati, posti anche a confronto, e di una addetta allo studio dell’Avvocato G. sia in ordine alla irrilevanza della sostanziale coincidenza delle condizioni di separazione concordate presso lo studio con quelle poi adottate dal Presidente del Tribunale sia infine quanto alla entità della sanzione. Per la cassazione di questa sentenza l’Avvocato G. ha proposto ricorso affidato a cinque motivi. Nessuno degli intimati ha svolto attività difensiva. Avendo la ricorrente proposto contestuale istanza di sospensione della esecuzione della sentenza del COA, questa Corte, con ordinanza n. 21828 del 2015, adottata all’esito della discussione all’adunanza camerale del 20 ottobre 2015, ha disposto la sospensione della sanzione disciplinare di cui alla impugnata sentenza del CNF. La trattazione del ricorso nel merito è quindi stata fissata per l’udienza del 24 maggio 2016. Motivi della decisione 1. - Con il primo di ricorso la ricorrente si duole del fatto che il CNF non abbia applicato le disposizioni del nuovo ordinamento della professione forense entrato in vigore il 2 febbraio 2013, e quindi prima della discussione del ricorso, e ciò nonostante che l’art. 65, comma 5, della legge n. 247 del 2012, disponga che le norme contenute nel codice deontologico si applicano anche ai procedimenti disciplinari in corso al momento della sua entrata in vigore, se più favorevoli per l’incolpato. Con il secondo motivo la ricorrente contesta la mancata applicazione del codice deontologico entrato in vigore il 15 dicembre 2014, del quale il CNF non ha tenuto conto pur se la decisione è stata depositata successivamente a tale data, rilevando che il nuovo codice prevede una sostanziale tipizzazione degli illeciti e che l’illecito considerato dall’art. 48 del previgente codice deontologico è contenuto nell’art. 65 del nuovo codice che, al comma 4, prevede che la sanzione applicabile sia quella della censura. Con il terzo motivo la ricorrente lamenta la mancata valutazione dell’elemento soggettivo dell’illecito, a fronte della entrata in vigore del nuovo codice deontologico, atteso che l’unico addebito che poteva essere mosso era quello della mancata informazione scritta della possibilità di farsi assistere da altro difensore. Con il quarto motivo la ricorrente deduce vizio di omesso esame di fatto decisivo costituito dai decreti emessi dal Tribunale per i minorenni e dalla espletata consulenza tecnica d’ufficio, e con il quinto motivo violazione di legge e carenza di motivazione in ordine all’attendibilità del denunciante e all’accertamento della responsabilità oltre ogni ragionevole dubbio. 2. - Il ricorso è stato notificato non solo al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di XXXXX, ma anche al Consiglio Nazionale Forense. In ricorso, in relazione al CNF, deve ritenersi inammissibile, atteso che il CNF è il giudice che ha emesso la decisione qui impugnata e che per definizione non può essere parte del procedimento di impugnazione. 3. - È logicamente preliminare l’esame del terzo, del quarto e del quinto motivo di ricorso, trattandosi di motivi che pongono in discussione la sussistenza stessa dell’illecito contestato. 3.1. - Il terzo motivo è infondato. Il CNF ha ritenuto priva di pregio la censura con la quale la ricorrente aveva contestato la decisione del COA sotto il profilo della insussistenza dell’elemento soggettivo dell’illecito contestato. A tale conclusione il CNF è pervenuto all’esito della ricostruzione in fatto della intera vicenda oggetto di incolpazione, ritenendo incontestabile la sussistenza dell’elemento soggettivo, sul rilievo che la responsabilità disciplinare prevista dall’ordinamento forense e dal codice deontologico prescinde dall’elemento intenzionale del dolo o della colpa, essendo sufficiente a configurare la violazione una condotta cosciente e volontaria. Tale motivazione appare idonea anche alla luce delle innovazioni introdotte dal codice deontologico forense, approvato il 31 gennaio 2014 e applicabile anche ai procedimenti in corso al momento della sua entrata in vigore, se più favorevoli per l’incolpato, ai sensi dell’art. 65, comma 5, della legge 31 dicembre 2012, n. 247 Cass., S.U., n. 3023 del 2015 . L’art. 4 del codice deontologico, infatti, dispone al comma 1 che la responsabilità disciplinare discende dalla inosservanza dei doveri e delle regole di condotta dettati dalla legge e dalla deontologia, nonché dalla coscienza e volontà delle azioni od omissioni . E, nel caso di specie, la ricostruzione in fatto della intera vicenda, quale emerge dalla sentenza impugnata, è tale da dare ampiamente conto delle ragioni per le quali il CNF ha ritenuto la condotta della ricorrente - consistita nella omessa informazione al convivente more uxorio della sua cliente della possibilità di farsi assistere da un legale di fiducia - cosciente e volontaria. Per il resto, le censure della ricorrente si infrangono contro il principio affermato da queste Sezioni Unite, per cui le decisioni del Consiglio nazionale forense in materia disciplinare sono impugnabili dinanzi alle sezioni unite della Corte di Cassazione, ai sensi dell’art. 56 del r.d.l. n. 1578 del 1933, soltanto per incompetenza, eccesso di potere e violazione di legge, con la conseguenza che l’accertamento del fatto, l’apprezzamento della sua rilevanza rispetto alle imputazioni, la scelta della sanzione opportuna e, in generale, la valutazione delle risultanze processuali non possono essere oggetto del controllo di legittimità, salvo che si traducano in un palese sviamento di potere, ossia nell’uso del potere disciplinare per un fine diverso da quello per il quale è stato conferito Cass., S.U., n. 2637 del 2009 . Quanto al vizio di motivazione deducibile in sede di legittimità, deve rilevarsi che il presente ricorso è, ratione temporis , soggetto all’applicazione dell’art. 360, n. 5, cod. proc. civ., riformulato dall’art. 54 del decreto-legge 22 giugno 2012, n. 83, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, n. 134. In relazione a tale modificazione, queste Sezioni Unite hanno avuto modo di precisare che la riformulazione dell’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ. deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 delle preleggi, come riduzione al minimo costituzionale del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico , nella motivazione apparente , nel contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili e nella motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile , esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di sufficienza della motivazione Cass., S.U., n. 8053 del 2014 . Orbene, dalle argomentazioni svolte dalla ricorrente, emerge con chiarezza che non è questa anomalia motivazionale ad essere denunciata, ma unicamente una insufficiente motivazione sulla illegittimità della condotta da essa posta in essere. 3.2. - Il quarto motivo è infondato. Invero, contrariamente all’assunto della ricorrente, il CNF, dopo aver dato conto delle censure proposte avverso la decisione del COA di XXXXX - e, tra queste, di quella relativa alla sostanziale coincidenza delle condizioni di separazione convenute con quelle poi adottate con provvedimento provvisorio dal Tribunale per i minorenni - ha rilevato, da un lato, che non competeva all’Avvocato G. di realizzare una situazione da lei ritenuta di giustizia sostanziale e, dall’altro, che comunque l’accordo fatto sottoscrivere al D. si presentava in realtà estremamente sbilanciato, essendo decisamente favorevole alla Rocchi, e cioè all’assistita dell’Avvocato G. . Risulta, dunque, evidente la insussistenza del denunciato vizio di omesso esame di fatto decisivo, rivolgendosi piuttosto le deduzioni della ricorrente, inammissibilmente, all’apprezzamento del detto fatto da parte del CNF. 3.3. - Il quinto motivo di ricorso è inammissibile, poiché con esso si denuncia una carenza di motivazione in punto attendibilità del denunciante e responsabilità oltre ogni ragionevole dubbio . Si è già richiamato il principio affermato in ordine alla consistenza del vizio oggi deducibile in sede di legittimità con riguardo alla motivazione dei provvedimenti impugnati e, nella specie, non solo dalla rubrica del motivo in esame, ma dalle argomentazioni svolte dalla ricorrente, emerge con chiarezza che non è denunciata un’anomalia motivazionale lesiva del minimo costituzionale, ma unicamente una insufficiente motivazione sull’attendibilità del denunciante e quindi sulla ritenuta responsabilità oltre ogni ragionevole dubbio. 4. - Il primo e il secondo motivo del ricorso, all’esame dei quali può procedersi congiuntamente per evidenti ragioni di connessione delle proposte censure, sono fondati. 4.1. - Si è già rilevato che queste Sezioni Unite hanno avuto modo di affermare che in tema di giudizi disciplinari nei confronti degli avvocati, le norme del codice deontologico forense approvato il 31 gennaio 2014 si applicano anche ai procedimenti in corso al momento della sua entrata in vigore, se più favorevoli per l’incolpato, avendo l’art. 65, comma 5, della legge 31 dicembre 2012, n. 247, recepito il criterio del favor rei , in luogo del criterio del tempus regit actum Cass., S.U., n. 3023 del 2015 . A fondamento di tale soluzione si è rilevato che la legge n. 247 del 2012 Nuova disciplina dell’ordinamento della professione forense , in vigore dal 2 febbraio 2013, contempla all’art. 65 rubricato Disposizioni transitorie un comma il quinto, interamente dedicato all’emanando nuovo codice deontologico , che si conclude con le seguenti proposizioni L’entrata in vigore del codice deontologico determina la cessazione di efficacia delle norme previgenti anche se non specificamente abrogate. Le norme contenute nel codice deontologico si applicano anche ai procedimenti disciplinari in corso al momento della sua entrata in vigore, se più favorevoli per l’incolpato . Da qui il rilievo che, nel fissare il momento di transizione dall’operatività del vecchio a quella del nuovo codice deontologico, la nuova legge professionale sancisce esplicitamente - così prevenendo le incertezze interpretative manifestatesi in occasione di precedenti successioni di norme deontologiche e, peraltro, risolte in base al diverso criterio del tempus regit actum cfr. Cass., S.U., n. 15120 del 2013 Cass., S.U., n. 28159 del 2008 - che la successione nel tempo delle norme dell’allora vigente e di quelle dell’ allora emanando nuovo codice deontologico e delle ipotesi d’illecito e delle sanzioni da esse rispettivamente contemplate deve essere improntata al criterio del favor rei . 4.2. - In tale prospettiva, deve, constatarsi che il nuovo codice deontologico approvato il 31 gennaio 2014, pubblicato il 16 ottobre 2014 ed entrato in vigore il 15 dicembre 2014 - presenta, tra le principali innovazioni rispetto al codice previgente, la ancorché non assoluta, certamente tendenziale tipizzazione degli illeciti e la predeterminazione delle sanzioni correlativamente applicabili. 4.3. - Alla ricorrente è stato contestato l’addebito di cui all’art. 48 del codice deontologico forense del 2007, a tenore del quale l’intimazione fatta dall’avvocato alla controparte tendente ad ottenere particolari adempimenti sotto comminatoria di azioni, istanze fallimentari, denunce o altre sanzioni, è consentita quando tenda a rendere avvertita la controparte delle possibili iniziative giudiziarie in corso o da intraprendere è deontologicamente scorretta, invece, tale intimazione quando siano minacciate azioni od iniziative sproporzionate o vessatorie. I. Qualora ritenga di invitare la controparte ad un colloquio nel proprio studio, prima di iniziare un giudizio, l’avvocato deve precisarle che può essere accompagnata da un legale di fiducia. II. L’addebito alla controparte di competenze e spese per l’attività prestata in sede stragiudiziale è ammesso, purché la richiesta di pagamento sia fatta a favore del proprio assistito . Nel codice deontologico del 2014, applicabile nella specie atteso che la decisione del CNF è stata depositata successivamente alla sua entrata in vigore, la condotta contestata è ora prevista dall’articolo 65, il quale sotto la rubrica Minaccia di azioni alla controparte , stabilisce che 1. L’avvocato può intimare alla controparte particolari adempimenti sotto comminatoria di azioni, istanze fallimentari, denunce, querele o altre iniziative, informandola delle relative conseguenze, ma non deve minacciare azioni o iniziative sproporzionate o vessatorie. 2. L’avvocato che, prima di assumere iniziative, ritenga di invitare la controparte ad un colloquio nel proprio studio, deve precisarle che può essere accompagnata da un legale di fiducia. 3. L’avvocato può addebitare alla controparte competenze e spese per l’attività prestata in sede stragiudiziale, purché la richiesta di pagamento sia fatta a favore del proprio cliente. 4. La violazione dei doveri di cui ai precedenti commi comporta l’applicazione della sanzione disciplinare della censura . È quindi sufficiente rilevare che il nuovo codice deontologico prevede una sanzione - quella della censura - inferiore a quella della sospensione dall’esercizio della professione, nella specie per due mesi, applicata dal COA nella vigenza del codice deontologico del 2007, e confermata dal CNF con una sentenza deliberata prima del 15 dicembre 2014, ma depositata successivamente, per concludere che la sanzione in concreto applicata alla ricorrente si presenta illegittima. 5. - In conclusione, i primi due motivi di ricorso devono essere accolti. La sentenza impugnata deve essere cassata in relazione alle censure accolte, con rinvio per nuovo esame al Consiglio Nazionale Forense, in diversa composizione. Le spese del presente giudizio possono essere compensate in considerazione del fatto che il ricorso è stato accolto unicamente quanto alla sanzione applicata. P.Q.M. La Corte, pronunciando a Sezioni Unite, accoglie il primo e il secondo motivo di ricorso, rigettati gli altri cassa la sentenza impugnata limitatamente alla sanzione applicata e rinvia la causa al Consiglio Nazionale Forense, in diversa composizione.